venerdì 20 dicembre 2024

THE CREEPING TERROR (1964)

Regia A.J. Nelson (alias Vic Savage) 

Cast Vic Savage, Shannon O'Neil, William Thourlby 

Parla di “cosa può accadere quando l’effettista scappa con il costume del mostro alieno e non ti resta a disposizione nient’altro che una vecchia coperta” 

Trovo alquanto ingiusto considerare quest’opera come il “peggior film di tutti i tempi” secondo solo a “Plan 9 from outer space”, anche perché il primo posto, questo film, se lo merita tutto. Parliamoci chiaro, il capolavoro di Edward Wood jr., al confronto, sembra roba da poppanti. Qua la bruttezza rasenta la maestria, al netto di tutte le vicissitudini che la lavorazione del film ebbe a subire. Primo fra tutti, l’addetto agli effetti speciali, il quale piccato dal mancato pagamento delle fatture, ha pensato bene di darsi alla macchia portandosi via anche il costume del mostro e costringendo il povero Vic Savage (protagonista e regista con lo pseudonimo A.J. Nelson) a ripiegare su vecchie coperte e pelli d’animale.

In questo modo fu possibile realizzare l’irrealizzabile, la più ridicola creatura aliena di sempre, una specie di torpedone di stoffa al cui interno ciondolavano due povere comparse totalmente ignare della direzione da seguire, con tanto di testone penzolante pieno di tubicini, zampette di stoffa e un buco nel mezzo in cui venivano infilate a forza le vittime. Come se non bastasse poi, la scoperta a fine girato, della perdita dell’audio, il che obbligò sempre il povero Savage (che leggenda vuole montò il film da solo, in una stanza d’albergo, con una moviola senza sonoro) a ripiegare su una voce narrante e pochi, sparuti, dialoghi, registrati con la cornetta telefonica. 

Il risultato è che il film ci viene costantemente spiegato da Larry Burrell (manco accreditato!) il quale non lesina in dettagli cui non frega un cazzo a nessuno come un assurdo pippone moralistico sulle gioie dell’amore tra Savage e la neo-mogliettina Brett (Shannon O'Neil) su un divano mentre il collega poliziotto li guarda imbarazzato. Il film, inizia infatti, con il rientro dalla luna di miele del vicesceriffo Martin e il concomitante atterraggio (praticamente la ripresa mandata al contrario della partenza di un missile americano) di un’astronave aliena. Giunto sul posto, lo sceriffo ha la malaugurata idea di infilarsi nello scafo e finire malissimo (almeno dalle urla), poi vediamo il nostro adorato lumacone alieno ciondolare nei boschi e inghiottire una ragazza abbandonata sul prato dal fidanzato pusillanime. Arriva il Dr. Bradford (William Thourlby) esimio scienziato esperto di comunicazioni con gli extraterrestri (come gentilmente ci fa notare la voce narrante) anche se, al lato pratico non ha mai comunicato con nessun alieno prima d’ora. Infilatosi nell’astronave (che i primi sospetti vedevano addirittura come velivolo sovietico) l’aitante luminare scopre che c’è un alieno legato al suo interno, in mezzo a quello che sembra un magazzino di vecchie radio usate (Ah! L’incredibile tecnologia aliena!). Il mostro, nel frattempo, cammina per i boschi con una lentezza da cavare la pelle ma nonostante questo riesce a papparsi una giovane casalinga dal vestito improponibile, un ragazzino saltellante e il suo nonno trippone. Ma la sua cavalcata (lenta ma inesorabile e condita da suoni e versacci che sembrano pernacchie) non si arresta e irrompe ad una festa dove il regista ci propone per mezz’ora le stesse due riprese di ragazzi che ballano il twist per poi caracollare nel boschetto dei pomicioni dove ribalta due volte un’auto tutta pasticciata (nella prima rovesciata vediamo il cadavere del guidatore, nella seconda anche quello di una ragazza che magicamente è comparsa dal nulla). Sul finale arriva l’esercito ma vengono miseramente inghiottiti in massa dall’alieno in un bailamme di rara comicità dove vediamo i soldati cadere uno sopra l’altro mentre indietreggiano davanti alla mostruosa coperta. 

Segue poi una confusione incredibile dove un sergente sta per lanciare una granata sul mostro, inciampa e ruzzola per terra. Poi lo scienziato inciampa e cade a terra a sua volta (buona la prima eh!), si infila, strisciando, nello scafo e, senza motivo, ne esce tutto bruciacchiato e insanguinato. Poi tocca a Martin entrare nello scafo e cominciare a martellare dappertutto per evitare che il computer di bordo invii i dati sugli esseri umani (si perché si scopre che i due alieni inglobavano le persone per analizzarle, mica per mangiarle..eh!) ma fallisce miseramente. Per fortuna ci pensa il Dr. Bradford in punto di morte a darci una nota positiva, asserendo che solo Dio sa cosa può succedere in futuro. Di sicuro noi non sappiamo cosa accade al buon Vic Savage dopo la fine della lavorazione. Accusato di frode da più parti, il regista scomparve misteriosamente anche se, notizie successive, lo danno morto a 41 anni per insufficienza epatica. Di sicuro questo film gli ha fatto rodere il fegato più del necessario e visto il risultato, anche piuttosto inutilmente. 

venerdì 13 dicembre 2024

BLOODY NEW YEAR (1987)

Regia Norman J. Warren 

Cast  Suzy Aitchison, Nikki Brooks, Colin Heywood 

Parla di “gruppo di coppiette fugge da bulletti del Luna Park per ritrovarsi in un albergo fantasma su un isola deserta dove Natale e Capodanno non sono mai finiti” 

L’ultimo lungometraggio della seppur scarna filmografia di Norman J.Warren (autore di quel piccolo capolavoro della fantascienza di serie Z che era “Inseminoid”) sembra il titolo ideale per tutti quelli che, come me, non reggono i capodanni. Segnato da problematiche produttive già minate da un budget striminzito, il film è una sorta di connubio tra Shining (quello turco però), La Casa di Sam Raimi e Philadelphia Experiment, realizzato con attori di scarsa qualità, fotografia inesistente, situazioni paradossali e una deliziosa anarchia che mette in scene un vero e proprio helzapoppin’ di effetti artigianalissimi ed estetica trash oltre ogni perversione. 

