mercoledì 21 dicembre 2022

HEAVY TRAFFIC

(1973) 

Regia Ralph Bakshi 

Cast Joseph Kaufmann, Beverly Hope Atkinson, Frank DeKova 

Parla di “virgineo flipperista incontra bella barista in mezzo a un campionario di assurdi personaggi dalla dubbia morale” 

Se con Fritz il Gatto, Ralph Bakshi aveva sdognanato il cartone animato per adulti non lesinando in quanto a erotismo e violenza, nel suo film successivo il regista americano alza decisamente l’asticella del perverso scatenando nei confronti dello spettatore un universo malato e squallido ambientato nella peggior New York che sia mai stata rappresentata al cinema. Con l’utilizzo di un mix selvaggio tra live action, interazione fra cartoon e sfondi fotografici e un’animazione vorticosa quanto anarchica, Bakshi ci trasporta direttamente nei bassifondi della grande mela raccontando le gesta di pittoreschi personaggi all’interno di una trama convulsa che ruota attorno al personaggio di Michael Corleone, disegnatore squattrinato e verosimilmente frustrato dall’assenza di attività erotica nonostante il padre, mafiosetto del sindacato dei lavoratori in sciopero, tenti con tutte le sue forze di sverginarlo, arrivando a portare a casa una gigantesca prostituta. 

Le vicende familiari si arricchiscono dei continui litigi all’arma bianca tra il padre e la madre, che passa il tempo a rimettere nella vestaglia il suo seno cadente. Le vicende si snodano con Carole, un’avvenente barista con cui svilupperà un rapporto d’odio e amore in mezzo a risse sanguinolente, travestiti, assassini e rapinatori. Se mai avesse avuto qualche tipo di freno, qui Bakshi abbandona ogni pudore sia a livello artistico sia nel tracciare espliciti accoppiamenti sessuali, ondate di sangue e violenza, personaggi senza alcuna morale e un’ambientazione in cui lo squallore è il fulcro portante. Tra colorate inquadrature di flipper luminosi, frasi scurrili in un italiano imbastardito, umori salivari che scorrono sui corpi e ferite che si aprono come colate di lava bollente, il campionario roboante di freaks animati sorvola lo schermo con un umorismo malsano ma non sempre a tema. 

Diciamo che se l’intento era comico, il risultato è troppo estremo per venir adeguatamente apprezzato da un pubblico in cerca di commedia. Bakshi realizza un disturbante turbinio di cattivo gusto e politicamente scorretto, un’opera contrassegnata da numerose vicende travagliate (che portarono ad un certo punto al licenziamento del regista stesso) ma per chi ci si addentra scevro di morale e retorica conservatorista, resta comunque un’esperienza unica, quasi mistica.

mercoledì 14 dicembre 2022

SENSUAL ENCOUNTERS OF EVERY KIND

(1978) 

Regia Richard Kanter 

Cast Serena, Georgina Spelvin, John Leslie 

Parla di “antico talismano risveglia l’istinto sessuale in un gruppo di personaggi che non ne avrebbero sicuramente avuto bisogno perchè già arrapati cronici” 

Sebbene il titolo originale richiami al successo di Incontri Ravvicinati del Terzo tipo di Steven Spielberg, uscito appena l’anno precedente, chi già pregustava copule con alieni scoperecci resterà inevitabilmente deluso. Il regista Richard Kanter aka Ramsey Karson, autore di raffinate sexploitation dal titolo italiano suggestivo come Le avventure amorose di Robin Hood oppure Violenza carnale per una vergine, confeziona una sorta di porno antologico che utilizza come trait d’union un misterioso talismano a forma penica che trasforma chi lo indossa in un maniaco sessuale. 

Nel primo episodio una ricca annoiata provoca i suoi giardinieri dando vita ad uno stupro consensuale a quattro, nel secondo una sorta di pudica insegnante viene iniziata al threesome, nel terzo un fedifrago si nasconde nella vasca da bagno per sfuggire alla moglie dopodichè sfodera una valigetta con un invidiabile campionario di vibratori, il quarto invece è ambientato in una palestra con trombata finale dentro una sauna dove le due protagoniste indossano cuffia e occhialini da piscina (per proteggersi dal bukkake finale). L’episodio di chiusura vede un giovane scapestrato che tenta malamente di sedurre una ragazza ma lei lo accusa di essere troppo povero, anni dopo si ripresenta la stessa scena ma stavolta in una Roll Royce. Sceneggiatura e produzione sono affidate al compianto Harold Lime, vero e proprio veterano del cinema a luci rosse mentre il cast è un vero tripudio di starlette del porno come il prolifico John Leslie (152 porno), Leslie Bovee, la splendida Serena, Dorothy LeMay e soprattutto la mitica Georgina Spelvin, protagonista del capolavoro di Gerard Damiano The Devil in Miss Jones. 

Sulle scene di sesso nulla da dire, non ci sono particolari acrobazie se non qualche double fellatio degna di nota e una psichedelica sequenza nella sauna girata in un estenuante ralenty accompagnato da un lungo assolo di chitarra che ricorda Maggot Brain dei Funkadelic. La commistione con il cinema fantastico, incentrata soprattutto sullo spiegone iniziale relativo alla genesi del talismano con tanto di alchimisti e poteri magici, ha un sapore molto pretestuoso anche se il finale con la suora che raccoglie il talismano prima della didascalia To be continued può forse strappare un sorriso di simpatia. Il film esercita comunque il suo fascino vintage rapportato ad un epoca d’oro del cinema hardcore oggi disastrosamente scomparso. 

martedì 6 dicembre 2022

MACELLAI

(Bloodthristy Butchers, 1970) 

Regia Andy Milligan 

Cast Michael Cox, Linda Driver, Jane Helay 

Parla di “diabolico barbiere sgozza clienti ricchi per rivenderli sotto forma di pasticcio di carne nella panetteria di fianco” 

Se da una parte il titolo preannuncia una vera e propria festa gore per gli amanti dell’horror, il nome di Andy Milligan, regista abituato all’estrema povertà di mezzi frammista ad una cronica incapacità di girare film, dovrebbe invece far cadere tutte le speranze per quanto sopra accennato. Ed infatti, se si eccettua qualche sporadica goccia di sangue e un paio di moncherini di gomma affettati a mannaiate, il resto di questa versione low low budget delle nere vicende di Sweeney Todd, il barbiere assassino di Fleet Street, è un susseguirsi infinito di dialoghi e trame amorose addentrate in un’atmosfera ottocentesca credibile come una tigre vegana. Fotografato dallo stesso Milligan con una macchina da presa costantemente a mano e la  solita abitudine di tagliare le figure nell’inquadratura (quando riesce a non far traballare l’immagine). 

