mercoledì 27 dicembre 2017

THE HIPNOTIC EYE

(Id. 1960)
Regia
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Questo film si può considerare a tutti gli effetti  un elegante compendio del cinema exploitation, con una realizzazione più che dignitosa, un'ottima fotografia da cinema noir in bianco e nero ma un tema trattato molto esploitativo e banale  quale il tema dell'ipnotista assassino. Il regista George Blair si dimostra molto attento a ricercare inquadrature ardite, sin dalle prime immagini, dove lo vediamo inquadrare, nientemeno che dall'interno dei fornelli accesi di una cucina a gas, una graziosa biondina intenta a spalmarsi una soluzione infiammabile sui capelli e darsi fuoco all'improvviso. Sulla scena del delitto arriva il detective Dave Kennedy  che si china sulla ragazza tutta fasciata e dopo averla ascoltata bofonchiare qualche rantolo, dice al medico che la ragazza sta bene. Tempo zero e quella muore! Ma che razza di gufo! Nella sequenza successiva il poliziotto parla con uno psicologo intento a tirare freccette contro la foto di Freud,  il quale sospetta che la ragazza sia stata ipnotizzata. 

Cosa c'è di meglio quindi che gustarsi lo spettacolino dell'ipnotista Desmond? Interpretato dall' attore francese Jacques Bergerac (che qualcuno ricorderà nella serie televisiva di Batman nel personaggio di French Freddy) che difatti ha una pronuncia inglese che grida vendetta per tutto il film, l'ipnotizzatore muove uno spettacolo un pò bizzarro dove gli spettatori invitati sul palco fanno strane facce, girano indietro gli occhi e simulano malamente freddo e caldo a comando. Finito con questi, Desmond cerca nuovi volontari tra il pubblico per alzata di mano, e c'è una che, in platea, tiene disperatamente la mano alzata (anche se sembra più un saluto romano) e nessuno se la caga. Desmond ne ipnotizza un'altra irrigidendola tutta come un baccalà. Finito lo spettacolo però, c'è il colpo di scena, la ragazza torna a casa e si lava la faccia con l'acido (anche qui Blair inquadra la scena dall'interno del lavandino...ma che genio!!!). Peccato che questa volta la donna sopravviva e sia pure amica del Detective, il quale inizia subito ad indagare mandando la sua fidanzata Marcia a fare da esca per il successivo spettacolo.

In questo caso però Desmond pare innamorarsi brutalmente della ragazza e dopo averla ipnotizzata se la porta in un localino urfido dove c'è un bizzarro poeta che recita poemi di mostri cinematografici a ritmo di jazz. Tallonati dal poliziotto, Desmond e Marcia si infrattano a casa di lei dove arriva anche Justine, la diabolica assistente di Desmond che vuole fare a Marcia una doccia iperbollente. Dave interviene ed evita a Marcia quello che invece è capitato a tutte le vittime di Desmond, orribilmente ustionate o mutilate. A questo punto assistiamo per intero ad uno spettacolo di Desmond che arriva addirittura a ipnotizzare il pubblico facendogli fare giochini scemi con le mani, il tutto però dentro una serie di sequenze molto suggestive e psichedeliche che vale la pena rivalutare all'interno di un crime movie piuttosto dozzinale ma ben realizzato, in certi momenti anche abbastanza crudo (vista l'epoca). Peccato che trama e situazioni si presentino in più momenti bislacche e ridicole e il finale, con il pippone dichiarato contro i pericoli dell'ipnosi la dica lunga sul contenuto altamente exploitation del film.
 



lunedì 18 dicembre 2017

FRANKENSTEIN ALLA CONQUISTA DELLA TERRA

(Furankenshutain tai chitei kaijû Baragon 1965) 

Regia 
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Meglio conosciuto come Frankenstein tai Baragon, questo film rappresenta una notevole presenza nel panorama dei Kaiju Eiga, ovvero quella serie di film giapponesi dedicati agli scontri tra mostri di gommapiuma che se la giocavano tutta per conquistarsi il dominio del pianeta Terra. Padre colossale di questa ondata di mostri è il mitico Gojira (ovvero Godzilla, di cui il regista Ishirô Honda è lo stesso colpevole di questa ennesima variante) ma anche e sopratutto la causa madre di tutte le mutazioni: La bomba atonica che devastò Hiroshima alla fine della seconda guerra Mondiale. Ed è proprio dalla Grande Guerra che nasce tutto il plot di questa pellicola, inizia con il dottor Frankenstein che sigillla in una bara il cuore del suo mostro, portato via dai tedeschi e ceduto al centro di ricerca di Hiroshima pochi istanti prima che la bomba devasti completamente la città giapponese. 

Ritroviamo quindi un medico americano (Nick Adams) che cura i colpiti dalle radiazioni, aiutato dalla bella dott.ssa Sueko (Kumi Mizuno). I due ben presto incontrano uno strano ragazzo con la fronte quadrata che si rivelerà aver divorato il cuore di Frankenstein per trasformarsi nel celebre mostro che Mary Shelley creò la notte che sappiamo. Ritengo che la moglie del celebre poeta, divenuta celebre ancor essa con il romanzo più famoso di tutte le epoche, si rivolterà nella tomba vedendo ingigantire senza alcun senso il suo parto primordiale, e sopratutto inorridirà vederlo fare a botte con Baragon, dinosauro (ma de che!!!) resuscitato dalle radiazioni, con il quale scatenerà il classico duello finale con sfondo di bosco in fiamme e catarsi conclusiva in cui, quando tutto sembra concludersi per il meglio e la creatura esulta vittoriosa per la sconfitta del mostro, ecco che spunta fuori un polipone gigante con cui il nostro mostruoso eroe intraprende un nuovo sfiancante combattimento il cui esito sarà mortale per entrambi. 
Questo film ha il pregio di volerci far credere sul serio a tutto ciò che vediamo, alle deliranti spiegazioni di rigenerazione cellulare del mostro di Frankenstein qui reso alla stregua di un supereroe brutale (una specie di Hulk giapponese) dal cervello animale ma dai sentimenti puri che lo rendono paladino salvatore della razza umana. Talmente serio questo parto della Toho, che vale la pena tornare adolescenti per goderselo in tutto il suo assurdo splendore, anche se sappiamo tutti che dentro il mostro c'è un attore che balla.
 