Ci sono queste due coppiette al Luna Park insieme al solito sfigato della compagnia di nome Spud il quale, per non reggere il moccolone e trovarsi una compagna, decide di salvare cavallerescamente una ragazza di nome Carol, infastidita da due bulletti attempati a cui si unisce anche il gestore della giostra. Dopo una serie di inseguimenti pazzeschi, il gruppo di ragazzi fugge in mare su una barchetta che però affonda costringendoli ad approdare su un’isoletta, Qui c’è un vecchio albergo rimasto addobbato ancora al periodo natalizio e completamente abbandonato. Qui i ragazzi non tarderanno ad accorgersi che qualcosa non va. Cameriere che appaiono e scompaiono, apparizioni allo specchio, oggetti che si animano e via così fino alla sistematica decimazione del gruppo. Compaiono anche i bulli, che nel frattempo sono giunti con la barca sull’isola, il gestore delle giostre sfonda lo stomaco di una delle ragazze che però si trasforma in una sorta di strega pazza dalla faccia argentata. 

C’è persino un omaggio a Nightmare – Dal profondo della notte con un ascensore le cui pareti inghiottono un’altra ragazza. E poi piatti che volano, coltelli che sfrecciano, pomoli delle scale a forma di uccello che azzannano, involucri di plastica che si traformano in una cosa simile al mostro della palude della Marvel, il tutto senza mai un minimo di tregua. La causa di tutto sembra essere un aereo sperimentale del governo americano precipitato sull’isola durante i festeggiamenti del 1960 come ci illustra il flashback iniziale in cui un gruppo di festanti scompare misteriosamente mentre fanno il classico trenino di capodanno. Warren omaggia esplicitamente anche uno scultone della sci-fi degli anni cinquanta mettendo in scena la proiezione di “Fiend without a face”, omaggio che prosegue successivamente con un bel poster del film appeso ad una parete dell’albergo.

Curiosamente il film sembra quasi privo di colonna sonora, se si eccettuano alcune canzoncine del gruppo Cry No More e qualche inserto elettronico realizzato da un certo Nick Magnus. Di certo non il miglior lavoro di Warren (del resto lo ha ammesso anche lui), resta comunque un bel filmaccio di serie ultra zeta con cui ci si può senz’altro divertire, sicuramente di più che ad un qualche sfigatissimo party di fine anno. 

venerdì 6 dicembre 2024

LA CALDA BESTIA DI SPILBERG


(Helga, la louve de Stilberg, 1977) 

Regia Alain Payet 

Cast Malisa Longo, Patrizia Gori, Dominique Aveline 

Parla di “giunonica dominatrice dirige castello prigione a colpi di frusta ma soprattutto a botte di sesso” 

Nonostante il titolo evochi suggestioni nazisploitation e nonostante il film stesso sia un tentativo alquanto rozzo di clonare il successo di Ilsa, la belva delle SS, in quest’opera gli unici assenti sono proprio i nazisti. In realtà non si capisce bene né l’ambientazione né il tipo di dittatura che viene instaurata all’inizio. Sappiamo solo che c’è un omone barbuto con casacca piena di medaglioni sullo stile di Pinochet, che si trastulla con una serva di colore mentre tiene una riunione con i suoi generali. E’ lecito quindi supporre a qualcosa tipo dittatura sudamericana, anche vedendo le divise dei soldati che ricordano quelle apparse in “Emanuelle in America” nell’arcinoto finto snuff inserito nel film di Joe D’Amato. 

Resta comunque un W.I.P. (women in prison) di provenienza francese costruito (è proprio il caso di dirlo) sul corpo di Malisa Longo interprete di Elsa, giunonica matrona bisessuale dalla frusta facile che, nello specifico, viene incaricata di gestire la prigione/castello di Spilberg (ch
e nell’originale era Stilberg ma la distribuzione italiana lo ha modificato forse per omaggiare il celebre regista) dove vengono recluse un gruppo di prigioniere in casaccona marrone sotto alla quale non portano neanche le mutandine, tant’è che le vediamo dormire nude con le scarpe (sic!), così tanto per facilitare i pruriti lesbo/saffici che inevitabilmente il genere impone. Ogni settimana le ragazze vengono selezionate da un certo doc che ne sceglie una a caso con cui sollazzarsi in cambio di bottiglie di vino ai soldati. Poi arriva Elisabetta (Patrizia Gori), la figlia del capo ribelle Vogel  con cui Elsa tenta di stabilire rapporti sessuali fallimentari. 

Se già la trama non dice nulla di interessante, il film risulta ancora meno attraente, sia per l’assenza di scene sessuali vere e proprie ma solo ridicoli sdrusciamenti nella paglia e qualche smanacciata sul seno, sia per la mancanza di scene violente eccettuata qualche loffia frustata qua e là. Insomma se il tentativo era quello di imitare la Thorne, siamo lontani mille miglia dall’originale. Dulcis in fundo il combattimento finale con i ribelli oltre ad essere montato alla cazzo di cane, è talmente incasinato da far pensare che il regista Alain Payet (noto soprattutto nell’ambiente a luci rosse con lo pseudonimo di John Love) sia andato a farsi una sveltina mentre gli attori correvano su e giù per il fiabesco castello. 

venerdì 29 novembre 2024

THE SEXORCIST (1974)

Regia Ray Dennis Steckler 

Cast Carolyn Brandt, Kelly Guthrie, Lilly Lamarr 

Parla di “ demonologo evoca un demone che possiede una prostituta che possiede i clienti che possiedono i soldi” 

Originariamente il titolo era Undressed to kill, ma poi visto il successo del film di William Friedkin e visto comunque che il tema trattato era quello di una possessione demoniaca, fu modificato opportunamente in The Sexorcist’s devil e successivamente nel più immediato The Sexorcist. Del resto il buon Ray Dennis Steckler, monumentale personaggio del cinema spazzatura americano (vi dice niente “The Incredibly Strange Creatures Who Stopped Living and Became Mixed-Up Zombies!!?”. No? Smettete di seguirci...tanto è inutile!), era specializzato nel vendere i film piuttosto che a realizzarli. 