A rendere poi il tutto surreale sono i costumi d’epoca che sembrano acquistati da un rigattiere e abbinati senza alcun senso ad attori truccati con lunghi basettoni troppo rassomiglianti a nastri adesivi ritagliati e appiccicati ai lati del volto. La trama vede le gesta del noto assassino che si diletta a fare pelo e contropelo ai suoi clienti selezionando quelli abbienti a cui recidere la giugulare, per poi nasconderne il cadavere in cantina e trasformarlo in pasticcio di carne da rivendere nella panetteria della sua amante. Sweeney Todd (le cui avventure saranno più degnamente rappresentate da Tim Burton nell’horror musical del 2007 Sweeney Todd - Il diabolico barbiere di Fleet Street) si rivela essere in quest’occasione un donnaiolo impenitente, non contento di una moglie alcolizzata e di un’amante complice, ha una tresca persino con una cantante da operetta mentre attorno a lui si snodano una serie di intrecci amorosi. 

Gli attori non sono neanche malaccio, peccato che i lunghi dialoghi vengano intervallati da una serie di inquadrature montate senza cognizione di causa e soprattutto, nel finale, lo stesso Milligam non sembra più reggere la macchina da presa, dando vita ad un confuso agglomerato che nel finale, frettoloso e raffazzonato, trova lo zenith della bruttezza. Del resto il film fu realizzato con 18.000 dollari che anche per l’epoca erano un budget veramente scarso, eppure anche con meno Milligan ha realizzato cose migliori, qua purtroppo si concentra troppo sui dialoghi e poco sulle scene di violenza che, a giudicare dal titolo, dovevano essere il piatto forte di una cena completamente disattesa. 

mercoledì 30 novembre 2022

GIOCHI EROTICI DELLA TERZA GALASSIA

(1981) 

Regia Bitto Albertini 

Cast Sherry Buchanan, Fausto Di Bella, Don Powell 

Parla di “coppietta nello spazio sfuggìta a malvagio invasore, scopre Terra e sue piccanti abitudini” 

Almeno Luigi Cozzi ci aveva provato con “Scontri Stellari oltre la Terza Dimensione” a mettere in piedi un clone di Guerre Stellari non dico dignitoso ma almeno decente, ovviamente usufruendo di un budget con cui George Lucas ci si sarebbe comprato le pantofole. Questo seguito apocrifo, invece, non ci prova nemmeno e punta direttamente su un titolo italiano fuorviante, che richiama delizie erotiche che il popolo bue non godrà appieno nella sala, perché di giochi erotici, nel film di Bitto Albertini, non ce n’è manco l’ombra. Abbiamo invece il bellissimo scenario spaziale del film precedente, con tante stelle variopinte che sembra un albero di Natale, in cui sfrecciano (vabbè) modellini di astronavi assemblate con gli scarti dei soldatini Atlantic. 

All’interno del palazzo imperiale del Pianeta Exalon, che ricorda vagamente il palco di un teatro dietro cui si proiettano tutta una serie di luci colorate, il povero re buonino deve confrontarsi con il perfido signore della notte Oraklon, un nero vestito con una tutina azzurra aderente e la barba glitterata, appena uscito da qualche Gay Pride ante-litteram. Si scatena la battaglia a colpi di astronavine fluorescenti e fuochi artificiali che scoppiettano nello spazio. Dalla distruzione di Exalon fuggono solo la principessa Belle Star con un vestitino che lascia in vista una chiappa e una tetta e il suo capitano Lithan. I due sopravvissuti vagano nello spazio e giungono sulla Terra non si sa bene in che periodo (c’è chi ha ipotizzato il periodo degli etruschi) dove la gente vive in capanne ma veste con toghe da Impero Romano ma in realtà sembrano tutti usciti da una brutta rappresentazione del musical Hair. Dopo essere stati presi a sassate ed aver rischiato il rogo, Belle Star e Lithan iniziano a sparare dalle mani raggi laser. 

Dopo questa prova di forza i nativi li accolgono e i due scoprono finalmente le delizie sessuali della Terra a colpi di bacetti, limonate e palpatine con tanto di erotici bagni sotto le cascatelle mentre per ottanta minuti la colonna sonora ci spara la stessa mielosa canzone mescolata ad altre stucchevoli melodie che oscillano tra il romantic porno e la disco music. Purtroppo per loro Oraklon li intercetta e comincia a impartire ordini al suo secondo che gli fa praticamente da pappagallo ripetendo le istruzioni a una lucetta giallastra. Il tutto in una sequenza surreale che rasenta la comicità. Sentitosi minacciati, i due prendono l’astronave e tornano nello spazio ma vengono catturati e portati sulla base nemica (anch questa riciclata dal film precedente) dove, insieme agli altri monarca dello spazio, devono piegarsi in schiavitù al signore della notte. Prima però gli mostrano i segreti della pomiciata terrestre ed Oraklon, distratto da questa scenetta, viene disintegrato liberando così i pianeti dal suo regno oppressivo. Finalmente Lithan e Belle Star possono tornare sulla Terra a baciarsi e noi possiamo continuare ancora un po' a goderci della musichetta sdolcinata di cui non ne avremo mai abbastanza. 

mercoledì 23 novembre 2022

STARCRASH - SCONTRI STELLARI OLTRE LA TERZA DIMENSIONE

(1978) 

Regia Lewis Coates 

Cast Cristopher Plummer, David Hasselhoff, Caroline Munro 

Parla di “avventuriera dello spazio deve recuperare rampollo dell’imperatore e si scontra con malvagio Conte e la sua cricca di robot assassini” 

Nel 1977 il successo di Star Wars diede una scossa propulsiva al cinema di fantascienza, scossa che inevitabilmente portò varie produzioni internazionali a lanciarsi nello spazio. Tra queste anche l’Italia recepì l’occasione buona per seguire la stella cometa lucasiana e. in particolare. il regista Luigi Cozzi, insieme al produttore Nat Wachsberger, diede vita alle avventure di Stella Star (suona un po' scemo come nome ma pazienza!) sorta di nuova Barbarella del cinema bis, interpretata da una Caroline Munro mono espressiva (faccia sorridente e un po civettuola in tutte le situazioni del film). In realtà, a quanto dice Cozzi, il progetto era nato prima dell’uscita di Guerre Stellari ma di certo qualcosina il film di Lucas gliel’ha ispirata. Tutto questo non deve comunque portarci a svilire il lavoro del regista romano che, con quattro soldi, ha portato a casa uno dei classici sci-fi più amati da noi detrattori del cinema mainstream. 

