mercoledì 20 aprile 2022

DEADBEAT AT DAWN

(1988) 

Regia Jim Van Bebber 

Cast: Jim Van Bebber, Megan Murphy, Marc Pitman 

Genere: Azione, Thriller, Gore 

Parla di “capo di banda teppisti decide di cambiare vita ma gli ammazzano la fidanzata e quindi poi, non cambia un cazzo…” 

Violento, malsano e deliziosamente gore, l’esordio al lungometraggio di Jim Van Bebber è il gang-movie che la Troma avrebbe voluto realizzare ma non lo ha mai fatto. Ambientato in una cornice degradata e perfettamente reale, tra appartamenti senza finestre che si chiudono con il lucchetto all’esterno, palazzi diroccati e cimiteri come teatro di scontro fra bande, questo film si fa vanto dell’inesistenza di un budget e lo sfrutta a suo vantaggio, garantendo però un’invidiabile perizia tecnica sia nel montaggio che nelle scene d’azione, straordinarie e dinamiche al punto che lo spettatore non riuscirà a staccare gli occhi dallo schermo per tutti gli ottanta minuti. Ma oltre all’elemento degrado, la confezione grezza, quasi amatoriale, il film vanta una ferocia sanguinolenta fuori dall’ordinario che trova la sua massima espressione nell’adrenalinico e brutale scontro finale. Il protagonista è un marcantonio capellone esperto di arti marziali che si fa chiamare ironicamente Goose, (interpretato dallo stesso regista) capo della banda dei Ravens con cui le suona di santa ragione alla banda rivale degli Spiders. 

Ma la fidanzata Christie (Megan Murphy), appassionata di esoterismo, tenta di far cambiare vita a Goose e quando vi riesce ecco che due ceffi della band rivale la uccidono a colpi di mazza da golf (del resto Christie aveva consultato una tavoletta Ouja che gli aveva predetto la morte pochi minuti prima). Tornato a casa dopo aver venduto una partita di droga, Goose scopre il cadavere della fidanzata e disperato, non trova nulla di meglio che seppellirne i resti in un tritarifiuti. Solo a raccontare questa prima parte si capisce che Van Bebber alza l’asticella del weirdo ai massimi livelli, puntando su una cattiveria gratuita quasi parodistica. Il proseguo del film vede il giovane finire in casa del padre, uno schizzatissimo veterano del Viet-nam tossicodipendente che cerca di prenderlo a mannaiate per rubargli i soldi. Dopo essersi ubriacato e aver sfasciato mezzo Pub, Goose torna nella sua banda primordiale e partecipa ad una rapina ai danni di un furgone portavalori organizzata insieme con la banda antagonista degli Spiders ma al momento della spartizione del bottino le cose degenerano. 

Duelli a coltellate, combattimenti con nunchaku e shuriken nella miglior tradizione orientale, sangue e ferite aperte, corse e sparatorie, non manca proprio nulla nell’immaginario suburbano del film di Van Bebber, per certi versi affine al celebre Combat Shock di Buddy Giovinazzo, almeno per quanto riguarda le ambientazioni disastrate. Stupisce inoltre la recitazione, spesso sopra le righe, ma efficace, in particolare per il folle padre di Goose ma soprattutto per Bonecrusher (Marc Pitman) lo psicopatico teppista degli Spiders che uccide a colpi di mazza la fidanzata del protagonista. Sfortunato a livello distributivo, Deadbeat at dawn è “I guerrieri della notte” mescolato a “Bad Taste”, un film estremo e sporco, imperfetto e squisitamente trash a cui non si può non voler bene.  


giovedì 14 aprile 2022

BLACKENSTEIN

 (1972) 

Regia William A. Lewey 

Cast Ivory Stone, John Hart, Joe De Sue 

Genere: Blacksploitation, Horror 

Parla di “Veterano del Vietnam si fa riattaccare braccia e gambe da celebre chirurgo ma l’operazione lo trasforma in mostro” 

Il successo di Blacula (1972) ebbe come naturale conseguenza, in ambito blacksploitation, quello di andare a recuperare il celebre personaggio del romanzo di Mary Shelley per realizzarne una versione all black. L’idea venne al produttore/sceneggiatore Frank R. Saletri, il quale disgraziatamente, non aveva mai avuto prima di allora, alcun contatto con la settima arte. Saletri era infatti un avvocato penalista che nel 1982 fu ucciso con un colpo di pistola, l’autore del delitto non fu mai scoperto. Alla regia fu messo l’esordiente William A. Lewey che, anche in seguito, non brillò mai per la qualità del suo lavoro, al punto che viene ricordato soprattutto per un fantaporno intitolato Wham Bam Thank you! Spaceman (che in Italia giunse con il titolo “Incontri Erotici del quarto tipo”). Protagonista nella parte della creatura è invece il gigantesco Joe De Sue che leggenda vuole fosse un cliente di Saletri il quale lo scelse espressamente per la parte. 

Che De Sue non fosse un attore lo si capisce subito guardandone l’interpretazione di Eddie, sfortunato veterano del Viet-nam al quale la sporca guerra ha privato di tutti e quattro gli arti. Per rimediare al danno subito, la sua fidanzata, la dottoressa Winifred Walker (Ivory Stone) si rivolge al celebre chirurgo Dott. Stein (John Hart), nella sala d’aspetto ci scontriamo subito con un’inquietante statua della Madonna ad altezza d’uomo che rende oltremodo straniante l’incipit del film. Tutto si svolge all’interno della villa castello del chirurgo, dove sono ricoverati anche due strani pazienti, un vecchio al quale il medico aveva riattaccato le gambe ed una novantenne ringiovanita di almeno quarant’anni. La tecnica del dottor Stein applica infatti, alla chirurgia tradizionale, anche l’uso di pozioni a base di DNA per rigenerare i tessuti. Ed infatti, in prima istanza, l’operazione a Eddie è un completo successo, se nonchè l’assistente Malcomb (Roosevelt Jackson), invaghito di Winifred, pasticcia con le pozioni generando nel gigantesco nero una mutazione che lo porterà a trasformarsi in un gigantesco mostro assassino. Le apparizioni del Frankenstein nero sono immerse in una fotografia confusa e oscura, che tenta di giocare con le ombre e si dimentica del ritmo trasformando le passeggiate della creatura in un incubo di noia per lo spettatore. Le aggressioni del mostro sono ridicole, le vittime infatti, invece di scappare, cercano tutte di assalirlo con conseguenze mortali. 