E la qualità (pessima) si vede tutta anche in questo porno horror a bassissimo costo dove la reporter Janice Lightning (Carolyn Brandt) segue il celebre demonologo Prof. Ernest Von Kleinsmidt (Kelly Guthrie) in camporella dov
e stranamente non ci sono scene di sesso ma bensì il ritrovamento di una pergamena appartenuta ad una setta di adoratori di satana ma soprattutto adoratori del sesso. Janice torna a casa e trova la sua compagna di stanza, la prostituta Diane (Lilly Lamarr) intenta a praticare una fellatio al suo fidanzato, cosa che del resto farà per tutto il film praticando una serie infinita di pompini. Nel frattempo il professore evoca un misterioso personaggio che si chiama Volta (Doug Darush) ed è praticamente il sosia di Steve Buscemi con indosso un saio da monaco. Volta si reca da Diane e si fa praticare un blowjob dopodichè la possiede, sia carnalmente sia spiritualmente, inducendola a massacrare uno dei suoi clienti, un ciccione con il cazzo talmente piccolo che Diane si deve accontentare di un cunniling. 

A seguire anche il fidanzato farà la stessa fine mentre il professore passa tutto il film a guardarsi i quadri in soggiorno e a mormorare “evil” in continuazione, almeno fino a quando Janice non lo avvisa che Diane è posseduta. A questo punto Janice viene uccisa da Diane, il professore giunge nella casa e comincia a pronunciare frasi per scacciare il demonio ma finisce anche lui ucciso in piscina. La Brandt aveva già lavorato con Steckler nei film precedenti e non è un’attrice porno (a dir la verità non è neanche un’attrice), infatti non si spoglia per tutto il film delegando tutti i contenuti erotici alla povera Lily Lamarr che quando ingoia lo sperma, passa il tempo a giocare con gli spermatozoi , facendoli a palline. Dura un’oretta scarsa, unico vera nota positiva che si può attribuire a questa pellicola davvero disastrosa. 

venerdì 22 novembre 2024

CONTAGIO 1992 (The carrier, 1988)

Regia Nathan J. White 

Cast Gregory Fortescue, Stevie Lee, Steve Dixon 

Parla di “ragazzino incavolato viene assalito da cosa nera e diventa untore di un contagio che scioglie le persone” 

Giuro che se non fosse per il tripudio di situazioni weirdo, la sceneggiatura non sense e i dialoghi deliranti, sarei quasi tentato di gridare al capolavoro! L’unica prova registica di Nathan J. White (e si capisce il perché…) ha il coraggio di affrontare una trama originalissima, assurda, qualcosa che mai nessuno aveva osato e mai oserà sulla Terra. La storia parte dapprima con il protagonista, un ragazzino di nome Jack (Gregory Fortescue) che è un po’ il paria del villaggio. Guarda fuori dalle finestre dove si tiene la festa del paese, finchè una ragazzina (che lo perseguiterà per tutto il film) lo avvisa di non entrare perché potrebbe rimanerci secco. 

Il ragazzo è, difatti, accusato di aver dato fuoco alla casa dei genitori provocandone la morte (anche se lui non ricorda nulla) e siccome è anche un po’ idiota entra nella sala e, come volevasi dimostrare, si prende un sacco di mazzate. Tornato a casa per alcolizzarsi con il Jack Daniels, il giovane viene improvvisamente assalito da una strana creatura pelosa e nerissima (Cosacosacosa????) che lo ferisce al petto prima di disintegrarsi sotto la pioggia. A questo punto Jack diventa una specie di untore per un insolito contagio che non attacca le persone ma bensì le pareti, gli oggetti, gli alberi (ma non il terreno e le strade). Chi viene a contatto con questa contaminazione rimane appiccicato all’oggetto e si squaglia lentamente in una nube di fumo. Il primo a farne le spese è un vecchio reduce a cui viene amputato il braccio, segue una giovinetta che viene violentata dal suo ragazzo e dalla disperazione si attacca ad un albero infetto facendo sciogliere anche lo stupratore dentro di sé. Da qui in poi è un delirio in cui gli abitanti del villaggio iniziano a testare pareti e oggetti dapprima con i pulcini e poi con i gatti, questi ultimi diventano talmente importanti da scatenare una faida tra quelli che si sono riuniti nel bar e quelli chiusi nella chiesa cittadina, una faida al grido di “O gatti o morte”! Gradualmente i villici iniziano a bardarsi con sacchi di spazzatura, bottiglie di plastica, cellophane e coperte bucate, diventando una sorta di barbarica orda armata di asce e forconi. 

Il povero Jack intanto scopre che sono stati i suoi vicini a ordinare la morte dei genitori e scatena la sua vendetta dando vita ad un massacro cittadino finchè, dopo aver sciolto un neonato in chiesa, non rivelerà la sua natura di paziente zero e verrà inseguito da tutto il villaggio morendo mussolinianamente a testa in giù. Se siete riusciti a raggiungere la fine di questa lettura senza impazzire, dovete ancora testare il film stesso, che tra l’altro non è fatto neanche male, dotato com’è di una certa cattiveria gratuita che non risparmia animali e bambini (demenziale la festa al pub in cui si lanciano gattini sulle pareti per farli sciogliere). Realizzato nel 1988, da noi uscì in VHS nel 1992 ma dalla fotografia e dall’uso dei colori e delle ombre, il film sembra quasi girato negli anni settanta. 

venerdì 8 novembre 2024

SUPERMOUSE AND THE ROBORATS (1989)

Regia Tony Y. Reyes 

Cast Joey De Leon, Rene Requiestas, Manilyn Reynes 

Parla di “circense scopre di
essere per metà un supertopo alieno e si attiva per combattere invasione aliena e regalare un po’ di azione al film nell’ultima mezz’ora” 

Se non fosse per l’insormontabile ostacolo linguistico, il cinema filippino ci permetterebbe di scovare autentiche perle in ambito trash, alcune, le più rilevanti, giungono in ogni caso, precedute dalla loro fama. E’ il caso di questo assurdo mix tra commedia, cinema di fantascienza e supereroi che pochi cultori conoscono, autentica perla del non sense che qualcuno dovrebbe doppiare o almeno sottotitolare.

 Il protagonista è l’attore/comico/cantante Joey De Leon che interpreta Mickey, un ragazzone abbandonato da neonato davanti a una tenda (da campeggio) che si ritrova poi in un’altra tenda (quella del circo). L’incipit vede un gruppo di alieni vestiti come se Darth Vader avesse il velo da odalisca e una pettorina di plastica fluorescente. Questi inseguono una donna con bambino, quando la raggiungono, il neonato è salvo ma la donna è spacciata. Per l’ora di film successiva non succederà più nulla, assisteremo a siparietti comici del mago Goro the great (Rene Requiestas) che starnutisce lamette, si da fuoco alla giacca e salta sui vetri rotti procurandosi delle sanguinolente escoriazioni, ci godremo quindi amabili canzoncine tra cui una dove si tenta di cantare come dei topolini e c’è persino la cover di “Girls just wanna have fun” di Cindy Lauper cantata da De Leon vestito da donna e un adorabile nanetto che viene sempre preso a schiaffi e canta stonatissimo. Poi la mamma di Mickey muore rivelandogli che non è la sua vera madre, nello strazio il nostro eroe si trasforma, vediamo quindi una mutazione del volto stile The Wolf Man del 1941 (ma fatta peggio!) e “”zac!” al nostro amato gli viene la faccia da topolone, con tanto di orecchie giganti, dentini aguzzi e baffetti alla Topo Gigio. 