Del resto non sono molti i film dove lo spazio è rappresentato come un gigantesco albero di Natale con palline/pianeti multicolorati, in cui i caccia imperiali si muovono in fila indiana come vagoni di un trenino ed esplodono in un tripudio di fuochi artificiali. Non parliamo poi delle mostruosità che la nostra eroina, in compagnia del fido truciolone abbronzato Akton (Marjoe Gortner), deve affrontare nella sua rocambolesca caccia all’erede al trono dell’Imperatore (Cristopher Plummer), disperso durante la ricerca del pianeta del malvagio Conte Zarth (Joe Spinell, si quello di Maniac!). Nel film il passo uno regna sovrano ma la distanza dal cinema di Harryhausen è evidente come lo è anche l’affettuoso omaggio che Cozzi tenta di imbastire al mago degli effetti speciali americano. Tra le creature robotiche presenti nella pellicola troviamo due incredibili robot che sembrano un misto tra due soldati saraceni e i bronzi di Riace, un gigantesco golem avvolto nella carta stagnola e un gruppo di barbari salterini tra i quali non poteva mancare anche il sempiterno Salvatore Baccaro (purtroppo presente solo per una manciata di secondi). 

Non si può che applaudire, poi, la grandiosa battaglia finale tra i seguaci di Zarth vestiti con tutine fetish che ricordano gli astronauti di Terrore nello Spazio di Mario Bava e i soldati dell’Imperatore mentre sfondano le vetrate della base nemica dentro a enormi bossoli dorati senza il minimo risucchio atmosferico, quasi che lo spazio fosse dotato di atmosfera. Dulcis in fundo troviamo un’imbarazzante apparizione di Nadia Cassini ed un giovane David Hasselhoff nei panni del rampollo spaziale. Su tutto capeggiano astronavi plasticose appena uscite dalle scatole dei soldatini Atlantic e raggi laser colorati da tutte le parti in un tripudio psichedelico di rara bellezza. A comprova, poi, che il film “non deve nulla” al Guerre Stellari di Lucas, ecco apparire, ad un certo punto, il buon Akton armato di spada laser verde muschio che fatica a stare dritta mentre l’attore la oscilla a destra e a manca. 

Ma Stella Star con il caschetto di vetro che si lancia nello spazio prima dello scontro stellare dell’Isola cosmica (un tripudio di colori senza precedenti) con l’artiglio spaziale (un design mozzafiato) ci ricorda tanto i fumetti di fantascienza anni cinquanta e non si riesce a trovare veramente un motivo che sia uno, per il quale la Società AIP di Nicholson e Arkoff abbia rifiutato il film dopo averne visionato il montaggio iniziale. Per fortuna c’era Roger Corman con la sua New World Pictures a salvarci altrimenti questo un capolavoro del genere c’è lo saremmo veramente sognato.    

mercoledì 16 novembre 2022

DOOMSDAYER - IL GIORNO DEL GIUDIZIO

(Doomsdayer, 2000)

Regia Michael J. Sarna

Cast Joe Lara, Udo Kier, Brigitte Nielsen,  

Parla di “007 mascellato deve fermare scienziato pazzo che minaccia di nuclearizzare il mondo” 

Anche se di italiano non ha assolutamente nulla (a parte l’uso smodato di ralenty che piacevano tanto a Enzo G. Castellari), questo film diretto da Michael J. Sarna viene annoverato come produzione Italo-filippina ma non esistono nel cast, neanche quello tecnico, maestranze nazionali. Del resto il film ha anche poco o niente di fantascienza trattandosi, in soldoni, di una specie di brutta imitazione della saga di James Bond in salsa asiatica dove il protagonista è quel povero mascellone inespressivo di Joe Lara, recentemente scomparso in un incidente aereo e conosciuto più che altro per la sua partecipazione ad un Tarzan Televisivo. Sin dall’inizio si capisce che sarà tutto un corri e spara, con esplosioni a profusione, qualche casta scena di sesso, arti marziali e uno spruzzo di CGI precolombiana malfatta. 

Del resto, visti i paesi di origine per quanto riguarda i finanziamenti, il tentativo di fare un blockbuster a risparmio, fallisce miseramente in una noiosissima spy story dove gli americani fremono di terrore a causa di un ricchissimo cattivissimo che vuole lanciare una bomba nucleare in grado di attivare tutte le atomiche del mondo, insomma la solita storia del malvagio che vuole distruggere il pianeta con l’aggravante di utilizzare, per questo ruolo il buon Udo Kier ma soprattutto di mettergli a fianco nientepopodimeno che la danesissima ex stalloniana Brigitte Nielsen, che dopo Rocky IV ha trovato l’America ovunque le pagassero il parrucchiere. E parlando di parrucche risulta inguardabile poi l’attore T.J. Storm nel ruolo del gregario del cattivo Montgomery, con una messa in piega ondulata e costantemente irrorata di lacca sopra ad un ridicolo completo color granatina con tanto di papillon. 

Unica salvezza è rifugiarsi tra le dolci vestali della splendida January Isaac, splendida lottatrice in calzamaglia nera, talmente fedele al marito che quando questi muore, si getta subito nelle braccia del protagonista. Le scene d’azione risultano stucchevoli e sono spesso al limite della narcolessia (vedi l’inseguimento in elicottero), gente che muore e poi torna in vita, gente che invece non muore mai, ragazze che ti si presentano nude in camera d’albergo, tutto quanto visto e stravisto per un tale successone da fare la muffa persino nei cestoni del centro commerciale dove ti pagano se ti porti a casa un DVD.  

mercoledì 9 novembre 2022

SICK-O-PATHICS

(1995) 

Regia Brigida Costa e Massimo Lavagnini 

Cast Massimo Lavagnini, David Warbeck, Dardano Sacchetti 

Parla di “antologia omaggio del bis italiano con borse cannibali, bambole gonfiabili viventi e un terribile cannibale spara puzzette” 

Il detto popolare “nella botte piccola c’è il vino buono” è quanto di più adatto per descrivere questa opera cult del duo Brigida Costa e Massimo Lavagnini, due super fan del cinema low budget soprattutto italiano che realizzano un’antologia di piccoli frammenti horror contraddistinti da una feroce quanto spassosissima ironia surreale, la cui forma a zero budget, ai limiti dell’amatorialità si trasforma da difetto a poderosa marcia in più verso un cinema che non le manda a dire. Partendo da un incipit che si apre su una cacca di gomma a cui è applicato il cartellino “classico cinema italiano” (tanto per non lasciare dubbi in merito agli intenti dei registi) il film prosegue con una sorta di gigantesco bullo con i dreadlock (interpretato dallo stesso lavagnini) che si esibisce in una serie di cattiverie ai danni dei passanti, fino ad incontrare un regista incompreso che lo obbliga a visionare le VHS dei suoi lavori, legandolo ad una sedia. Già l’apparizione di Dardano Sacchetti, storico sceneggiatore di Fulci, Argento, Deodato, Castellari ecc.ecc., ci fa capire che l’intento non è solo di omaggiare il cinema Bis italico ma interagire con lo stesso attraverso i suoi protagonisti. 

