martedì 31 ottobre 2023

THE HUMAN CENTIPEDE (THE COMPLETE SEQUENCE)

 (2009-2015) 

Regia Tom Six 

Cast Laurence R. Harvey, Dieter Laser, Bree Olson 

Parla di “saga completa del millepiedi umano, dal primo prototipo a tre fino ad un intero carcere, tutto in sequenza per quattro ore e mezza da cui nessuno potrà più riprendersi….dopo!” 

Ci sono due modalità per vedere la saga del millepiedi umano realizzata da quel matto egocentrico di Tom Six, la prima è recuperare ogni singolo film è guardarselo come se fosse un’opera a sé stante, la seconda invece è accaparrarsi lo splendido steel box in vendita sul sito personale del regista, che peraltro contiene la full sequence, ovvero una versione di quattro ore e trenta in cui tutti e tre i film della trilogia sono collegati tra loro come se fosse un unico, lunghissimo centipede cinematografico che tra l’altro si conclude in loop, ovvero con una scena sequenziale che si collega all’inizio del primo capitolo. In questo modo uno potrebbe guardarsi la saga all’infinito andando probabilmente fuori di testa dopo un po' di visioni. 

The Human centipede è puro cinema weirdo all’ennesima potenza, roba come non se ne faceva dai primissimi film di John Waters ma con un budget tutt’altro che disprezzabile e quella voglia di sperimentare divertendosi che ormai il cinema ha perso da molto tempo. Tom Six passa il tempo a autocitarsi costantemente in un delirio metacinematografico dove i protagonisti di ogni titolo (tranne ovviamente il primo) rimangono folgorati dalla geniale intuizione di poter unire più esseri umani insieme collegandoli attraverso il sistema digerente con una procedura 100% medically correct! Ecco dunque che, se nel primo film, il delirante dottor Heiter (interpretato da un ancor più delirante Dieter Laser) rispolverava il prototipo del classico mad doctor con un piglio recitativo decisamente sopra le righe, nel secondo capitolo (unanimamente considerato il più disturbante e quindi anche il migliore della trilogia) l’assurdo parcheggiatore Martin (il bravissimo Laurence R. Harvey…ma dove lo sono andati a pescare?) rimane folgorato dalla visione e inizia a prendere a mazzate gli avventori del parcheggio a colpi di piede di porco, legandoli e imbavagliandoli per trasportarli in un lercissimo magazzino dove, con coltelli e seghe, si divertirà a costruire il suo millepiedi umano. 

Rispetto alla sterile e asettica sala operatoria del dottor Heiter, qui il marcio esplode senza mezzi termini, culminando in scene da cui distogliere lo sguardo appare quasi doveroso se non si vuole rischiare una super gastrite nervosa. La sequenza del lassativo collettivo e lo stupro finale con il filo spinato rappresentano il culmine del cinema estremo come lo concepisce Tom Six, probabilmente aiutato da un’atmosfera silente e malata, quasi da cinema “Warholiano” (si pensi al film Bad di Jed Johnson) fino all’esagerazione splatter in cui una donna incinta partorisce in auto schiacchiando il neonato nel tentativo di premere l’accelleratore per fuggire da questo incubo. Il terzo capitolo, considerato il minore ma solo perché a certi livelli non ci si può mai superare, è invece ambientato in una prigione di massima sicurezza dove troviamo i due protagonisti dei precedenti capitoli, ovvero Dieter Laser nei panni di William Boss, il perverso e psicopatico direttore William Boss e Harvey nei panni del timido contabile che cerca, per tre quarti di film, di convincere Boss che costruire un millepiedi umano con tutti i detenuti è la soluzione definitiva a tutti i problemi dell’Istituto. 