Da qui in poi il film passa da una commediaccia stantia al vero capolavoro. Mickey si trasforma in supereroe con tanto di mantello e tutina e sfreccia (si va beh!) nei cieli sfondando tutti i cartelloni pubblicitari (tranne quello del veleno per topi) e prendendo a cazzotti rapinatori, aspiranti suicidi e pazzi omicidi. Siccome poi questo film è il top dei top(i) la produzione ci regala anche una fantastica cover di “raindrops keep fallin on my head” in filippino con De Leon che saltella davanti alla statua della Madonna e conclude con un coretto insieme a due topolini a cartoni animati. A pochi minuti dalla fine appaiono finalmente gli alieni, ovvero i Robo-rats del titolo. Togliendo, infatti, il mascherone da Guerre Stellari, un extraterrestre rivela il suo faccione da topo barbuto e rivela a Mickey di essere il frutto di uno stupro oltrespaziale, poi dopo una breve collutazione tutto finisce a tarallucci e vino e finalmente questo spettacolare capolavoro si conclude regalandoci una vera e propria esperienza allucinatoria come mai non era accaduto prima nel mondo del cinema. 

venerdì 25 ottobre 2024

CENTIPEDE HORROR

(Wu gong zhou, 1982) 

Regia Keith Li 

Cast Tien Lang Li, Michael Miu, Hussein Abu Hassan 

Parla di “stregone incazzato manda orde di millepiedi a uccidere tutti e alla fine si vomita che è una bellezza” 

Gli insetti mi affascinano e di solito riesco a farmi piacere anche la puzzolente cimice o il nero scarafaggio (che, ricordiamolo, un giorno erediteranno la terra) ma se c’è una specie che proprio non digerisco quella è la scolopendra, ovvero lo schifosissimo millepiedi. Animale che tra l’altro, in alcune parti dell’Asia pare sia una ghiotta pietanza (con notevoli proprietà antiossidanti) il che, forse giustifica l’insostenibile sequenza finale di questo filmaccio cinese diretto da Keith Li. Due studentesse vanno in gita nel Sud Est asiatico, la ragazza di nome Kay si infratta per pisciare e viene assalita dalle scolopendre, l’amica giunta sul posto muore d’infarto a seguito del morso del millepiedi. Il fratello di Kay, Pak, la raggiunge in ospedale e la ritrova orribilmente butterata, con ferite che sembrano causate da un’esplosione atomica. La ragazza muore dopo atroci sofferenze e Pak, insieme alla fidanzata Chee, inizia a indagare sulle cause della sua scomparsa. Verrà a conoscenza di una maledizione che incombe sul villaggio vicino al luogo dell’incidente, una specie di mago controlla infatti le scolopendre per uccidere tutti gli abitanti, allo scopo di vendicare un crimine commesso anni prima. Crimine che alla fine è quasi un delitto passionale ma con incendio finale in cui rimane vittima anche un neonato (che il santone ritrova carbonizzato il giorno dopo). 

Se nella prima parte il film scorre anche decentemente, nella seconda parte si svacca totalmente con sortilegi, lampi, esplosioni, urlacci, spilloni voo-doo e medaglioni magici (che ricordano un po' le chincaglierie della nonna) raggiungendo lo zenith del non sense quando uno sciamano tenta di sconfiggere lo stregone con degli scheletri di polli animati a passo uno. Chee viene posseduta da una scolopendra che ogni tanto appare e scompare sul volto e nel finale (orribile) verrà esorcizzata costringendola a vomitare grumi biancastri e millepiedi vivi, il tutto con una dovizia di particolari che non lascia dubbi sul fatto che la povera attrice Tien Lang Li sia stata costretta veramente a tenere in bocca schifosissime scolopendre giustamente incazzate nere. Se sopravvivete al disgusto prestate attenzione alla colonna sonora, una specie di “indovina il plagio” costante tra i classici cinematografici americani dell’epoca (tra cui pare ci sia anche il nostro Phenomena). 

venerdì 18 ottobre 2024

TROPPO BELLI (2005)

Regia Ugo Fabrizio Giordani 

Cast Costantino Vitagliano, Daniele Interrante, Jennifer Poli 

Parla di “tronisti dal cuore d’oro che sognano il cinema ma dopo questo film il cinema se lo sognano e basta!” 

Che bella l’Italia! Terra di sole, mare, canzoni, Sanremo ecc. ecc. Ma anche terra che eccelle in un genere molto particolare: il Vipsploitation o Personalitiesploitation (mia vecchia definizione ora superata), ovvero quel genere cinematografico dove si costruisce un intero film a uso e consumo di un nome divenuto improvvisamente celebre o comunque sulla cresta dell’onda. E tra questi nomi non poteva non esserci Costantino Vitagliano, star del programma Uomini e Donne insieme al suo socio Daniele Interrante, ovvero i due tronisti più “bboni” del piccolo schermo. 

E siccome il Vipsploitation deve cogliere l’attimo di maggior successo del personaggio, ecco che, nel pieno del fulgore della coppia lanciata da Maria de Filippi, il buon Maurizione Costanzo butta giù in fretta e furia soggetto e sceneggiatura di Troppo Belli, commediola all’acqua di rose incentrata sulla figura di Costantino, giovane amato e venerato dalle ragazze ma sfortunato nel lavoro. Il Costa, insieme al suo compare Daniele, sogna Hollywood e finiscono entrambi nelle mani dell’ agente truffaldino Giampalmi (interpretato dal bravissimo Ernesto Mahieux, quello de L’imbalsamatore) che inizia a salassarli con corsi e book fotografici che non avranno mai un futuro. Non ci sta la figlia Michela (Jennifer Poli) segretamente innamorata di Costantino, la quale contatterà lo zio produttore per dare alla coppia di bellocci una possibilità. 