Vediamo quindi apparire come per magia sullo schermo Lucio Fulci e Luigi Cozzi in due improbabili spot pubblicitari che inframezzano l’antologia, David Warbeck che interpreta un assurdo medico vestito con completi intimi femminili e sfodera un’oscena linguaccia nell’episodio più spassoso, l’omaggio ad Antrophophagus di Joe D’amato in versione comica intitolato Aerophagus. Qui il marinaio cannibale si è invece dovuto cibare di fagioli pertanto uccide a colpi di scuregge sciogliendo letteralmente i corpi con i suoi gas micidiali. Nello stesso episodio compare anche il compianto Marco Antonio Andolfi in una ilare sequenza a base di puzzette e vomito su un aereo di linea costruito con il cartone (ma efficacissimo direi!). Lo stesso D’amato compare in un breve cameo nell’episodio centrale “The Poor, The Flesh & The Bag” dove si narra di una borsa che viene dimenticata in strada, il protagonista tenta di rincorrere la donna che l’ha smarrita ma la perde di vista e decide quindi di tenersela per sé. Mal gliene colga perché la valigetta è in realtà un orrendo mostro cannibale che divora il malcapitato per poi tornare nelle mani della sua proprietaria, in attesa di smarrirla nuovamente. Geniale cortometraggio questo, arricchito da una mutazione mostruosa a passo uno grezza ma divertente.

Il primo episodio “Hello Dolly” parla invece di un buzzurro che compra una bambola gonfiabile da un losco Mr. Sinister (interpretato dal celebre Make-Up artist di Demoni, Sergio Stivaletti), nella notte la bambola si anima e comincia a inondare l’uomo con uno schifoso liquido biancastro che sembra sperma ma che in realtà trasforma l’incauta vittima, dapprima in una specie di gigantesco profilattico per poi concludere la mutazione rendendolo a sua volta un bambolo gonfiabile. Tra gli altri cameo c’è anche la scream queen Linnea Quigley e la figlia di Lucio Fulci, Antonella (nella parte di una donna gravida che espelle il feto a seguito dei mortali effluvi di Aerophagus). Altre apparizioni celebri sono quelle del regista Sergio Bergonzelli e Rick Gianasi celebre per la sua interpretazione di Sgt. Kabukiman N.Y.P.D., uno dei cult movie della Troma. Sick-O-pathics, opera grezza e poverissima, celebra il mondo del cinema sommerso con una genialità altrettanto spiazzante e mordace, nella sua scarsa durata (meno di un’ora) c’è un’intera storia che si tramanda da decine di anni, oggi più viva che mai. Del film esiste anche una versione con un quarto episodio, disponibile in una rara videocassetta stampata in Germania. 

mercoledì 2 novembre 2022

YOKAI MONSTERS: SPOOK WARFARE

 (Yōkai Daisensō, 1968) 

Regia Yoshiyuki Kuroda 

Cast Chikara Hashimoto, Akane Kawasaki, Yoshihiko Aoyama 

Genere: Fantasy, Horror 

Parla di “ridda di scombinate mostruosità giapponesi devono vedersela con vampiresca divinità babilonese” 


Quando in tutto il mondo esplodeva la contestazione studentesca, nelle sale giapponesi usciva una curiosa quanto assurda trilogia fantasy dedicata agli Yokai, spiriti e mostriciattoli tradizionali del Sol Levante. Una buona alternativa al genere Kaiju Eiga per mandare in sollucchero gli spettatori più piccoli, pur venandola con tinte horror. Dei tre titoli componenti la saga (iniziata con Yokai Monsters: 100 monsters nel 1968 e conclusasi con Yokai Monsters: along with ghosts uscito l’anno successivo) il secondo Yokai Monsters: spook warfare è stato il maggior successo cinematografico dell’intera trilogia. 

La battaglia del titolo vede contrapporsi ai nostri mostriciattoli una tenebrosa divinità babilonese fuoriuscita da una montagna a inizio film mentre due archeologi arabi assistono esterrefatti al prodigio. Totalmente priva di movimenti, la maschera del dio vampiro (chiamato Daimon) richiama in effetti le statuette votive precristiane con un faccione oblungo coronato da un nasone piegato verso il basso e quattro denti storti che sporgono da una bocca simile a quella di un clown. Armato di una strana alabarda, Daimon vola sul mar del Giappone accompagnato da una furiosa tempesta, fino a giungere nella casa di un magistrato, al quale Daimon morde il collo impossessandosi del suo corpo. 

lI cambiamento in negativo del magistrato non sfugge agli occhi della figlia e del fido Shinhachiro, soprattutto quando iniziano a sparire geishe e bambini. Per fortuna a dare manforte ai buoni emerge dallo stagno l’assurdo yokai Kappa, dalle fattezze di uomo rana con un ridicolo costume da sub, un mascherone che ricorda più paperino che un anfibio e una parrucca spelacchiata in testa. Ma non è l’unico yokai del film ad essere ridicolo, praticamente tutta la banda è un pout pourri di assurdi mascheroni in cartapesta, come la Futakuchi-onna che sembra Sadako ma se si gira ha una seconda faccia da strega con tanto di manina gommosa che gli penzola dal naso. Poi c’è la Rokurokubi dal collo lunghissimo (e che Daimon neutralizza annodandolo), il nano col testone Abura Sumashi, uno strano incrocio tra una tartaruga e una roccia (Nuppeppō) e per concludere una riproduzione del celebre Karakasa ovvero l’ombrellino con una gamba e un occhio solo con la lingua a penzoloni che si esprime con versi che ricordano lo “slurp” dei fumetti. 

La banda Yokai appare e scompare in sovraimpressione, vengono catturati da un foglietto magico che li obbliga a restare prigionieri di un otre fino a che non interviene Shinhachiro a liberarli e nel finale richiamano tutto l’apparato yokai esistente in Giappone per avviare la grande battaglia finale, ovvero un mistico casino di comparse addobbate con i costumi più assurdi che saltano da tutte le parti e, in un finale epico quanto narcotico, li vediamo allontanarsi e scomparire tra le montagne mentre uno struggente motivetto classico ci avvisa che è ora di svegliarsi. Ma per i giapponesi gli Yokai sono una cosa seria e nel 2005 ci penserà niente meno che Takashi Miike a rinverdire il mito con The Great Yokai War. 

mercoledì 26 ottobre 2022

GOING NUTS – GRITOS EN EL PASILLO

(2007) 

Regia Juan José Ramírez Mascaró 

Genere : Animazione, Horror, Commedia 

Cast: Luis Jiménez, Gonzalo Navas, Jaime Vaca 

Parla di “noccioline che interpretano un horror ambientato in un ospedale per malati mentali” 


Gli strumenti per girare film d’animazione sono veramente infiniti (ed io ne so qualcosa), ci sono animazioni coi calzini (Dolcezza Extrema, autocit.), con le marionette (Gutboy), con i ritagli di carta (Acid Space) ma solo la follia del regista indie spagnolo Juan José Ramírez Mascaró poteva dare vita ad un film interpretato da noccioline. Lanciato come il primo film di “animazione con frutta secca al mondo” , Gritos en el pasillo è un horror dai toni cupi che richiama , per ambientazioni e fotografia, il gotico spagnolo degli anni settanta, anche se la trama sembra più derivare da un horror americano che in Italia uscì con il titolo “Non guardare in cantina”. Le scenografie sono realizzate con modellini che sembrano uscitì da un incubo di Salvador Dalì utilizzando però la melma secca per costruire le pareti e le stanze dell’ospedale per malati mentali dove viene assunto un giovane illustratore di libri per bambini. 

