giovedì 24 febbraio 2022

CURSE OF THE CANNIBAL CONFEDERATES

 (1982)

Regia Tony Malanowski 

Cast  Steve Sandkuhler, Rebecca Bach , Mark Redfield  

Genere: Horror 

Parla di “coppiette in gita nei boschi trovano un diario e risvegliano i cadaveri di soldati della guerra civile” 

Se il vostro desiderio di brutto cinematografico tende agli estremi questo film fa decisamente per voi, raramente infatti troverete qualcosa di così malfatto da chiedervi se i superotto delle vacanze di vostro zio non siano dei cult incompresi a confronto di questa ciofeca. Distribuito dalla Troma che, orgogliosamente, lo ha posizionato tra i cinque peggiori titoli della sua scuderia, il film diretto da Tony Malanowski non è altro che un remake del suo stesso esordio registico dell’anno precedente, quel Night of Horror che, da voci indiscrete, si paventa anche peggio di questo. Appare comunque ironico che il futuro di Malanoski nel mondo del cinema sia sbocciato nell’arte del montaggio, soprattutto se si considera che Curse of the Cannibal Confederates (per gli amici Curse of the Screaming Dead o, se volete, abbreviarlo CCC) ha il suo difetto peggiore proprio nell’editing che taglia e cuce, in maniera quasi schizoide, inquadrature diverse tra loro sia come colori e soprattutto come luminosità. In breve all’interno dello stesso dialogo, composto da almeno trecento cambi di immagine tra un attore e l’altro, si passa dallo scuro della notte più tenebrosa alla luce del sole del meriggio fino all’imbrunire, quasi che le sequenze fossero state girate in tempi e luoghi diversi tra loro. 

Ma se il montaggio appare una chiavica non è che il resto della pellicola goda di buona salute. La sceneggiatura, probabilmente, è stata contenuta in un unico foglietto che il cast si passava di mano in mano prima di recitare (anche se usare quest’ultima parola appare quantomeno azzardato vista l’incapacità latente degli attori) e si riduce, in pratica, ad una battuta di caccia di tre coppiette di amici armati con fucili della seconda guerra mondiale, i quali, addentrandosi in un boschetto, trovano una vecchia chiesa che scampana ancora ma solo nel cervello di una delle ragazze. Di fianco all’edificio c’è ovviamente un vecchio cimitero le cui croci sono legate con il nastro adesivo. Dopo circa una ventina di minuti in cui non succede assolutamente nulla, uno dei cacciatori trova un bauletto contenente una bandiera dei confederati (più che altro per giustificare il titolo sembra) e un vecchio diario. 

Dopo circa quaranta minuti di assoluta noia mortale, arrivano finalmente gli zombi, ma non è che la situazione migliori, anzi, dalla noia si passa al ridicolo più imbarazzante soprattutto assistendo alla grottesca parata di comparse vestite con stracci e abiti trovati nei cassonetti e qualche giacca militare giusto per dare una parvenza di coerenza con la trama stessa. In aggiunta qualche zombie si presenta con giganteschi mascheroni di gomma e tutti, proprio tutti, emettono mugolii assurdi che sembrano usciti dall’audio di un porno, situazione questa che raggiunge l’apice nel consueto pasto cannibale dove la macchina da presa si sofferma per un tempo infinito e nelle orecchie dello spettatore, oltre ad un fastidioso effetto sonoro simile allo stridio di denti che masticano, si odono anche questi gemiti di godimento manco i cadaveri stessero per avere un orgasmo. Spuntano anche due poliziotti che sembrano usciti da un film del dopoguerra, tra cui l’attore Mark Redfield che risulterà l’unico a fare carriera nel cinema dopo questa zozzeria. L’unica nota originale è che quando si spara agli zombi, la testa esplode, tanto per farci assistere ad una serie di manichini che saltano per aria. Dulcis in fundo il finale sembra tranciato con l’accetta, neanche il regista avesse finito il metraggio della pellicola prima dei titoli di coda. Su tutto e tutti capeggia una fastidiosa e continua musichetta composta con tastierine e basso, senza interruzioni e senza alcuna attinenza con quello che, disgraziatamente, i nostri occhi sanguinanti stanno vedendo. 