Una storia nella storia, visto che Costantino e Daniele hanno anche loro avuto l’occasione nel cinema con un ruolo da protagonisti assoluti, occasione tristemente naufragata con un flop storico in cui la produzione Medusa cacciò 2 milioni di euro (spesi non si sa dove vista la poraccitudine del film stesso) incassando appena 704.000 euro. Del resto la storia insegna che non bastano i nomi di richiamo, bisogna anche che questi nomi sappiano recitare, cosa che purtroppo qui non accade. Il duo Costa/Daniele riesce a malapena a togliersi la maglietta per mostrare fisici scultorei ma quando apre bocca siamo a livelli da Alex L’ariete, altro capolavoro con il quale Troppo Belli viene giustamente equiparato, anche se i due bellocci, devo esser sincero, mi sono sembrati un po' più espressivi rispetto ad Alberto Tomba (ma ci vuole poco, anzi pochissimo!). 

Certo quando partono i titoli ed esplode Quanti Amori di Gigi D’Alessio il pensiero ricorrente e quello di togliersi la vita, ma quello che ammorba il film, è la sua evidente inutilità, un film che non fa ridere, non da emozioni e nonostante la breve durata, è anche noiosetto e zuccheroso, con mamme dal cuore d’oro che si tolgono la pensione per darla a Costantino, fidanzate che lo amano anche se non ci stanno più insieme (dimenticavo, nel film partecipa anche la Pierelli, (ex) fidanzata del Costa), spasimanti che fanno di tutto per conquistarlo, canzoni melense e una ridda vomitevole di buoni sentimenti che neanche i musicarelli degli anni sessanta riuscivano a snocciolare. Insomma un film nato male, vissuto male dove la recitazione cagnesca dei due tronisti, alla fine, è solo la punta dell’iceberg. 

venerdì 11 ottobre 2024

STRIKE COMMANDO (1987)

Regia Vincent Dawn (Bruno Mattei e Claudio Fragasso) 

Cast Reb Brown, Luciano Pigozzi, Cristopher Connelly) 

Parla di “supersoldato disperso nella giungla fa strage di vietcong e russi semplicemente togliendosi la giacca”  

Ah! Che meraviglia i film di propaganda americana degli anni ottanta! Dopo Rambo II e Rocky IV, il modello a stelle e strisce mirava soltanto a mostrarci quanto gli Stati Uniti fossero buoni e potenti, giusti e risolutivi! Ma aspetta un attimo! Qui stiamo parlando di Strike Commando e il regista Vincent Dawn non è per caso Bruno Mattei sotto il suo arcinoto pseudonimo? In aggiunta l’aiuto regista nonché sceneggiatore non è quel Claudio Fragasso (coadiuvato dall’immancabile Rossella Drudi) celebre per il cultissimo Troll 2? Ma allora stiamo parlando di un film di propaganda americana che non è veramente americano ma, anzi, italianissimo! 

Si perché Strike Commando altri non è che l’ennesimo namsploitation girato nelle Filippine dove l’eroico muscoloso soldatone mascellone Ramson (Reb Brown) è un soldato della squadra speciale Strike Commando, sopravvissuto ad una missione suicida e abbandonato nelle foreste del Vietnam. Ovviamente il mascellone è un ammazzasette di proporzioni inaudite, spara a destra e sinistra colpendo sempre a segno senza venir mai scalfitto. Non solo, è anche gentile e premuroso con un gruppo di indigeni locali e fa amicizia con un bambino vietnamita che chiede sempre di raccontargli com’è Disneyland (se non è propaganda questa!) e quando i viet-cong supportati dai russi del crudele Jakoda (Alex Vitale) fanno strage nel villaggio, la sua vendetta sarà spietata.  Esplosioni di modellini a profusione, sparatorie come se non ci fosse un domani, il protagonista che passa il tempo a togliersi e rimettersi la giacca per mostrare quanto è muscoloso, scene copiate da Rambo II, Apocalypse Now e dulcis in fundo si ruba la celebre frase “Io ti spiezzo in due” di Rocky IV modificandola nel più banale “Io ti rompo in due!”. 

Si scopre pure che il Colonnello Radek (Cristopher Connelly) è una spiaccia russa e la vendetta di Ramson prosegue pure dopo la guerra, ai giorni nostri, quando giunge a Manila armato di supermitragliatrice (che normalmente si usa su un cavalletto ma lui la tiene ovviamente con una mano sola) e fa strage negli uffici di Radek, concludendo la sua opera con una bomba a mano in bocca a Jakoda, facendolo letteralmente esplodere in mille pezzi. Che dire, ci lamentiamo che gli americani sono esageratamente autoreferenziali ma in queste cose gli italiani sono ancora più esagerati, lo prova anche il fatto che, non avendone evidentemente abbastanza, si è provveduto a girare anche Strike Commando 2. Imperdibile comunque il bravo Luciano Pigozzi nel ruolo di un medico francese (ovviamente ubriacone). 

venerdì 4 ottobre 2024

CLASS OF NUKE 'EM HIGH 3: THE GOOD, THE BAD AND THE SUBHUMANOID (1994)

Regia Eric Louzil 

Cast Brick Bronsky, John Tallman, Lisa Star 

Parla di “ Roger che dopo aver sconfitto lo scoiattolo gigante diventa sindaco di Tromaville e padre di due gemelli, uno buono e uno, manco a dirlo, cattivo” 

Il terzo capitolo di una delle saghe più iconiche della Troma Entertainment non poteva che iniziare esattamente dalla fine del pazzesco finale del secondo, ovvero la distruzione della centrale nucleare di Tromaville operata da un ributtante quanto gigantesco scoiattolone mutante con il pessimo vizio di scoreggiare nubi tossiche. Un incipit che, peraltro, permette alla produzione di Kaufman & soci di riciclare qualche scena iniziale, quando il protagonista, un nerboruto quanto idiota Roger Smith (interpretato ancora da Brick Bronsky) riesce finalmente a sconfiggere il mostro diventando il sindaco di Tromaville. Purtroppo la sua compagna mutante partorisce, dall’oscena bocca applicata sullo stomaco, due gemelli Adlai e Dick e muore di parto.