Il suo compito è ridipingere gli oscuri corridoi del sanatorio al fine di migliorare l’umore dei pazienti, anche in considerazione di un alto numero di suicidi che si sono verificati negli ultimi tempi. Il giovane si mette subito al lavoro ma durante le sessioni notturne sente delle grida misteriose all’interno delle pareti. La strana atmosfera del luogo lo convincerà che il sanatorio nasconde un orribile segreto. Mascaró non cerca di fingere che le nocciole zompettanti per tutto il film siano personaggi umani, e infatti i protagonisti si chiamano fra di loro cacahuetes (arachidi in spagnolo). Con molta pazienza il team di lavoro del film si mette a dipingere centinaia di spagnolette con espressioni diverse, vestiti e uniformi disegnate sulla buccia dell’arachide, frutto principale di tutta l’opera anche se nelle scene di inseguimento finali, verranno impiegati dei gusci di noci per rappresentare i terribili cani da guardia dell’ospedale. Non mancano scene efferate con centinaia di spagnolette sgusciate in modo orribile e al culmine del film interviene anche un vero e proprio esercito con berretti sul guscio e mitragliatrici in miniatura appiccicate alle noccioline. 

Le difficoltà nel rendere credibile l’intera operazione sono piuttosto evidenti, soprattutto per la mancanza di gambe e braccia che rendono difficile alle povere cacahuettes il compiere semplici azioni, la produzione ci prova a compensare, attaccando oggetti come pennelli, sigari, armi e altri attrezzi necessari alla scena, un montaggio nei punti giusti riesce poi a mitigare i limiti ma sono soprattutto i dialoghi l’unico perno dato allo spettatore per seguire le vicende. La mancanza di azione si stempera alla fine con un rocambolesco inseguimento nei boschi, scontri fra noccioline che si prendono a testate e saltano come grilli da tutte le parti ma non si riesce a evitare l’effetto noia che questo tipo di sperimentazione contiene nel suo DNA. Un film che sulla carta stuzzicherà molto la vostra curiosità ma che alla fine, come tutta la frutta salata, lascia solo una gran sete irrisolta. 

mercoledì 19 ottobre 2022

CEMETERY HIGH

(1988) 

Regia Gorman Bechard 

Cast Debi Thibeault, Karen Nielsen, Lisa Schmid 

Genere: Commedia, Horror 

Parla di “gruppo di studentesse diventano vendicatrici contro molestatori maschili e trasformano la città in un incubo per i maschietti” 

Autore di un autentico cult quale è la commedia caciarona in salsa horror “Psychos in Love”, il regista Gorman Bechard ha più volte tentato di disconoscere questa sua prova successiva, distribuita da Charles Band. Assistendo a questo vero e proprio misfatto cinematografico non si stenta a credere a Bechard. Qualunque regista che voglia fregiarsi di tale appellativo si vergognerebbe di questo lavoro, che parte pur bene con un tentativo di rievocare i gimmick di William Castle attraverso didascalie minacciose che invitano il pubblico più sensibile a coprirsi gli occhi, la bocca e le orecchie al suono del gore-gong nelle sequenze più splatter del film. Peccato che di tali scene il film non abbia traccia e che quando appare il temibile gong, la scena successiva risulti visibilmente tagliata se non mancante. Va meglio con la trombetta, che segnala le scene più osè anche se nello specifico suona una volta sola prima di mostrarci le candide nudità di una studentessa intenta a farsi una bella doccia sexy. 

Con un piglio metacinematografico (che dovrebbe far sorridere ma nella realtà è imbarazzante) assistiamo alle avventure di un gruppo di liceali armate e pericolose che decidono di farsi giustizia da sè nei confronti dei maschi, in particolare quelli violenti e stupratori come, ad esempio, un trio di bulletti della scuola intenti a molestare tutte le sottane che incontrano. Dopo aver seccato a colpi di pistola i teppistelli, il gruppo di ragazze inizia la scalata verso una fama sempre più crescente, diventano le Scum Busters ovvero le acchiappa monnezza e partoriscono proseliti tra tutte le appartenenti al genere femminile della città. Vediamo quindi che tristi avances maschiliste nel locale cittadino vengono calmierate con pistole puntate alla testa, molestatori importuni vengono appiccicati al muro a colpi di cofano d’auto e poi evirati a pistolettate. 

Non manca persino una sequenza con la sega a motore e la punizione per il gestore di videoclub che non esita a proporre videocassette pedopornografiche. Bechard non si fa scrupolo di autocitare il suo precedente successo definendolo un mix tra Woody Allen e Non Aprite quella porta ma il pubblico non può che concordare con lui sulla pessima riuscita di questa sua seconda prova, fallimentare come commedia, improponibile come horror, lento, ripetitivo e mal recitato. Si salva giusto il finale che riesce a strappare una pur timida risata ma per il resto siamo dalle parti del peggior catalogo della Troma con situazioni surreali e ridicole dove allo spettatore non rimane neanche la consolazione di vedere cosa succede dopo il suono del gong.  

mercoledì 12 ottobre 2022

ANTHROPOPHAGUS 2000

(1999) 

Regia Andreas Schnaas 

Cast Achim Kohlhase, Andre Sobottka, Joe Neumann 

Parla di “Incapace regista tedesco tenta di rifare senza soldi e senza capacità tecniche, uno dei capisaldi del cinema horror italiano” 

E’ bello sapere che da qualche parte in Germania c’è un tipo come Andreas Schnaas innamorato pazzo del cinema di genere italiano e in particolare di Joe D’amato. Un po' meno bello quando Schnaas, che non è certamente un regista con la erre maiuscola (di maiuscolo ha la P di poveraccio!), cerca di mettere mano allo script originale di Luigi Montefiori e Aristide Massacesi per tirare fuori un remake alla buona, con un budget la cui spesa massima è rappresentata dalla benzina del furgoncino dei protagonisti. Certo chi si avvicina al cinema del filmmaker teutonico sa cosa aspettarsi, considerando che, ancora oggi, è conosciuto per quella fetecchia amatoriale di Violent Shit. Giunto al sesto film della sua corposa filmografia (fortunatamente interrottasi dieci anni fa) Schnaas si fa prendere dall’ambizione e gira quello che, nelle sue pur migliori intenzioni, dovrebbe essere una versione aggiornata di un titolo cult nel nostro cinema, tant’è che gli piazza nel titolo la parola 2000. 