giovedì 17 febbraio 2022

THE BEAST OF THE YELLOW NIGHT

 (1971) 

Regia Eddie Romero 

Cast  John Ashley, Ken Metcalfe, Mary Charlotte Wilcox  

Genere: Horror 

Parla di “Soldato assassino riceve maledizione e si reincarna in ricco imprenditore che, dopo una colica, diventa un mostro parruccone” 

Frutto della collaborazione produttiva tra il regista filippino Eddie Romero e Roger Corman, questo Beast of the Yellow Night può essere considerato a tutti gli effetti un “film intuitivo” nel senso che lo spettatore giocoforza deve intuire il percorso narrativo delle vicende del povero Joseph Langdon (interpretato dal belloccio John Ashley che aveva già percorso il corridoio dell’horror ne La figlia di Frankenstein nel 1958 e aveva già lavorato con Romero ne Il Terrore nell’Isola dell’Amore del 1968), soldato in fuga tra le foreste filippine dopo aver compiuto un massacro insieme ad una non meglio specificata complice indigena che viene freddata immediatamente. Disperso nella giungla, senza cibo da diversi giorni e ormai ridotto al collasso, Langdon incontra una specie di stregone che gli offre budella umane da mangiare in cambio della sua anima. 

Lo scenario si sposta in tempi più recenti dove l’imprenditore Philip Rogers ritorna improvvisamente in vita in ospedale, i medici si sorprendono, ma soprattutto restano scioccati dal fatto che l’uomo ha il volto bendato non si sa da chi. Comunque appena tolte le bende scopriamo che Philip e Langdon sono la stessa persona (con un po’ di barbaccia in meno). Per i primi quaranta minuti circa, il protagonista si strugge di dolore perché non vuole vivere salvo poi struggersi di dolorosissime fitte alla pancia che lo trasformano in un ridicolo uomo bestia (quando si dice la cattiva digestione!) con la faccia butterata e colorata di verde ma soprattutto con un’assurda pettinatura tutta cotonata. Munito di artigli, il mostro affetta e squarta a più non posso, finchè non trova rifugio in una schifosissima cantina dove un vecchio cieco lo accoglie benevolmente. Il mostro poi, per ritornare umano, si getta a faccia in avanti contro un treno in corsa e, miracolosamente, torna ad essere Philip. Le successive trasformazioni, stranamente, avvengono mentre il nostro sfortunato eroe si accinge a copulare con la bionda moglie Julia, la quale, nonostante lo abbia tradito con il fratello Earl (Ken Metcalfe), non riesce proprio a fare a meno del maritino. 

Alla fine sarà il vecchio cieco, suo malgrado, a salvarlo dalla maledizione, invitandolo a pregare per lui in punto di morte. Langdon, reso immortale dal diavolo in persona (identificato nel film da un serpente ma soprattutto da una cavernosa voce fuori campo che ripete frasi senza senso), tornerà ad essere vulnerabile alle pallottole e finalmente potrà incontrare la tanto agognata fine. Se si cerca un motivo valido per vedere questo film, si può anche rimanere affascinati dalla continua lotta interiore del protagonista che riesce, tutto sommato, a trasmettere una malinconica determinazione alla propria autodistruzione. Peccato che tanta profondità d’animo venga poi rigettata all’apparizione di uno dei più ridicoli mostri di sempre. Nel cast troviamo la splendida Mary Charlotte Wilcox nel ruolo di Julia, attrice che trasuda sensualità da tutti i pori ma che preferiamo ricordare nella sua miglior interpretazione come protagonista in La Necrofila (Love me deadly, 1972). 

mercoledì 9 febbraio 2022

L’ ABBRACCIO DEL RAGNO




(Ein Toter hing im Netz, 1962) 