Il gemello Dick viene rapito in fasce mentre Adlai cresce sotto l’egida del padre, uguale in tutto e per tutto al genitore (e infatti viene interpretato anche lui da Bronsky) che nel frattempo si è messo con Trisha (Lisa Star), splendida ragazza con un paio di difetti, scoreggia in continuazione e sbava acqua quando parla. Dick, intanto cresce sotto l’influsso malefico del suo rapitore, il malvagio Dr. Slag, Ph.D. (John Tallman), il quale ha scoperto che i due gemelli hanno entrambi un braccio radioattivo che si illumina ed è in grado di trasformare qualsiasi cosa in Plutonio. Ma se Adlai utilizza il suo potere per ricaricare la centrale di Tromaville, Dick (anche lui interpretato da Bronsky ma con parrucchino nero) vuole utilizzare il suo potere per scopi terroristici. Giunto stancamente alla conclusione della trilogia, il brand Class of Nuke’em High ci propone un titolo che richiama il cinema di Sergio Leone ma non va oltre a questo. Ci prova con una trama arzigogolata dove mancano totalmente nuove idee e si ricicla il già visto e sentito a oltranza. 


Anche gli effetti sono sempre uguali, gente che si scioglie, gente che vomita bava verde ma persino il gore, che per la Troma è un punto di riferimento fondamentale, latita in maniera devastante. Bronsky la fa da padrone e interpreta tre personaggi tutti uguali (persino il padre Roger che dovrebbe essere quanto meno invecchiato!) e questo è decisamente troppo per un lottatore di Wrestling alle prime armi come attore, il risultato sono una sequela di dialoghi farraginosi, un ritmo lento dove succede poco o nulla, le solite sequenze trash dove masse di punk scappano a destra e a sinistra senza un motivo preciso e qualche scureggia come unico elemento dissacrante. Troppo poco per un film della Troma, che ha sempre sbandierato l’eccesso come il suo marchio di fabbrica. 

venerdì 27 settembre 2024

BIRI BENI GÖZLÜYOR AKA SHINING TURCO (1988)

 Regia Ömer Ugur 

Cast Tarik Tarcan, Selin Dilmen, Erhan Keçeci 

Parla di “scrittore sfigato giunge su isola con moglie e figli per fare il guardiano ad un motel deprimente…poi non so perché mi sono addormentato!” 

Nell’irrefrenabile febbre del rip-off non autorizzato che esplose in Turchia tra gli anni settanta e la fine degli ottanta, non poteva certo mancare il capolavoro horror di Stanley Kubrick. Ecco quindi che, con un bel po’ di ritardo rispetto al film originale, alla fine degli eighties spunta fuori lo Shining turco, così come è comunemente identificato Biri Beni Gözlüyor (che tradotto significa Qualcuno mi sta guardando). Ma, se l’idea di base è associabile al celebre romanzo di Stephen King, il regista Ömer Ugur (anche autore della sceneggiatura) apporta alcune modifiche. 

Analogalmente all’originale anche qui il protagonista Hulki (Tarik Tarcan) è uno scrittore, ma qui si specifica meglio anche il genere di romanzi che l’autore scrive, infatti è un giallista (o qualcosa di simile), l’ambientazione però cambia totalmente, dalle fredde montagne del Colorado, si passa ad un albergo posizionato su un isoletta sperduta, ma mentre l’Overlook presentava, almeno da fuori, un’architettura accattivante, l’hotel del clone turco sembra un complesso di alloggi popolari, di una tristezza e sfacelo che mettono più ansia di tutto quello che succede nel film, anche perché alla fine non succede nulla. Arrivati sull’isoletta con una barca che non si capisce come possa stare a galla, lo scrittore con la moglie Leman (Selin Dilmen) e il figlio Ufuk, incontrano il guardiano Mahmut che sembra un maniaco sessuale tutto sdentato.  Ovviamente nell’albergo è accaduto un fatto di cronaca nera, il precedente guardiano ha strangolato la famiglia e si è impiccato (con la sigaretta in bocca…viene specificato!), questo evento suscita in Hulki una forte spinta a scrivere il suo nuovo romanzo. Ora, a parte che il bambino non possiede alcuna luccicanza, i genitori lo vestono in maniera ridicola, quindi almeno lui soddisfa la nostra esigenza di trash. 

Il resto del film invece è tutto un litigare tra moglie e marito e, a parte un macabro scherzo di Hulki che si finge impiccato, possiamo anche farci una pennica che tanto si arriva al finale senza alcun problema, finale che cambia totalmente da quello kinghiano, qui muoiono il bambino (ucciso dalla madre) e la moglie, lui sopravvive e scriverà il suo romanzo perfetto. Nel film vengono inserite musiche rubate qua e là, tra cui il celebre solo d’archi di Psycho, la fotografia è inesistente (e infatti le scene notturne sono indecifrabili talmente sono scure), la recitazione non pervenuta, si salva solo il bel visetto della Dilmen, ma per il resto ci si annoia parecchio. 

giovedì 19 settembre 2024

VISITORS – I NUOVI EXTRATERRESTRI

(Los Nuevos Extraterrestres, 1983) 

Regia Juan Piquer Simón 

Cast Ian Sera, Nina Ferrer, Susan Blake 

Parla di “meteorite cade sulla terra e vomita mammuth pelosi a due zampe, uno fa amicizia con un bambino, l’altro fa una strage!” 

Ci sono film che, già in fase di produzione, partono con il piede sbagliato e, per quanto ci si possa impegnare, andrà sempre peggio e il risultato sarà un disastro completo. Con questa nota di ottimismo salutiamo la visione di questo Los Nuevos Extraterrestres, coproduzione ispanico-francese anni ottanta contraddistinta da una bruttezza quasi raffinata. Roba che si è ritagliata quasi un’aura da cult-movie ma non ce l’ha fatta neanche in questo caso, finendo dimenticata da tutti all’interno di oscure vhs destinate al macero. Le prime sequenze dovrebbero indicare un meteorite in viaggio verso la Terra anche se non si capisce bene perché le scene cambiano continuamente alternando panorami stellari a vedute del nostro pianeta minacciato da questo pietrone bucherellato. 

Sulla Terra intanto tre bracconieri si inoltrano in un bosco dominato da vapori artificiali con i quali l’addetto agli effetti speciali evidentemente esagera, perché più di una volta non si vede un cazzo di niente sulla scena dal fumo che esce. Comunque vediamo questi tre tizi (uno addirittura con la balestra, wow!) armati fino ai denti e per cosa? Praticamente delle uova! Si perché salgono su un albero e rubano una serie di ovetti dal nido. “Con questi ci faremo un sacco di soldi!” – Esulta uno dei tre (e poi scopriremo che il colpaccio gli renderà ben trenta dollari!). Intanto dal cielo cade il meteorite in una pozza di fuoco da cui cola di tutto, alla finestra abbiamo il solito ragazzino secchione con telescopio incorporato, gattino appeso ai coglioni, un coniglio, un criceto e una scolopendra (perché fa collezione di insetti).  

