lunedì 25 novembre 2019

THE ROOM

(2003) 

Regia Tommy Wiseau 

Cast Tommy Wiseau, Greg Sestero, Juliette Danielle 

Genere: Drammatico, Romantico, Commedia 

Parla di “Giovane romantico e benefattore tradito dalla fidanzata con il suo miglior amico” 

Prima di approcciarsi a questo capolavoro assoluto del brutto, consiglio di dare un’occhiata al bellissimo The Disaster Artist, puro atto d’amore realizzato da James Franco nei confronti di Tommy Wiseau, personaggio enigmatico ed allo stesso tempo carismatico, sempre in bilico tra l’egocentrismo puro e il sospetto farlocchismo di un personaggio che, in quanto ad amore per il cinema ed incapacità di farne, riesce ad eguagliare il compianto Ed Wood, con la sola differenza che al primo è bastato un solo film per entrare nell’olimpo dei peggiori registi del mondo: il tanto vituperato ma altrettanto adorato The Room. La pellicola nasce da un progetto realizzato assieme all’attore Greg Sestero, coprotagonista del film e complice di Wiseau di quel tipo d’amicizia nata per un incontro fortuito e destinata a finire male proprio per la sua natura travagliata ed estemporanea, un progetto che già sulla carta non trova grandi motivi di interesse se non quello di narrare una storia d’amore banale con un finale telefonato, ma che proprio nella sua realizzazione raggiunge il nirvana del brutto inossidabile e dell’imbarazzo assoluto. 

Talmente estremi sono i concetti rappresentati (amore, tradimento, amicizia), talmente cagnesca la recitazione generale (Wiseau in questo è una spanna sopra gli altri) e talmente scritta male da rasentare il sublime. Wiseau gira in due ambienti principali, un terrazzo e un paio di stanze dai riflessi rossastri, con tendine di seta bianca sul letto e valanghe di petali di rosa che manco in un film bollywoodiano. Ogni tanto riprende qualche esterno con strade semideserte (il film è stato girato in estate sotto un caldo terrificante) percorse pigramente da caratteristici tram, giusto per far capire che siamo a Los Angeles. In questo bell’ambientino borghese entrano ed escono tutta una serie di personaggi più o meno credibili, c’è il giovane Danny, un orfano adolescente che il protagonista Johnny ha “adottato” pagandogli casa e studi, Lisa (Juliette Danielle) la fidanzata viziata e volubile e ovviamente Mark, l’amico del cuore di Johnny di cui Lisa è segretamente innamorata, interpretato da Greg Sestero. Le prime scene rasentano la telenovela più zuccherosa e vomitevole che esista, il buon Johnny torna a casa con un vestito rosso e tante rose per Lisa, i due vanno in camera e, con sottofondo un rock romantico da far sciogliere un vinile al polo nord, scatta l’amplesso in un vortice di sentimentalismo degno di Uccelli di Rovo. Peccato che nella scena successiva, senza alcun nesso temporale, cambi tutto. Lisa rivela a sua madre che non vuole più sposare Johnny perché lo trova noioso e successivamente avvia una tresca con Mark, irretendolo a colpi di tetta. Lo stucchevole menage si protrae stancamente per un’ora e mezza fino al prevedibile quanto goffo finale tragicomico. Wiseau cerca di buttarci dentro qualche sotto trama, Denny inguaiato con uno spacciatore, la madre di Lisa con un cancro al seno che sembra debba morire di lì a poco ma ogni volta che la vediamo sta sempre meglio, il tutto senza alcuna continuità nella storia, così come le ridicole effusioni amichevoli a colpi di football nel cortile in cui gli stessi attori sembrano non aver alcuna voglia di giocare. 