Se il primo titolo aveva dalla sua l’idea innovativa alla base della trilogia e poco altro, se non riprendere in chiave moderna gli stilemi del mad doctor, qui Laser si scatena in una recitazione che considerare fuori dalle righe risulta poco adeguata, il protagonista infatti, nonostante le sue origini germaniche, indossa perennemente un cappello da cowboy, non fuma sigari cubani (troppo comunisti!), mangia clitoridi essiccati provenienti dall’Africa e molesta sessualmente la segretaria. L’apice qui si raggiunge nell’asportazione dei testicoli ad un detenuto per poi farseli cucinare su un piatto d’argento. Alla fine l’idea del millepiedi viene accettata con il beneplacito di Tom Six che qui appare nel ruolo di sé stesso e il governatore stesso (interpretato da un compiaciuto Eric Roberts), dopo le prime reticenze, dovrà giocoforza constatare che l’idea del millepiedi umani rappresenta il vero sogno americano. Ironia dissacratoria e antiamericanismo sono gli elementi principali di questo terzo capitolo, contraddistinto da una fotografia ipersatura e la ricerca spasmodica dell’esagerazione cinematografica, una degna conclusione di un trittico unico nel suo genere e sebbene consigliato a stomaci forti, rappresenta la perfetta metafora della scala sociale umana: il primo della fila è sempre il più fortunato! 

giovedì 26 ottobre 2023

SHE-DEVILS ON WHEELS

(1968) 

Regia Hershell Gordon Lewis 

Cast Betty Connell, Nancy Lee Noble, John Weymer 

Parla di “banda di motocicliste al femminile si sollazza coi maschietti e si scontra con banda rivale” 

Nonostante l’iconica aura da cult movie che pervade ogni singolo fotogramma di uno dei più grossi successi commerciali del regista Hershell Gordon Lewis, non si può fare a meno di notare quanto povera fosse la confezione di She Devils on Wheels. Ovviamente i budget con cui lavorava il “padrino del Gore” erano decisamente risibili (si parla di appena 50.000 dollari per questo film) ma, rispetto ad altre sue opere, qui si presentava anche la pretesa di realizzare un Biker-Movie, prodotto rigorosamente per i Drive-in molto in voga alla fine degli anni sessanta. Diciamo che la confezione casalinga ad un film bikersploitation non giova molto, essendo un genere nato per scorrazzare on the road su chopperoni ribollenti e desiderosi di strade sgombre e assoluta libertà. 

Qui invece la banda di motocicliste soprannominate “The Man-Eaters” si limita a viaggiare su stradine del paesello per pochi metri alla pazzesca velocità di 40 km orari. Tutto scorre lento e si concentra soprattutto negli ambienti scarni e spogli di un appartamento dove le rebel girls entrano direttamente in motocicletta, allo scopo di scegliersi il bel fustone con cui pomiciare per tutta la serata. Lewis lavora con inquadrature traballanti, un montaggio schizoide dove il cambio immagine è talmente repentino da spiazzare lo spettatore fino a fargli nascere il dubbio del “ma cos’ho visto?”. La trama è praticamente ridotta all’osso ed è composta da sfiancanti dialoghi senza senso, lunghe sequenze di festini con balli, palpamenti e piedi che si sdrusciano fra di loro. Tra un avvinghiamento corporeo e l’altro assistiamo agli scontri tra la banda delle bikers capitanate da Queen (Betty Connell), un donnone forzuto che sbraita come un camionista, e quella di Joe Boy (John Weymer) un tanghero allampanato con un paio di baffoni vistosamente finti che comanda un trio di teddy boy sfigati in maglietta nera, manco capaci di andare in moto. 