Intanto in città c’è un giovane cantante ricciolone che incide in sala prove un pezzo di dubbia qualità, ma siccome non è soddisfatto del lavoro, la registrazione si interrompe e decide di prendere il camper e andare in vacanza nei boschi con amici e amiche al seguito. Nel frattempo uno dei tre bracconieri entra in una caverna e scopre un ambientazione tipo Alien con uova appoggiate a terra e una minacciosa luce rossa emanata da una strana cosa pulsante.  Il tizio prende un bastone e spacca tutte le uova ma due mani pelose lo agguantano e lo fanno fuori. Poi tocca ad una delle ragazze del camper, gli amici la ritrovano cadavere e la portano a casa del ragazzino, i cui genitori sembrano in realtà i suoi nonni. 

Frattanto gli altri due bracconieri, rimasti nel bosco si recano in un capanno e scompaiono dal film per poi essere ritrovati morti verso la fine (tutte le vittime dell’alieno hanno in testa dei brillantini luminosi). Il ragazzino trova la caverna e scopre un uovo ancora intatto e decide di covarselo in cameretta. Nascerà Trampy il suo amichetto alieno che è una specie di incrocio tra Dumbo e il sasquatch, una cosa da far rabbrividire proprio! Del resto anche il papà di Trampy non è che sia bellissimo e per di più è cattivello e riesce ad ammazzare le persone semplicemente spingendole da parte. 

Come avrete inteso da questa trama bislacca, recitata male e realizzata anche peggio (vedetevi il costume dell’alieno e mi direte!), non si capisce da che parte si vuole andare. Il film oscilla tra la commedia extraterrestre tipo E.T. e roba del genere ed un fantahorror con un bodycount invidiabile in stile Alien. Del resto il regista Juan Piquer Simón voleva girare un film dell’orrore con un alieno assassino mentre i produttori volevano l’ennesimo Clone di un film per ragazzini. Alla fine nessuno ottenne quello che voleva e a noi, poveri spettatori, ci toccò l’ennesimo bruttissimo film anni ottanta. 

venerdì 13 settembre 2024

THE TOY BOX (1971)

Regia Ron Garcia 

Cast Sean Kenney, Ann Perry, Uschi Digard 

Parla di “scambisti invitati ad un’orgia si ritrovano coinvolti in un’invasione aliena a scopo alimentare” 

Immagino che tutti quei pazzi disgraziati che leggono abitualmente questo blog conoscano Bad Taste, il primissimo capolavoro splatter trash di Peter Jackson (se invece non lo conoscete correte subito a recuperarlo!). Orbene, l’idea degli alieni che catturano terrestri per rifornire le scorte del proprio negozietto di alimentari spaziale (nel film di Jackson era una catena di fast food) c’era già sin dai primi anni settanta con questo strampalatissimo fanta/sexy/horror diretto da Ron Garcia, conosciuto nel settore come un valido direttore della fotografia televisivo, che qui realizza probabilmente il suo unico e irripetibile canto del cigno cinematografico. 

The Toy Box è infatti pura sexploitation divenuta un vero cult per gli estimatori del weirdo oltreoceano, ma non confondetevi con la versione italiana “La scatola dei giochi erotici” che è praticamente un altro film (di cui parleremo dopo). Coloratissimo, psichedelico e ricco di bellezze come mamma le ha fatte, il fllm narra la storia di Donna e Ralph, due amanti con il vizietto dello scambio che vengono invitati alla villa del ricco zietto dove partecipano ad un’orgia di quelle un po’ hippy dove alla fine non si capisce più niente. Peccato che lo zietto in questione sia una specie di alieno che rapisce terrestri per il suo negozio di delicatessen situato sul pianeta Arcon, ingannandoli con false promesse di sesso e desideri vari realizzati attraverso una Toy Box, sorta di scrigno che appare per la prima volta in un assurdo flashback dove una coppia in abiti settecenteschi amoreggia sul prato, poi lui si mette un’orrenda maschera di gomma (chissà dove l’avrà presa!) per spaventare la biondina. Lei scappa ma poi torna con un forcone e ammazza il ragazzo, a questo punto, non si sa perché, compare questo scrigno dei pirati ripieno di banconote.

Del resto le cose assurde non mancano in questo minestrone cinematografico, lo zietto è una specie di Karl Marx con gli occhi sbiancati, poi c’è un’assurda scena di necrofilia con un macellaio che si tromba un cadavere sul tavolaccio ma questi si rianima e partecipa al coito, di fianco un'altra morta si sveglia, prende una mannaia e ammazza il macellaio. Si prosegue con teste che appaiono e ragazze che invece la testa la perdono, una gigantessa con l’accendino in mano (insomma una tizia che viene ripresa dal basso verso l’alto per simulare l’altezza) e dulcis in fundo, la scena migliore dove Uschi Digard (manco accreditata nel cast, porella!) ovvero la migliore scoperta di Russ Meyer, si agita sensuale su un letto che ruota mentre delle mani avvolte nel lenzuolo la toccano ovunque. 

La sceneggiatura (se mai c’è stata!) è un pasticcio tremendo ma la confezione del film è fantastica, condita com’è da un’ipnotica sequela di lampi, suoni, colori psichedelici, stanze immerse nel vapore che ci conducono ad un finalino decisamente inquietante e beffardo. Il sesso è piuttosto esplicito ma non supera mai la barriera della pornografia, cosa che invece la distribuzione italiana (che lo fece uscire con quel titolo “La scatola dei giochi erotici” di cui parlavamo sopra) si è premurata di fare macellando completamente la pellicola con inserti porno presi non si sa quali altri film e montati alla carlona con destinazione sale a tripla X. 

giovedì 5 settembre 2024

BIANCANEVE & CO. (1982)

Regia Mario Bianchi 

Cast Michela Miti, Aldo Sambrell, Gianfranco D’Angelo 

Parla di “ennesima versione sexy di Biancaneve che tenta di restare vergine per il principe azzurro ma deve fare i conti con la regina cattiva che l’avvelena a colpi di cazzo!” 