Ma il grande anfitrione Tommy Wiseau, con uno script realizzato appositamente per renderlo una specie di super Sex Symbol (ricco e virtuoso benefattore, vittima fragile degli eventi, grande amicone di tutti, ipermuscoloso e capellone come Jim Morrison), ci regala perle su perle di non recitazione, con espressioni che passano dalla statua di sale alla statua di cera fino alla statua di marmo (passando ogni tanto nel settore “statue di m….”) il cui zenith assoluto è la sua pacatissma reazione quando scopre il tremendo adulterio dei suoi due migliori amici. Eppure, a giudicare semplicemente dall’intensissima colonna sonora di Mladen Milicevic, qualche soldino Tommy Wiseau ce lo deve aver messo, peccato che a combattere la possibilità di realizzare, non dico un buon film, ma almeno un prodotto accettabile, si sia intromesso l’abnorme ego del regista stesso che ha curato, oltre alla produzione, anche la scrittura e la regia. Comunque The Room è il classico esempio di quanto sia strano il destino di certe opere, se fosse diventato, in mano a veri professionisti, un film decente, oggi non se lo cagherebbe nessuno, e invece come “Worst Movie” si è ritagliato un posto d’onore nell’olimpo delle chiaviche in pellicola, con stuoli di fan (gentaglia tipo James Franco, eh!) adoranti che lo venerano come una preziosa reliquia di inizio millennio, un’onore che pochi altri film (tra cui il “nostro” Troll 2 di Claudio Fragasso) possono vantare.

lunedì 18 novembre 2019

LA NOTTE DELLA COMETA

(Night of the Comet, 1984)

Regia Thom Eberhardt

Cast Catherine Mary Stewart, Kelli Maroney, Robert Beltran

Genere: Fantascienza, Post Apocalittico, Horror, Commedia

Parla di “Cometa passa sulla Terra, incenerisce tutti e trasforma in zombie i superstiti

Come girare un post apocalittico senza soldi dove ci sono zombi antropofagi dappertutto ma nel film se ne vedono solo due o tre? Cari filmmakers da quattro soldi, prendete esempio dagli anni ottanta e in particolare da questo cult datato 1984 scritto e diretto da Thom Eberhart, regista non particolarmente brillante e poco attivo nel corso della sua carriera (probabilmente questo è l'unico film degno di nota, il che la dice lunga!). Il film ci introduce al passaggio della cometa di Halley sulla Terra, attesa come un vero e proprio evento da una comunità cittadina (il commesso del cinema che vende cerchietti per capelli con palline filanti che riproducono la cometa), solo la giovane Regina (una splendida Catherine Mary Stewart poco sfruttata nel mondo del cinema, la ritroveremo infatti solo in Weekend con il morto nel 1989) sembra più interessata a fare punti in un arcaico videogame da sala che all'evento, tant'è che preferisce passare la notte in una sala proiezione con un avvenente giovanotto. Meglio per lei, dal momento che al mattino dopo, l'intera città sembra deserta, disseminata di abiti usati pieni di polvere rossa. 

Dall'incontro con un clochard zombie la nostra protagonista scopre che il mondo è un pò cambiato dalla notte precedente. Regina raggiunge la sorella Samantha, unica sopravvissuta in casa e insieme si rifugiano in una stazione radio dove incontrano un altro sopravvissuto di nome Hector. Il giovane passa la notte con loro ma poi decide di andare a casa a vedere come stanno i familiari, nell'attesa che ritorni, le due sorelle si gettano a fare shopping selvaggio in un centro commerciale accompagnati da una brutta cover di Girls just wanna have fun di Cindy Lauper (evidentemente non c'erano i soldi per la canzone originale) e si scontreranno con un gruppo di commessi zombie prima e un gruppo di scienziati, dopo, alla ricerca del sangue di sopravvissuti per trovare un siero in grado di contrastare il processo di trasformazione in mostri che li sta divorando. 