Immancabile poi la presenza di due detective (uno bianco anziano, uno giovane, nero e aitante) che seguono la vicenda in coda garantendo l’inutilità delle forze dell’ordine. Il mostro passa il tempo a camminare in puro zombie style, truccato con un ridicolo mascherone facciale che, almeno, nasconde l’incapacità recitativa di De Sue, mentre l’audio ci propina il suo ringhio ossessivo e un battito cardiaco incessante al posto della colonna sonora. Non è ben chiaro come la creatura riesca a sbudellare le sue vittime e soprattutto perché, successivamente, si metta a giocare con gli intestini (forse un rimando alla propria infanzia?), fatto sta che gli attori corrono da una parte e si ritrovano, nella scena dopo, sempre allo stesso punto di fronte al mostro, lo attaccano e si ritrovano morti nella sequenza dopo. Misteri del montaggio? In Blackenstein manca poi la variante comica che permeava invece “Blacula”. Qui tutto si prende troppo sul serio anche se poi lo spettatore troverà comunque elementi per farsi una risata, pur involontaria. Nel cast anche il caratterista John Dennis (Frankenstein Junior, Soylent Green) nella parte di un odioso infermiere. 

giovedì 7 aprile 2022

HELLGATE

 (1989) 

Regia William A. Levey 

Cast Abigail Wolcott, Ron Palillo, Carel Trichardt 

Genere: Horror 

Parla di “giovanotto investe una ragazza che si scopre essere il fantasma di una finta teen ager uccisa anni prima” 

William A. Levey non è nuovo alle nostre pagine, non tanto per la disgressione blacksploitation horror di Blackenstein (1973) quanto per l’assurdo porno sci-fi Wham Bham Thank you! Spaceman (1975) che nei nostri cinemini a luci rosse esordì con il titolo “Incontri erotici del quarto tipo”. Spostatosi a girare in Sudafrica nel 1989 con un budget decisamente più sapido, il nostro ci estrae dal cilindro questo ancor più allucinato horror che sarà anche il penultimo lavoro della sua carriera registica. Un trio di amici davanti al focherello di una casetta isolata attende l’arrivo di Matt (interpretato da Ron Palillo conosciuto per la sua partecipazione nel telefilm I ragazzi del Sabato Sera in cui bazzicava anche John Travolta) e per passare il tempo si raccontano la storia della cittadina di Hellgate dove la giovane e avvenente Josie (Abigail Wolcott) viene rapita e uccisa da una gang di motociclisti. 

In questa specie di flashback si intravede tutta l’essenza Camp dell’opera con un’ambientazione finto anni cinquanta talmente spoglia e disadorna da essere adorabile. La ragazza è vestita da studentessa ma con gli anni di Noè, anche se l’unica cosa che si nota di lei per tutto il film sono le lunghissime gambe. Il padre di Lei, nel tentativo di salvarla, perde una mano e quindi lo vediamo con una sorta di moncherino rinforzato che lo fa assomigliare ad un guantone da box. Non contento di questa carnevalata, l’autore del film ci regala il ritrovamento di una specie di cristallo che emette raggi laser dipinti su pellicola nella miglior tradizione del fanta trash anni ottanta, ma lo zenith si raggiunge quando uno dei raggi colpisce la vasca di un pesce rosso ingigantendolo fino a diventare una specie di mostruoso piranha dalla vita brevissima, visto che poi esplode in mille pezzi. La produzione, qui, realizza veri e propri animatroni che agitano coda e bocca ma sono talmente fatti male che nello spettatore non può che salire un moto di tenerezza. Finisce il racconto e arriva Matt che incontra, ad un distributore, un assurdo colosso biondo e sbrindellato e una cameriera truccata da Cindy Lauper che ci prova con un savoir faire a dir poco imbarazzante, salvo poi quasi investire il fantasma di Josie che se lo porta in casa per sedurlo. Ma la pomiciata si complica con l’arrivo di Lucas, il padre di Josie (Carel Trichardt che sembra un sosia di John Astin), a cui l’uso incontrollato del cristallo ha sfregiato il viso obbligandolo a piazzare sulle ferite delle lastre di metallo (Mah!). 

Da qui in poi Hellgate si trasforma in un casino incredibile, pieno di mostri, ballerine di can can fantasma, zombie assurdi, donne con occhi blu elettrico e finte case scenografiche che esplodono. Gli attori recitano tra il serio e il faceto, rendendo impossibile capire se stiamo guardando un horror o una commedia stupidotta (verosimilmente stiamo assistendo ad un film stupidotto punto e basta). Il direttore della fotografia non lesina sulla saturazione dei colori di scena e l’uso dei ralenty raggiunge l’apoteosi della lentezza narrativa a cui l’imperizia del montatore da il colpo di grazia definitivo. Alla fine tutto si risolve per il meglio anche se il dubbio circa l’autenticità delle tette della Wolcott rimarrà comunque uno dei misteri insondati di questo aberrante filmaccio.