A periodi alterni, la Disney mette in moto l’ennesima polemica, rompendo con i classicismi a favore della cosiddetta cultura woke. Dopo la Sirenetta caraibica è stata la volta della produzione del live action di Biancaneve che, per ragioni di politically correct, non veniva più accompagnata dai sette nani ma da sette creature magiche di diversa altezza ed etnia. Una manna per gli odiatori seriali, scatenati nella rete al punto di far dotare la principessa dei canonici sette nanetti e di far posticipare l’uscita del film nel 2025. 

Tutto questo non sarebbe accaduto se la gente avesse maggiore cultura cinematografica, soprattutto nell’ambito del cinema spazzatura dove il buon Mario Bianchi aveva già realizzato una versione alternativa e socialmente sostenibile del classico dei fratelli Grimm. In questa imbarazzante trasposizione cinematografica dell’omonimo fumetto erotico di Renzo Barbieri e Rubino Ventura, infatti, i nanetti vengono sostituiti da i sette saggi con nomignoli come Stronzolo (Enzo Garinei), Dammelo (Aldo Ralli), Pippolo e soprattutto Godolo interpretato dal grande Tiberio Murgia, tutti ovviamente assatanati e anche piuttosto idioti.  Del resto il livello del film non è certo un brillare di inventiva, i toni boccacceschi passano in secondo piano rispetto alla fiacchezza delle idee e il livello di comicità rimane compresso sotto le scarpe degli sceneggiatori Luigi Petrini e Nino Marini. Basti pensare che la voce narrante appartiene ad un imitatore (tale Paride Mensa) che rifà il verso a Diego Abatantuono in maniera talmente estrema da farci rimpiangere le performance di Giorgio Porcaro. Nel ruolo del Re c’è il povero Aldo Sambrell che in quel periodo era letteralmente rapito dal Bianchi (sodalizio che si concluse con “La bimba di Satana”). Il monarca ha problemi di impotenza e solo trombando sulla neve riesce a concludere un soddisfacente rapporto con la regina. Dal gelido coito nasce Biancaneve ma muore la regina che il re sostituisce con Grimilde (Damianne Saint-Clair) la quale, però, è una specie di trans che si farà iniettare sul pene il veleno offertogli dal mago magone (interpretato da un imbarazzante Oreste Lionello) e, sotto spoglie mascoline, deflorerà la figliastra mandandola in coma. 

Senza stare troppo a spiegare la trama, decisamente delirante, il film merita unicamente per la presenza di Gianfranco D’Angelo nei panni di uno spassosissimo specchio magico e di Gianni Magni nei panni del killer Gianni il silenziatore che deve uccidere Biancaneve e portare un ricciolo del suo pube alla regina come prova dell’avvenuta esecuzione. Da segnalare comunque la presenza di un ricco cast di caratteristi tipici delle commediacce sexy del periodo come il finto Benigni Mireno Scali nei panni di un bruttissimo principe azzurro, Martufello, Franco Bracardi oltre ovviamente ad una discinta Michela Miti nei panni di Biancaneve. 

giovedì 25 luglio 2024

AMERICA COSI’ NUDA, COSI’ VIOLENTA (1970)

Regia Sergio Martino 

Cast Giorgio Albertazzi (voce), Guido Gerosa (voce), Gianfranco Vene (voce) 

Parla di “indagine mondo su usi e costumi bizzarri della società americana tanto per mostrare qualche sequenza shock e soprattutto tanta carnazza a stelle e strisce” 

Come per tutti i registi di genere italiani (ma anche all’estero) la filmografia di Sergio Martino è costellata di piccoli capolavori e grandi monnezze, tra commedie sexy, fantascienza, horror e thriller. Ma agli inizi degli anni ’70, quando ancora il genere era gettonatissimo nelle sale, Martino ha esordito alla regia di tre mondo movies, una trilogia di cui questo “America così nuda, così violenta”, rappresenta la conclusione del suo excursus nel genere documentaristico shock. Il leit motiv in questo caso è la scoperta di usi e costumi del popolo americano con particolare attenzione a quelli più bizzarri e scottanti. 

Il risultato è un collage alquanto dozzinale di sequenze, tra verità e finzione, di situazioni pruriginose che rappresentano casi al limite, spesso di minoranze bizzarre e non sicuramente rappresentativi dell’apparato sociale degli Stati Uniti d’America. Si perché nonostante i pippottoni moralistici elargiti dal narratore Giorgio Albertazzi, l’unico intento del film è mostrarci abbondanti nudità e inquadrature shock, meglio se condite da sangue e frattaglie sparse qua e là. L’appeal è decisamente reazionario e moralistico, con particolare accanimento sui poveri hippies che vengono sbeffeggiati e ridicolizzati sin dalle prime sequenze, del resto siamo ad appena un anno dalla strage di Cielo Drive che costò la vita alla povera Sharon Tate e amici vari nella villa di Bel Air, inquadrata clandestinamente dall’esterno e montaggio abbinato di un rituale pseudo-satanico in cui un gruppo di freak decapita una povera gallina facendo colare il sangue sul corpo ignudo di una vittima sacrificale su cui gli officianti si avventano a bere avidamente. 

A seguire balli e canti di una comunità hare krishna con neonati che gattonano in mezzo ai fedeli danzanti e un pasto a base di blatte registrato con dovizia di effetti sonori croccanti per alimentarne il disgusto visivo. La macchina da presa indaga poi su comunità di pellerossa dislocati nel carcere abbandonato di Alcatraz, corse in moto e auto impennate, massacri di conigli appesi per le zampe e capelloni che si tranciano le dita in diretta per evitare di finire in Vietnam. Da sanguinose circoncisioni di origine africana operate clandestinamente attraverso riti tribali si viaggia nella coloratissima Las Vegas alla ricerca di ludopatici rovinati per sempre che vanno a suicidarsi nel deserto passando per anziani abbandonati negli ospizi e barboni accasciati per le strade di New York e improvvisati pittori che si dedicano al body painting a spese di giovani modelle ignude.

E poi raduni modello Woodstock dove si indaga sul consumo di sostanze stupefacenti, battute di caccia razziali, bambole gonfiabili, ristoranti in cui a  servire ci sono cameriere nude, empori dove si acquista sangue (blood bank) e altre amenità dove, tra sequenze palesemente ricostruite e indagini opportunistiche, si sviluppano 90 minuti di montaggio serrato a opera di Michele Massimo Tarantini e una splendida colonna sonora di Bruno Nicolai, unica vera nota d’interesse per un film dozzinale dove si mostra tanto per non dire nulla di nuovo.