domenica 10 dicembre 2017

ASSALTO DALLO SPAZIO

(Invisible Invaders, 1959)

Regia
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Ecco un mirabile esempio di come si riesca a costruire una colossale invasione aliena con quattro soldi, utilizzando solo filmati di repertorio e quattro attori in croce. Invisibile Invaders parte con la non trascurabile idea che gli alieni siano invisibili a occhio nudo e che quindi astronavi, mostri e quant'altro non si vedano. Con questa economica base di partenza il regista Edward L. Cahn non deve far altro che buttare nel calderone un pò di immagini di distruzioni e incendi vari, tanto tutta la trama è incentrata sui quattro personaggi che si rifugiano nel bunker per trovare il punto debole degli invasori. Ovvio che bisogna mostrare anche qualche aggressione di terra, ecco allora che spunta un'idea che nello stesso anno verrà utilizzata anche dal signor Ed Wood per Plan 9 from Outer Space. 

Gli alieni si impossessano dei cadaveri e li rianimano per uccidere, vediamo così una serie di morti viventi (tutti stranamente in giacca e cravatta) ciondolare comicamente come spaventapasseri, impossessarsi del microfono degli speaker negli stadi e annunciare la loro terribile minaccia di invaderci entro 24 ore. Nel film c'è anche John Carradine, unico attore degno di nota che guarda perplesso la telecamera a inizio film prima di esplodere salvo poi ritornare come zombi tutto inceronato come una statua di cera, ad avvisare il suo collega, l'antinuclearista Dottor Adam Penner che alieni invisibili stanno per conquistare la terra. Nonostante l'economicità della pellicola e l'abuso smodato della voce narrante, la quale ci racconta praticamente il film per filo e per segno, il tutto regge abbastanza bene e si lascia guardare, complice anche la "fortunatamente" breve durata del film. 



I personaggi sono oltremodo stereotipati secondo i classici stilemi del cinema americano del dopoguerra, c'è il soldato rozzo ma coraggioso, il vecchio professore saggio, la verginella che prima fa la preziosa poi si innamora perdutamente del militare e dulcis in fundo, il cittadino laureato di fresco pusillanime e disfattista. Però l'idea degli zombi posseduti dagli alieni, seppur sviluppata male, è avanti anni luce e in un certo qual modo sembra il prologo ideale a "La Notte dei Morti viventi" dieci anni prima. Del resto il Regista Cahn che, pur essendo qui un vero e proprio can, non è nuovo ad aver ispirato il cinema fantahorror del ventennio successivo. Il suo "IT!The terror beyond outer space" si può considerare il precursore di Alien mentre è iconograficamente accertato che l'altro suo titolo più conosciuto "Invasion of the Saucer Man" abbia ispirato in maniera importante "Mars Attack" di Tim Burton.
 

martedì 5 dicembre 2017

L'INVASIONE DEGLI ULTRATOPI

(The rats are coming! The werewolves are here, 1972)
 Regia
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Se si ama il cinema low budget non si può non amare Andy Milligan artigiano del cinema capace di girare con 1500 dollari un film in costume. A ben vedere anche "werewolves..." è da considerarsi un film in costume in quanto la storia della famiglia mannara dei Mooney è ambientata in una villa vittoriana con vestiti del 1800 (il film difatti si svolge nel 1899 come cita alla fine Douglas Phair nei panni del patriarca della famiglia), il periodo di preludio al cambio di secolo e a tutte le aspettative che, a questo, rimandano le citazioni a Giulio Verne e alle fantascientifiche avventure dell'uomo sulla luna. 

Questo film grezzo, con scene d'azione girate in modo frenetico con telecamera a mano, è un'enorme favola che deve aver non poco ispirato Neil Jordan per il suo "in compagnia dei lupi". Personalmente ritengo questo spaccato familiare letto in chiave di favola dei fratelli Grimm, un piccolo capolavoro di quel cinema beat che inperversava tra il '68 e il '72 tant'è che sembra vedere rotolare per terra, nel finale, anche Ringo Starr dei beatles nel finale di questa fiaba maleodorante in cui i personaggi (ed i loro dialoghi) sembrano frutto di un unico disegno lisergico. 

Peccato che molti hanno trovato nel maggior successo commerciale di Milligan, solo un pretesto per sfruttare il filone "topi assassini" che attraversò un breve periodo dei primi anni '70 con "Willard e i topi", se si considera la partecipazione dei topolini carnivori, il delirante dialogo con il loro padrone e il tentativo di dargli un nome da parte di Hope Stansbury (Monica, la psiocopatica assassina del film, una specie di vampira killer da "considerare" nei futuri annali dell'horror) come un mero ed insignificante paragrafo di una favola perfetta come quella della famiglia Mooney, affetta da licantropia generazionale, ci si può concentrare su una storia delirante ma mai noiosa, attorniata da personaggi clamorosi e da una trama quantomai originale ed insospettabilmente funzionale che ammorba lo spettatore disposto a lasciarsi andare in questa follia.