Ma quello che sulla carta sembra un progetto tutt’altro che disprezzabile, nella realtà e soprattutto nelle mani del regista tedesco, si trasforma in una schifezza amatoriale senza possibilità di appello. Il film parte dal ritrovamento, da parte di un gruppo di agenti in borghese (ma con il distintivo sul petto sennò non si capisce), di alcuni cadaveri scarnificati all’interno di una grotta. Uno degli sbirri tira fuori dalle viscere di un corpo un quaderno straordinariamente nuovo e intonso, da cui si può avviare il flashback della storia. Si parte da quello che Massacesi lasciò come colpo di scena finale, ovvero la genesi del mostro, su una barca a vela naufragata nel mare. Successivamente siamo su una spiaggia dove un grosso capellone e una ragazza di colore tutta tatuata si infrattano in tenda (senza neanche togliersi le scarpe, sic!). Dopo una scena di sesso alquanto malrecitata in cui la tipa fa l’amore senza togliersi il costume da bagno, arriva ovviamente il massacro e alla tizia viene letteralmente strappata la pelle di dosso. Poi l’azione si sposta su un gruppo di turisti tedeschi in viaggio sul pulmino presso una località toscana chiamata Borgo San Lorenzo dove scopriranno, da ritagli di un giornale, che tutta la popolazione è stata sterminata. 

Il resto del film è un pout pourri di scene splatter alquanto risibili in cui Schnaas si diverte a omaggiare Fulci (l’estrazione degli intestini dalla bocca come in Paura nella città dei morti viventi) e Deodato (l’impalamento come in Cannibal Holocaust) il tutto con effetti di make up anche discreti se si considerato il tipo di produzione. In realtà chi sceglie Schnaas lo fa perché sa di trovare intestini sviscerati, spellamenti sanguinosi, decapitazioni e mutilazioni senza limiti. Del resto, per il regista, doversi approcciare alla mitica scena di cannibalismo fetale del film originale (ai danni della povera Serena Grandi), è un vero e proprio invito a nozze. Nella sua Versione Schnaas opta per il cesareo a mani nude, estrae il bambino insanguinato che lo guarda piuttosto perplesso prima di essere divorato a morsi. L’effetto, che nel prototipo di D’amato raggiungeva vette estreme alquanto insostenibili, in questa versione raggiunge invece l’esatto contrario, ovvero cade in una apoteosi del ridicolo che suscita nello spettatore colpevoli risate che non dovrebbero esserci alla vista di un infante maciullato. Ma la scena è talmente comica che non si può resistere. Tolto però l’elemento splatter, si può stendere un velo pietoso su fotografia (questa sconosciuta), montaggio e recitazione per i quali Schaas, sebbene godesse all’epoca, di una certa esperienza dietro la macchina da presa, sembrano essere un inutile orpello attorno alla sua personalissima orgia di budella masticate e corpi martoriati. 

giovedì 6 ottobre 2022

DREAMANIAC – SOGNO MANIACALE

(Dreamaniac, 1986) 

Regia David DeCoteau 

Cast Thomas Bern, Sylvia Summers, Ashlyn Gere 

Parla di “ragazzino metallaro per sbaglio, invoca nei sogni demonessa azzannauccelli con cui fa strage a festa scolastica” 

Nonostante qualche effimero letterato imbolsito possa dire il contrario, questo blog ha principalmente lo scopo di fare informazione, e l’informazione che vorremmo darvi oggi è che quando vedete nei titoli di testa il nome di David DeCoteau potete stare certi di assistere ad un filmaccio. Non fa eccezione questo Dreamaniac che in Italia uscì in VHS tradotto letteralmente in “Sogno Maniacale” che già fa ridere così. In questa sorta di Teen Horror in linea con gli stilemi dell’epoca ma tradotto in una confezione poverissima, DeCoteau, che nella sua lunghissima carriera ci ha regalato perle come “Tragica notte al Bowling” e soprattutto il capolavoro (nel senso inverso del trash) “Creepozoids”, ci propone la solita accoppiata Heavy Metal + Satanismo narrandoci le gesta del giovane Adam, musicista da cameretta intento a fare metal ma, come vedremo nel film, si limita a fare giusto un paio di accordi strimpellati con la chitarra acustica. 

Adam (Thomas Bern) è preda di incubi terrificanti dove viene evirato a morsi da una tizia di nome Lily (Sylvia Summers) che starebbe poi per Lilith ovvero la prima donna dell’Eden che rifiutò, per l’appunto, di assoggettarsi ai comandi di Adamo e viene punita da Dio trasformandola in un demone. Caso vuole che Pat, la ragazza di Adam (Ashlyn Gere) decide di fare una festa a casa sua e tra gli invitati spunta, non invitata, questa Lily dallo sguardo psicopatico e un’orrendo vestito blu elettrico. In breve la festa si trasforma in un massacro, la donna lega ad un palo un tizio in mutande e lo frigge con la corrente elettrica, poi infilza un altro con una racchetta da sci e, dulcis in fundo, pratica una fellatio con distacco sanguinolento di uccello. Il tutto mescolato con rapporti sessuali più o meno espliciti, scene di nudo mai troppo integrale che ci ricordano comunque che DeCoteau veniva dal porno e questo era il suo primo film “serio” sotto l’egida di Charles Band, il quale rimase particolarmente colpito da quest’opera inserendo successivamente DeCoteau nella sua scuderia. Il film, nella maggior parte del tempo, non è neanche malaccio, ci sono alcune scene decisamente splatter tra cui il fracassamento di un cranio ben realizzato, il tutto fotografato in un tripudio di colori ipersaturi in pieno stile eighties. 

Tutto questo però non migliora il giudizio sull’opera, che oltre ad avere un finale tra i più idioti mai visti sullo schermo, ci rivela situazioni imbarazzanti dove l’inverosimile prende il sopravvento, come nella scena dove una ragazza sta leccando panna montata dai capezzoli del suo boyfriend e nel pieno dell’amplesso, lui si alza per andare a bere. Non parliamo poi di una delle prime vittime che si rialza come morto vivente in mutande e comincia a camminare in una maniera talmente surreale da trascendere la comicità. Dulcis in fundo la cosiddetta final girl, in compagnia della sorella ubriacona, negli ultimi minuti ci insegna che in qualsiasi casa americana si può trovare un trapano dalla punta gigante con cui perforare le mani ai posseduti, arrivando persino a decapitarli. E rimanendo in tema di Final Girl, l’esordiente Ashlyn Gere lavorò ancora per DeCoteau e negli anni novanta riuscì persino a entrare nel cast di Basic Instinct ma verrà ricordata principalmente per la miriade di film porno con cui ha costellato la sua miseranda carriera. 

martedì 27 settembre 2022

TURKISH JAWS - ÇÖL

(1983)

Regia Çetin Inanç
 

Cast Cüneyt Arkin, Emel Tümer, Salih Kirmizi

Parla di “Bellimbusto combatte la mala organizzata e finisce addentato da squalo di polistirolo”

Qualche buontempone sul web lo ha rinominato Turkish Jaws nella speranza di destare un seppur minimo interesse, in realtà il film del regista turco Çetin Inanç è un thriller d’azione che non ha nulla a che spartire con il film di Steven Spielberg se non per un paio di deliranti minuti alla fine, dove il protagonista Kemal (interpretato dal noto attore ottomano Cüneyt Arkin che invece interpretò le vere Turkish Star Wars) legato su una trave di legno e abbandonato nelle acque del mediterraneo come un novello Gesù Cristo acquatico, viene assalito da un assurdo pescecane di gomma piuma lucida con triangoloni di polistirolo a guisa di denti. Lo squalo gli azzanna un braccio ma invece di staccarglielo lo libera dalle corde e gli permette di afferrare da chissà dove, una punta di legno con cui infilza il mostro marino. 