Il gore, nonostante l’autorevole firma, è scarso limitandosi a tre scene principali, ovvero il trascinamento sul selciato di uno dei membri della banda maschile, la violenta rappresaglia contro una delle ragazze (che viene ritrovata morta in un sacco di tela tutta sporca di sangue) e il finale con decapitazione, unico scampolo della mano sanguinolenta di Lewis. Le Man Eaters appaiono sufficientemente emancipate, mettono sotto i piedi i maschi che fanno a gara per accendergli enormi sigari e sigarette, il tutto alternato da continue apparizioni del poster ufficiale che viene utilizzato come elemento di transizione per i cambi di scena, facendolo ruotare come una trottola sullo schermo. Tra i simpatici aneddoti generati dalla pellicola pare che la banda delle Men Eaters fosse composta, non da attrici professioniste, ma da vere bikers tra cui, si vocifera, vi fosse anche un membro della famiglia Manson. 


mercoledì 11 ottobre 2023

MACUMBA STORY

(Diferente, 1962) 

Regia Luis Maria Delgado 

Cast Alfredo Alaria, Manolo Monroy, Julia G. Caba 

Parla di “giovane ballerino dissoluto imbarazza la famiglia borghese di provenienza ma la pagherà cara” 

Confesso di essere stato molto combattuto nel decidere se scrivere o meno riguardo a questo film, in quanto esula, dal punto di vista tecnico ed estetico, dai canoni del cinema trash propriamente detto. Tuttavia bisogna comunque considerare anche i contenuti, e quelli, in “Diferente” sono decisamente exploitation, costruiti come sono attorno alla figura di Alfredo Alaria, attore e ballerino argentino qui in veste di protagonista assoluto di una storia dai colori reazionari al limite dell’imbarazzo. Va detto che, per quanto riguarda il comparto coreografico il film è uno spettacolo per gli occhi, Alaria danza divinamente, fa tip tap, si veste da Gaucho e rotea la testa in modo vertiginoso nella danza magica finale dove si raggiungono vette di parossismo assolutamente impagabile. 

La trama è incentrata sul personaggio di Alfredo, giovane dissoluto con la passione per i localacci malfamati e i teatri dove passa il tempo a danzare disonorando così la sua famiglia di provenienza, di estrazione borghese. Il fratello gli sta praticamente con il fiato sul collo in continuazione, rompendogli il cazzo con pipponi sul buon nome della famiglia che sono totalmente fuori dalle righe, il padre invece tenta di redarguirlo offrendogli un lavoro nei suoi uffici dove Alfredo riesce a migliorare le performance lavorative delle dattilografe a tempo di jazz. Ma il nostro eroe (dai tratti somatici straordinariamente simili a quelli di Tony Curtis) non riesce ad adeguarsi alla vita borghese dei suoi congiunti e ben presto torna a calcare le scene provocando scandalo e imbarazzo. La follia dissoluta di Alfredo lo porta in un localaccio di quart’ordine, dove, tra fumi di alcool e di tabacco, viene iniziato alla macumba attraverso una danza sfrenata e, come già citato prima, si scatena in un vorticoso head banging. 

Il padre, avvisato che Alfredo stava frequentando una cantina con un gruppo di ubriaconi, si mette in auto per andarlo a recuperare ma muore in un incidente. Il giovane Alfredo, distrutto dal dolore, si reca nella villa paterna dove il fratello lo accusa di tutto l’accusabile e lo getta letteralmente giù dalle scale. L’ultima scena vede il ballerino in lacrime che abbraccia un albero struggendosi dal dolore. Tutto questo in appena un’ora di film dove assistiamo ad una discutibile fiaba moralistica in cui il dissoluto (forse omosessuale) e il diverso vengono condannati senza attenuanti ad una vita di solitudine e dolore dopo aver indiscriminatamente fatto del male a chi gli ha voluto bene. Il tutto in maniera così evidente ed ingenua che non da luogo a fraintendimento riguardo al contenuto exploitation del film, dove il moralismo d’accatto così evidenziato è pari ad altre opere del genere come Reefer Madness (Droga) o Chained Girls (Lesbismo) ma filtrato da un’estetica accattivante e coreografie comunque eccellenti. 

giovedì 5 ottobre 2023

SCANNATI VIVI

(Skinned deep, 2003) 