Filtrato da colori rossi ipersaturi il mondo post-apocalittico di Eberhart inquadra due o tre vie giusto per dare il senso (risicato) della desertificazione metropolitana, mette in piedi un make-up piuttosto dozzinale dei mostri (in pratica allarga le orbite degli occhi per deformarne i lineamenti) e punta la cinepresa sulle due sorelle, inaspettatamente toste e combattive alla faccia di chi vedeva, in quegli anni, il sesso debole accaparrarsi solo ruoli da vittima. Regina tira calci e pugni, si tromba chi vuole, smitraglia a destra e a manca e indossa all'inizio dei calzini sotto i tacchi da vomito. Il film butta praticamente in caciara la fine del mondo rendendola improbabile e ridicola come le scene del bambino zombie che insegue Hector ("Sei fortunato che mi piacciono i ragazzini!") o il doppio sogno di Samantha e lo zombie poliziotto, il tutto  arricchito con humor di grana grossa tipico degli eighties pregno di battute di dubbio gusto e situazioni sull'orlo del ridicolo.  

lunedì 11 novembre 2019

SEXANDROIDE

(Les SexAndroides, 1987)

Regia Michel Ricaud

Cast Denis Dubois, Compagnia del piccolo Mescal

Genere: Estremo, Splatter, Horror, Commedia

Parla di “Tre episodi pretestuosi per mostrare un po' di carnazza e qualche budella

Una cosa è certa! Qualora mi trovassi a corto di spazio nello scrivere questa recensione, saprei cosa omettere: il nome del regista! Grande assente di questa ridicola pagliacciata semiamatoriale girata in 8 mm ai bei tempi della VHS Generation. Per girare come il francese Michel Ricaud è sufficiente piazzare una cinepresa in mezzo alla stanza, mettere due faretti, qualche tendina come scenografia e lasciare che gli attori (a questo punto però meglio lo stesso attore a interpretare più ruoli così si risparmia) facciano un po come cazzo gli pare! Il risultato? Un goffo tentativo di riesumare il Grand Guignol con tre mini episodi assolutamente privi di trama e di sceneggiatura dove l’attore Denis Dubois interpreta di volta in volta il ruolo da protagonista. Nel primo episodio c’è un mago voodoo che si diletta a strappare i vestiti ad una bambolina e farne cose indicibili, il tutto ai danni di una avventrice di un locale impegnata a rifarsi il trucco nella toilette. In un tripudio di vomito e sangue si compirà l’insano destino della poveretta, il tutto senza alcun dialogo ma la scenetta in cui gli si strappano i vestiti da sola (in realtà si vede che c’è qualcuno dietro ad un angolo che gli tira i lembi) è la cosa più divertente del film.


Il secondo episodio è decisamente il più malato con una specie di orco con una ridicola maschera da Fantasma dell’opera con la mascella a becco d’aquila che si diverte a infilzare con lunghissimi aghi i seni di una poveretta legata alla sedia all’interno di una cantina talmente squallida da mettere realmente angoscia. Ma non solo, gli mette in bocca un ragno schifoso (di plasticaccia malfatta peraltro) e alla fine gli strappa un occhio con due mani in un tripudio di sangue e una dovizia di particolari da far invidia al miglior Lucio Fulci. La lentezza dei movimenti, l’assenza, anche qui, di dialoghi (se si esclude un’inutile voce fuori campo a inizio scena) e l’efferatezza delle torture rendono la visione decisamente estrema e disturbante. Di tutt’altro respiro il terzo episodio dove il ridicolo ammanta completamente l’atmosfera. Siamo anche qui in una specie di cantina dove una tizia vestita a lutto prega davanti ad una bara di cartone. Ad un certo punto si avvicina troppo e il cadavere risorge mordendola sul collo con zanne oscenamente ricoperte di bava biancastra.