In effetti se si guarda al trash la scena in questione vale tutto il film ma se ci si spinge a seguirne la trama scopriremo che sono ben altri i plagi di cui è colpevole questo Col (che in turco significa Deserto come gli occhi del protagonista). Inizialmente sembra una brutta copia di Cobra che già non è menzionato tra i migliori film di Stallone, figuriamoci un film (turco) che lo scimmiotta mettendo su pellicola un bellimbusto con capelloni semi grigi e occhi verdi, mascella irreprensibile ed espressione da mattone perculato. Già i titoli di testa sono sfiancanti, il protagonista corre in moto con sottofondo di un plagio di Whole Lotta Love dei Led Zeppelin arricchita con il flauto che si interrompe ogni volta che compare una didascalia (praticamente ogni 5 secondi). Sembra poi che a Kemal tutti vogliano far la festa, prima un autoarticolato cerca di buttarlo fuori strada, poi una tizia che guida un auto da rally che cambia misteriosamente fisionomia quando si rovescia in un fossato. Entrato in un bar, Kemal viene aggredito dai clienti e qui assistiamo ad un eccesso di fast motion nelle scene di scazzottamento che vengono accellerate al punto da trasformare la rissa in un film di Ridolini. 

C’è poi la tecnica tutta turca di gestire la lotta cinematografica in soggettiva, in pratica il protagonista picchia l’obbiettivo, poi c’è lo stacco e vediamo il malmenato che vola da una finestra, rotola dalle scale o si infrange su un tavolo. Ad accompagnare molte sequenze c’è poi un secondo plagio musicale che riproduce Eye of the Tiger, rubata paro paro da Rocky III (ma anche Rocky IV). Segnaliamo poi una scena di tentato stupro ai danni della protagonista femminile Emel Tümer veramente allucinata, partendo dal fatto che la donna, tre quarti di film  li passa su un’orrenda spiaggia rocciosa a guardare l’orizzonte, la vediamo percorrere un declivio erboso ed essere aggredita da due tipacci che iniziano a leccarla tutta. Fortunatamente Kemal interviene a fermare questa oscenità facendo fuggire i due violentatori semplicemente col suo sguardo magnetico.  Alla fine il protagonista rivelerà il suo passato difficile (viene cresciuto in orfanotrofio perché la madre non poteva occuparsi di lui, poi la donna muore e gli portano via pure il cane) e scopre che tutti quelli che ha attorno lo tradiscono, il suo amicone comandante di una nave, la donna (che si becca una coltellata alla schiena ma non si sa da chi) e il suo figlioccio a cui ha salvato la vita per ben tre volte salvo poi morire per sua mano. Finale con annesso pippone su quanto è bella e potente la legge e inquadratura dell’allora presidente della repubblica turca. 

venerdì 16 settembre 2022

SCHOOL OF THE HOLY BEAST

(Seijû gakuen, 1974) 

Regia Norifumi Suzuki 

Cast Yumi Takigawa, Fumio Watanabe, Emiko Yamauchi 

Parla di “ragazza si fa suora per indagare morte madre e scopre che in convento si fa di tutto tranne che pregare” 

Nelle prime sequenze urbane che accompagnano i titoli di testa vediamo un manifesto cinematografico in versione nippo di “Niente di grave suo marito è incinto” e subito dopo troviamo la protagonista Maya (interpretata dalla splendida Yumi Takigawa) all’interno di una sala ad assistere a “Tony Arzenta” di Duccio Tessari di cui però sentiamo solo la voce. Con questo incipit il regista Norifumi Suzuki mette subito in chiaro la sua passione per il cinema italiano e decide di dire la sua su di un genere tipicamente nostrano come il nunsploitation. Suzuki mescola tematiche affini al giallo con umori sado-maso tipicamente nipponici, alzando l’asticella in tema di blasfemia estrema. Il tutto però in un contesto visivo raffinato, dai colori accesi ispirati a Mario Bava e la ricerca del dettaglio visivo alla Fulci/Argento. 

Nei primi minuti Maya sembra tutto tranne che una suora, esce, va al cinema e rimorchia un bellimbusto in motocicletta con cui trascorre una notte infuocata, lui vuole rivederla ma lei dichiara che questa è la sua ultima notte da donna libera e infatti il giorno dopo entra in convento dove non tardiamo ad assistere a scene del tutto estranee alla sacralità del luogo. Le suore bevono whisky, si fumano canne, amoreggiano safficamente e si scambiano fotografie porno, il tutto nonostante le autoflagellazioni punitive o le frustate in tandem. Ben presto scopriamo che l’intento di Maya non è la ricerca del divino ma una vera e propria indagine su sua madre, una suora morta in maniera misteriosa dopo averla data alla luce. Attraverso la confessione di una vecchia morente scoprirà che a uccidere la madre è stata la direttrice che dopo averla frustata a sangue, gli ha pure schiacciato la pancia con un piede prima di impiccarla. A questo punto Maya organizza uno stupro programmato della colpevole ma viene scoperta e punita con legacci irti di spine e una sorta di lapidazione collettiva con mazzi di rose. 