Regia Fritz Böttger 

Cast Harald Maresch, Helga Franck , Alexander D'Arcy  

Genere: Fantascienza, Horror, Exploitation 

Parla di “ballerine naufragate su isola deserta devono vedersela con il loro impresario trasformato in uomo ragno” 

Un vero peccato che questo fantahorror teutonico di serie ultra zeta non sia conosciuto e venerato come dovrebbe, perché vi garantisco che è pura dinamite exploitation, talmente ridicolo e grottesco da rasentare il capolavoro, arricchito dal fascino vintage di uno splendido bianco e nero ma soprattutto dalla presenza sempre più discinta, man mano che il film scorre, di uno stuolo di ballerine che da sole varrebbero il prezzo del biglietto. Distribuito nel mondo con una ventina di nomi diversi tra cui Horrors of Spider Island, It's Hot in Paradise, Girls of Spider Island e The Spider's Web, il film scritto e diretto da Fritz Böttger incomincia con un provino. L’impresario Gary (Harald Maresch ) deve selezionate dodici ballerine per uno spettacolo a Singapore e fin qui lo sketch risulta anche divertente, poi l’aereo su cui si dirigono in Oriente precipita e vediamo le ballerine e l’impresario naufraghi che giungono su un isola che sembrerebbe deserta. 

Scoprono invece una vecchia baita dove c’è un vecchio scienziato appeso comicamente ad una ragnatela gigante visibilmente fatta con le corde del bucato. A questo punto quello che sembrava un tranquillo film d’avventura si trasforma in un festival del Weirdo senza limiti dove ragnacci troppo cresciuti con ridicole zampette che sembrano fare il classico gesto all’italiana del “cazzo vuoi?” spuntano sopra gli alberi. Gary viene assalito e morso e, come in un film di licantropi, si sveglia tramutato in un mostruoso uomo ragno, con artiglioni al posto delle mani e una faccia pelosa con la bocca completamente sdentata eccettuate tre oscene protuberanze biancastre. Il mostro comincia quindi a gironzolare tra i boschi con le mani alzate (forse per evitare che i guanti da mostro scivolassero a terra) mentre il regista ci regala ragazze che nuotano nude nel mare e ragazze che litigano tra loro strappandosi le vesti tanto per mostrare invidiabili tettone senza alcun pudore. 

Per fortuna, a consolare le ballerine rimaste sole ci pensano due marinai, assistenti del defunto scienziato (impegnato tra l’altro alla ricerca, nientemeno, che di un giacimento di uranio) che giungono sull’isola e iniziano a bere whisky e a pomiciare con tutte le donnine che, a quanto pare non aspettavano altro. L’ultima mezz’ora è quindi arricchita da balletti a seno nudo, grandi scazzottate e intrecci amorosi mentre il mostro, dimenticato da tutti e soprattutto dal regista, fugge verso il suo destino affondando malamente nelle sabbie mobili. Come si può notare, la pellicola sembra costruita ad hoc per spettatori amanti del sesso e delle sensazioni forti, e per quanto riguarda le tettone e i corpi formosi delle protagoniste. Böttger non ci fa di certo sentire la nostalgia per Russ Meyer, per quanto riguarda invece l’abilità registica siamo dalle parti di Wood o Beaudine con un “buona la prima” costante per tutto il metraggio. L’unica cosa veramente apprezzabile in questa bruttura è la colonna sonora che tra beat anni sessanta e jazz accompagna i generosi corpi delle nostre eroine nelle loro frenetiche danze sessuali. 

mercoledì 2 febbraio 2022

IL SOFFIO DEL DIAVOLO

(Demon Wind, 1990) 

Regia: Charles Philip Moore 

Cast: Eric Larson, Francine Lapensée, Rufus Norris 

Genere: Horror 

Parla di “allegra scampagnata di giovinastri alla scoperta di una fattoria maledetta” 