Regia Gabriel Bartalos 

Cast Jason Dugre, Warwick Davis, Karoline Brandt 

Parla di “allegra famigliola di mostri tiene segregata giovinetta e deve affrontare sarabanda di anziani in motocicletta” 

L’unico grande sbaglio di questo film è quello di essere stato realizzato fuori tempo massimo, perché a tutti gli effetti quest’esordio alla regia del grande effettista Gabriel Bartalos ha il sapore delle produzioni low budget degli anni ottanta con richiami nostalgici a Bad Taste, Basket Case e Non aprite quella porta 2 (del quale cita apertamente la bellissima sequenza tra i due pick up). Bartalos del resto è stato, negli anni ottanta e novanta, un nome di punta di un certo cinema underground, collaborando non solo con Henenlotter in “Brain Damage, la maledizione di Elmer”, ma anche in opere come Spookies, Leprechaun, From Beyond, Dolls e Ammazzavampiri 2. Un background professionale così marcato nell’età d’oro del cinema horror a basso costo, non poteva quindi che riflettersi nel suo primo film che mescola insieme demenzialità splatter, assurdi mostri gommosi e un pizzico di sana cattiveria tipica del cinema underground dove non ci si pone nessun problema a mostrare un bambino tagliato a metà. 

La trama omaggia apertamente il famoso ciclo della famiglia cannibale di Tobe Hooper aggiungendo però personaggi marcatamente freak come l’assurdo Brain con il cervellone che sporge oscenamente rendendo peraltro difficile e visibilmente goffo il movimento dell’attore Jason Dugre. Non manca il buon Warwick Davis, divenuto famoso grazie a Willow e la serie di Leprechaun nella quale ha conosciuto Bartalos, qui nella veste di Plates che, per l’appunto, non fa che lanciare piatti in faccia alla gente. Ma Il villain è il Generale Surgeon, un mostro che sembra uscito da Star Wars passando per Hardware e Hellraiser con catene a uncino, asce da passeggio e una mandibola d’acciaio. Coadiuvata da una vecchia che gestisce una tavola calda nel deserto ed ha una specie di orifizio sul collo da cui si nutre di sangue, quest’allegra famigliola tiene segregata l’adolescente Tina (Karoline Brandt) dopo averne sterminato i genitori e il fratellino, con lo scopo di farla sposare a Brain. La ragazza però non ci sta e fugge dalla stanza tappezzata di giornali in cui era stata rinchiusa e inizia ad arrampicarsi per assurdi cunicuoli tappezzati di catene, televisori, teschi e altre amenità del genere. 

Qui Bartalos mette a frutto la sua esperienza maturata in Texas Chainsaw Massacre part 2, divertendosi un mondo ad arredare in maniera estrema le location, arrivando a far vomitare la ragazza direttamente sulla macchina da presa. C’è anche spazio per il surrealismo bunuelliano quando Tina scarnifica il cervello di Brain da cui fuoriescono dei cubotti con la parola Love che la ragazza trasforma schiacciandoli nella parola Hate (citando probabilmente Night of the Hunter di Charles Laughton). Arrivato allo zenith della demenzialità, il film si scatena nel finale con l’apparizione del Creatore, un assurdo body builder senza testa da qui fuoriesce un viscido mostriciattolo stile Gremlins. Siccome poi al peggio non c’è limite, il film si chiude con l’arrivo di una serie di bikers anziani che vogliono vendicare un loro amico ucciso, la vecchia della tavola calda appiccica sulle loro fronti il simbolo della pace mentre Surgeon li fa esplodere in un tripudio di effetti digitali (l’unico momento in cui siamo consapevoli che il film è girato nel nuovo millennio) e di teste esplose. Superati gli evidenti limiti imposti dall’estrema povertà nella realizzazione (le scene d’azione sono veramente ridicole) il film risulta piuttosto divertente e ricco di idee malsane, ideale ricostituente per cinefili nostalgici del glorioso horror in vhs degli anni ottanta.