Da qui in poi, la donna, seminuda, in un completo da sexy Morticia Addams, inizia a ballare in maniera assolutamente ridicola e scoordinata al suono di What’s love (got to do it) e I might have been queen di Tina Turner, alla quale dubito fortemente sia pervenuto un centesimo di diritti d’autore da questa assurda pantomima danzereccia. Oltre a Dubois, il regista mette in mostra una serie di donzelle quasi tutte seminude con un intento più teatrale che cinematografico con una spiccata predilezione per il macabro e l’orrido che si mescolano alla comicità involontaria (o volontaria?) e al cattivo gusto. Cult assoluto per gli amanti del cinema estremo, la cui visione viene decisamente alleggerita dalla sua brevissima durata e dal continuo impatto shock con il gore che rende quantomeno divertente e doveroso dargli un’occhiata.

lunedì 4 novembre 2019

GRIDA DI ESTASI

(Cries of Ecstasy, Blows of Death, 1978)

Regia Antony Weber

Cast Sandy Carey, Michael Abbott, Uschi Digard

Genere: PostAtomico, Fantascienza, Erotico

Parla di “Sopravvissuti catastrofe nucleare in bolle di ossigeno, danno sfogo a turpetudini varie in vista dell’apocalisse

Alla prima visione di questo soft-core fantascientifico di Antony Weber pensavo ad un difetto della videocassetta, tutto questo per il viziaccio brutto che ho di non leggere mai di un film per il quale mi accingo alla visione, onde evitare spoiler e manomissioni del mio libero arbitrio nel giudicare. Solo dopo aver attinto le dovute informazioni ho compreso di avere tra le mani l’edizione italiana, dove, per qualche misterioso fine a noi sconosciuto, è stato aggiunto un prologo di 10 minuti rubato senza alcuna vergogna da La Città verrà distrutta all’alba di George A. Romero, oltretutto montato alla cazzo. Il tutto per giustificare le esplosioni atomiche che susseguono prima dei secondi titoli di testa (quelli veri) e che danno l’avvio al film effettivo. A parte il fatto che sulle prime sequenze del capolavoro romeriano viene appiccicato il titolo originale (Cries of Ecstasy, Blows of Death) con la peggior grafica di video della prima comunione all’epoca del VHS-C, nei frame successivi spunta anche un primo allucinante titolo italiano (Sesso Delirio) e quello seguente che traduce pedissequamente la prima parte di quello originale (Grida di estasi).  

Insomma se le premesse sono queste c’è poco da stare allegri, per fortuna c’è una tranquillizzante voce fuori campo che ci spiega quello che è successo dopo. Praticamente la terra è diventata un deserto sterile dove l’aria è completamente avvelenata, al punto che i superstiti devono andare in giro con le maschere antigas. Ma c’è poco da gironzolare, vista anche la presenza di bande di motociclisti assassini e stupratori. I sopravvissuti sono confinati in bolle di plastica trasparente almeno fino a quando anche quest’ultimo scampolo di ossigeno presente nelle tende non si esaurirà e con esso la completa estinzione del genere umano. Una situazione pessimistica che però dà modo ai pochi rimasti di sfogare le proprie perversità sessuali, in vista dell’olocausto finale. Ma soprattutto da modo al regista di puntare l’obiettivo su un tripudio di corpi nudi che si agitano, fremono e copulano in queste bolle ad ossigeno arredate con design tipicamente anni settanta. 

Protagonista (per quanto non sia proprio necessario un protagonista in questa vicenda) è un militare vestito come un capo villaggio africano, armato di arco che gironzola con una tizia incontrata fuori dalla tenda, mentre la sua convivente, una Milf bionda e isterica che si strugge nel terrore di una morte imminente e chiede insistentemente al militare di ucciderla. Poi c’è un maniaco sessuale che continua a sollevare in alto una sgarzellina nuda che si agita e squittisce come una lontra arrapata e, dulcis in fundo, una coppietta giovane che affronterà i teppisti in motocicletta a colpi di Kung Fu imparato per corrispondenza. Alla fine, com’era prevedibile, l’apocalisse avrà la meglio, si salverà solo la voce narrante, giusto per dare una degna conclusione a questo pastrocchio post-atomico. Nel cast una breve parte per Uschi Digard, nordica popputa aficionadas del cinema di Russ Meyer.