Sceneggiatore, attore e regista, Charles Philip Moore è stato attivo per tutta la decade dei novanta, salvo poi sparire nel nulla più assoluto. Di lui si ricordano una manciata di titoli di cui tre giunti anche da noi a rimpolpare il circuito dei videonoleggi, uno di questi è sicuramente Demon Wind, horror giunto in ritardo sul treno degli anni ottanta e debitore soprattutto del primo Evil Dead di Sam Raimi ma anche della Notte dei Demoni di Kevin Tenney (Night of the Demons, 1988) e (perché no?) anche del nostro Demoni di Lamberto Bava. Per quanto riguarda il budget, poi, si avvicina pericolosamente all’opera di Raimi ma senza averne le capacità, la creatività e il virtuosismo con cui quest’ultimo compensava la carenza di fondi. Insomma prendete quanto c’è di più povero e imbarazzante del cinema horror anni ottanta, associatelo ad una sceneggiatura priva di qualsiasi logica e ad una regia che sembra in ritardo su tutto ed eccovi qua questo Soffio del diavolo dove un gruppetto di ragazzoni simil-yuppie decide, senza alcuna ragione valida, di seguire l’amico Cory (Eric Larson) in un’allegra scampagnata in mezzo a distese collinari per raggiungere la fattoria dei nonni, misteriosamente scomparsi nel nulla dopo un incendio. 

Nelle prime sequenze vediamo uno scheletro crocifisso immerso nel fuoco, una donna che cerca di fermare il marito mentre si accinge a trasformarsi in un demone ma questa è solo la premessa, per i successivi 40 minuti non succede più nulla e lo spettatore è costretto a sorbirsi le scemenze di questo gruppetto di giovinastri, tre coppiette a cui si aggiungono anche due deficienti vestiti come il mago Silvan che fanno piroette per calciare lattine in faccia alla gente o far apparire le solite colombe e conigli da spettacoli di magia di terz’ordine. Ad un certo punto una delle ragazze del gruppo scompare in un flambè di luci animate in sovraimpressione che manco negli anni cinquanta facevano così schifo. Al suo posto troviamo una bambola, espediente che dovrebbe terrorizzare immagino, ma che, a conti fatti, comincia a innalzare l’asticella del Trash. Asticella che sale quando il gruppo raggiunge la fattoria, o almeno quel che ne resta, dove trova il solito scheletro finto ed un teschio mezzo seppellito nel terreno da cui si sprigionano altri raggi disegnati su pellicola. L’espediente dell’ingresso monodimensionale nella casa potrebbe anche risultare carino se non venisse ripetuto cinque o sei volte senza motivo ma poi tutto degenera quando arrivano i demoni, o gli zombie o quel che volete. Il make up dei mostri, realizzato probabilmente da un cuoco, assomiglia ad una polenta pasticciata con il ragù applicata sulle facce delle comparse il cui bradipismo si esprime al meglio quando, dopo aver ricevuto una fucilata, si prendono quei cinque dieci secondi di tempo, prima di lanciarsi all’indietro e cadere. 


Ma lo zenith del Trash assoluto si profila nel duello finale tra un immenso diavolaccio dai piedi caprini e il corpo ricoperto di polenta pasticciata (o pizza come ho letto da qualche parte) ma senza corna e Cory che, nel frattempo si è trasformato anche lui in qualcosa di indefinibile, praticamente un mascherone montato dietro la nuca a deformargli la testa mentre il volto viene truccato con enormi spatolate di lattice. Quel che non si capisce è il perché e cosa dovrebbe sembrare il protagonista in quel momento (un angelo, un demone, un pirla? Boh!). Fatto sta che questo scontro ad alto tasso Weirdo fa a gara con la morte di uno degli amici, trasformatosi in demone e ucciso a pugnalate dalla fidanzata di Cory (Francine Lapensée) che invece di ripercorre all’indietro il film della vita, lo vediamo regredire alle fasi di adolescente, bambino e neonato per poi scomparire nel solito lampo disegnato ad una qualche maniera sulla pellicola. In tutto questo il doppiaggio italiano non aiuta di certo, infarcito com’è da voci di demone talmente effettate da far risultare alcuni dialoghi incomprensibili.