Intanto anche un’altra suora rimane incinta dal reverendo padre del convento che ha il vizietto di organizzare messe private con le consorelle. Anche questa sarà punita sadicamente obbligandola a orinare direttamente su un’icona di Gesù Cristo. Alla fine la direttrice finirà in una botola piena di acido, la vicedirettrice verrà impalata in un cancello mentre il reverendo finirà accoltellato con un crocefisso in un tripudio pop-psichedelico misto ad atmosfere gotiche che ricordano il periodo Edgar Allan Poe di Roger Corman con tanto di scogliere minacciose immerse sotto cupi temporali. Narrativamente coeso, ricco di colpi di scena e violenza grafica in puro pinky-style, il nunsploitation di Suzuki è un piccolo raffinato gioiellino che sferza nerbate pesanti sull’ipocrisia ecclesiastica che stigmatizza l’atto sessuale come bestia immonda, che poi rappresenta uno dei motivi principali dell’esistenza ( e del successo) dell’intero genere. 

mercoledì 7 settembre 2022

THE JAR

(1984) 

Regia Bruce Toscano 

Cast Gary Wallace, Karin Sjöberg, Robert Gerald Witt 

Parla di “insegnante porta a casa vecchietto accidentato e ci guadagna un barattolo che lo tortura a botte di incubi” 

Il surrealismo nel cinema è un’arma a doppio taglio, perché, se da una parte ti da la possibilità di esprimere tutta l’urgenza visionaria, dall’altra devi essere in grado di farlo anche con pochi mezzi, ma soprattutto ci deve essere un significato, appariscente o celato che sia, alla base di tutti i deliri visivi che vuoi perpetrare al povero spettatore. Ecco, dopo esserci sorbiti questi 85 minuti di pura follia anarchica realizzata da Bruce Toscano nel 1984,  possiamo tranquillamente dire che il fallimento di The Jar è da attribuirsi senza ombra di dubbio alla mancanza di un significato. Se poi a questo ci aggiungi una fotografia carente al punto da rendere oscuro (“buio” come dice la voce narrante iniziale) tutto quello che fai, il disastro è completo. La storia è alquanto pretestuosa: un barbuto insegnante  di nome Paul (Gary Wallace) fa un incidente di notte con un vecchietto che non vuole assolutamente andare in ospedale. Non trovando di meglio da fare, Paul se lo porta a casa ma questi, dopo pochi minuti scompare, lasciando una specie di barattolone contenente un liquido che si rivela essere una specie di brutto gnomo verdastro liquoroso. 

Dopo un risveglio con urlo a tutta mascella, Paul diventa preda di incubi, deliri, e chi più ne ha ne metta. Girovaga nella notte incontrando strane facce, ha allucinazioni di ragazzini morti nella vasca da bagno, vaga per un parco giochi e da la mano ad una ragazzina che ha lasciato volare via il palloncino e, per ben due volte, cerca di frantumare l’odioso barattolone, il quale, nonostante vada in mille pezzi, pare si ricomponga e ritorni a casa di Paul. C’è pure una vicina di casa, piuttosto carina, a cui Paul da una mano portandogli una sedia a dondolo dall’ascensore al suo appartamento (sai che sforzo!) e da quel momento la tipa continua a tampinarlo con il complesso dell’infermierina. Nonostante Paul le urli contro, non se la caga di striscio e ad un certo punto si estranea mentalmente pur di non ascoltarla, questa non lo molla ed alla fine ne pagherà le conseguenze. Toscano però non si limita ai deliri casalinghi, ci regala anche una sequenza dove Paul, piuttosto sudaticcio, segue una strana processione di incappucciati urlandogli dietro “Chi sei???” e un’altra in cui tenta di farci addentrare in una scenetta da guerra del Vietnam dove c’è gente (mal) vestita da soldato che corre da tutte le parti e si getta negli acquitrini falciata da cecchini inesistenti. 

Insomma siamo di fronte al delirio fine a sé stesso, senza una logica e senza neanche un’estetica, solo un pallido tentativo di dare sfogo a movimenti di macchina articolati, con illuminazioni basse, fioche che si alternano a esterni notturni virati al bianco e nero, una brutta copia di Lynch e Jodorowski dove l’unica cosa che si salva è la colonna sonora di inquietanti synth anni ottanta in stile John Carpenter, realizzata da un sedicente gruppo chiamato Obscure Sighs che in realtà sono il regista Bruce Toscano e il direttore della fotografia Cameron McLeod, i quali, non avendo più realizzato nient’altro dopo The Jar (stesso destino per quasi tutto il cast, del resto) probabilmente hanno capito che era meglio continuare a fare musica piuttosto che cinema. 

lunedì 1 agosto 2022

IL GRATTACIELO DELLA MORTE

(The Dark Tower, 1987) 

Regia Freddie Francis, Ken Wiederhorn 

Cast Jenny Agutter, Michael Moriarty, Kevin McCarthy 

Parla di “palazzone catalano posseduto da spettro birichino che insidia la bella architetta” 

Quali altri motivi si potrebbero avere per vedere un film dove la gente muore a causa di una forza invisibile, che. tradotto in cinema trashese significa “attori che fingono di lottare con l’aria”? Personalmente l’unico motivo che ci ho trovato è la splendida Jenny Agutter che ricordiamo come sexy infermiera in An American Werewolf in London e scosciata comprimaria in “La Fuga di Logan”, qui trasferita a Barcellona, in un moderno palazzone di acciaio e vetro dove, al 29mo piano un lavavetri comincia a dibattersi davanti alla sua finestra per poi successivamente gettarsi nel vuoto schiacciando oltretutto un ignaro passante. Ma questo è solo la prima delle strane morti all’interno del grattacielo, il successivo accade nell’ascensore anche se si inquadra solo il sangue sul muro e non si capisce cosa cacchio sta succedendo. Il terzo è un poliziotto che, sceso dall’ascensore inizia a sparare su tutti e in particolare sulla bella architetta Carolyn Page (Jenny Agutter) che si salva per miracolo. 

Poi arriva il solito poliziotto scazzato che preferirebbe essere in vacanza (Michael Moriarty) e incredibilmente si scopre avere poteri extrasensoriali con cui, in combutta con un ridicolo esperto del paranormale (Theodore Bikel) che parla con i muri, oltre ad un ancora più ridicolo sensitivo (Kevin McCarthy), cercano di contrastare uno spettro omicida nascosto nel palazzo. Alla fine saranno cazzi dell’architetta, rea di aver ucciso il marito e averlo cementato in un pilone, durante la costruzione del palazzo. Ad un certo punto infatti i muri si sgretolano ed esce un assurdo zombi con mascherone di gomma ad afferrare la donna e trascinarla nel pilone, in un tripudio di lampadine che esplodono, porte che saltano e muri che si sfondano. 

L’ambientazione è incomprensibile perché sappiamo che è girato a Barcellona per via dei ringraziamenti nella didascalia finale, ma la città appare irriconoscibile per quello che viene mostrata. Nei titoli leggiamo che dietro alla macchina da presa c’è un sedicente Ken Barnett, il quale altri non è che il mitico Freddie Francis, regista e direttore della fotografia (vincitore di ben due Oscar) cresciuto nella fucina della Hammer Films, qui in coppia con Ken Wiederhorn, regista di cult come Shock Waves (L’occhio nel triangolo) e Il ritorno dei Morti Viventi 2. Un’accoppiata incredibile che, sulla carta, avrebbe potuto far sperare in un capolavoro, ma l’insipienza della trama, la grottesca fattura degli effetti speciali e la storia stupidina, hanno trasformato in un film ridicolo e noioso. Ci resta come premio di consolazione, la Agutter che, nel suo completo in rosso e l’intensità del suo sguardo, riescono a farci digerire questo triste boccone amaro.