martedì 29 luglio 2014

GODZILLA VS. MEGALON (Ai Confini della Realtà)

(Gojira tai Megaro, 1973)
Regia
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Considerato a torto (ce ne sono ben di peggio, fidatevi!) uno dei più brutti episodi della serie Kaiju Eiga, il film di Jun Fukuda è in realtà un minestrone kitsch di puro delirio anni '70 a cui non si può negare, nonostante le ingenuità tipiche del genere, una buona resa spettacolare dell'insieme. Certo, in alcuni momenti rasenta il delirio più assoluto ma è un film di continua azione tra inseguimenti, botte da orbi tra mostri e uomini, esplosioni, raggi laser e un tripudio di mostri giganti che se le danno di santa ragione. Le prime immagini vedono un bambino nippo che naviga su un lago a bordo di un pedalò a forma di clown, sulla riva il padre, il professor Goro (Katsuhiko Sasaki) ed il fratello assistono a un terremoto ed al ribollire delle acque. Nota ironica, in questo film i tre protagonisti sono tutti maschili (e in effetti non c'è una donna in tutta la pellicola) quasi a voler individuare una sorta di famiglia omosessuale di cui tanto si discute al giorno d'oggi.


  Disquisizioni sociologiche a parte, in Godzilla vs. Megalon si respira un'aria di misoginia preponderante che in un film per bambini assume connotazioni quasi allarmanti. In ogni caso si prosegue in forma di spy story, al professor Goro cercano di fregare l'arma segreta, un robottone colorato dal ghigno stampato sulla maschera d'argento che si chiama Jet Jaguar, i cattivi in questione sono i setoniani, il cui capo veste con la toga e l'aureola romana ed ha un vice vestito come il cameriere di un albergo di lusso.


Gli alieni, incazzati per gli esperimenti atomici terrestri inviano il loro scarafaggione gigante Megalon (un bellissimo costume in verità) a distruggere il pianeta. I tre protagonisti, dopo varie peripezie, riescono a riprendere il controllo di Jet Jaguar e lo mandano a chiamare Godzillla sull'isola dei mostri. Come in ogni sano scontro che si rispetti, gli avversari devono essere equiparati e quindi i setoniani si fanno spedire da Venere Gaigan, una specie di pollo con le braccia ad uncino. L'ultima mezz'ora vede il combattimento a quattro, fra balzi, cazzotti, voli pindarici, fiamme, bombe e sfracazzamenti, i buoni trionferanno, Godzilla saluterà tutti  e buona notte al secchio. Certo, non ci si può aspettare da un kaiju eiga, profonde riflessioni metacinematografiche e del resto è bello così. Il fascino dei modellini di cartapesta che esplodono è sempre magnetico, vedere poi Megalon preso per la coda e sbattuto al suolo dal nostro amato lucertolone rasenta il sublime del nulla in celluloide, rimangono i quadranti coi led, i raggi laser disegnati su pellicola e i carrarmatini dell'esercito che prendono fuoco. Ma che vogliamo di più?


giovedì 24 luglio 2014

THE WEREWOLF OF WOODSTOCK

(Id. 1975)
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Tutti siamo più o meno consapevoli del valore storico e artistico rappresentato da quel mitico happening di tre giorni che si svolse a Woodstock nel lontano 1969, pochi invece sono consapevoli dell'esistenza di questo assurdo Tv movie prodotto da Dick Clark, storico personaggio radiotelevisivo americano. Eppure esiste ed ha una trama che supera di poco la sua realizzazione, in quanto a livelli estremi di weirdo. Pochi fotogrammi della 3 days of love and peace (si sentono giusto un paio di note della chitarra di Santana) introducono il film che è ambientato subito dopo il festival, quando i terreni sono pieni di cartacce e altra immondizia ma, sopratutto, c'è un palco da smontare. Ovviamente i contadini di zona non hanno gradito la manifestazione e in particolare uno, che nottetempo sale sul palco e comincia a sfasciarlo urlando in continuazione "Freaks!!". Il poveretto viene letteralmente fulminato dalla corrente elettrica del palco e si ritrova nel suo letto completamente bendato. 

A questo punto interviene l'assurdo, l'enorme accumulo di elettricità lo trasforma in un lupo mannaro con tanto di cresta leonina e pelazzi che fuoriescono da braccia e gambe. Però attenzione! Attenzione! Non è tutto così assurdo come sembra, anzi nella pellicola ci provano pure a dare una spiegazione all'inspiegabile trasformazione (Si, vabbè, una maschera di gomma, peraltro bruttarella, e via!): in pratica l'accumulo di ioni elettrici mescolato con l'energia negativa sprigionata dal contadino mentre sfasciava tutto, hanno generato la mutazione. Proseguendo nella visione, osserviamo la bestia mentre accoppa il cagnolino di una ragazza hippie che girovaga in zona con una band probabilmente in ritardo sulla tabella di marcia del festival, e dopo aver aggredito alcuni poliziotti, se ne torna a letto bendato come prima. 
  
Così anche per le notti successive il licantropo esce dalla stanza e rapisce la ragazza, la quale, dopo i primi momenti di terrore si intenerisce e arriva a medicare le ferite del lupo. Alla fine vedremo il licantropo  che viene attirato in trappola facendo suonare la Band sul palco (a quanto pare i lupi mannari odiano il rock), accortosi del tranello il lupo non trova nulla di meglio che saltare su una dune buggy e guidarla fino raggiungere una centrale elettrica dove verrà accoppato da un cacciatore. In cotanta fregnaccia, troviamo uno degli attori più amati da Quentin Tarantino, ovvero Michael Parks ma per il resto c'è da ringraziare il prolifico regista televisivo John Moffitt di non averla tirata tanto alla lunga ed averci dato un taglio a questa imbarazzante commedia degli orrori dopo poco più di un'oretta d'agonia.

giovedì 17 luglio 2014

L'ABBRACCIO MORTALE DI LORELEI

(Las Garras de Lorelei, 1974)
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Dopo aver girato La Noche del Terror Ciego e il successivo sequel El Ataque de los Muertos sin Ojos, entrambi dedicato alla saga dei templari zombi che contrassegneranno la carriera di  Armando De Ossorio, nel 1974 il regista spagnolo tenta di cambiare genere e si butta in una specie di miscuglio tra horror e fantasy in cui le tematiche narrative si ispirano alle leggende nordiche di Lorelei, sorta di sirena del Reno che incantava i naviganti per poi affogarli. Tanto per dare un po di brio alla storia, Ossorio ci butta dentro la trasformazione della donna in mostruoso uomo pesce che esce ogni luna piena a fare incetta di cuori umani strappandoli dal petto con la sua manona tutta scaglie e unghie, poi, giusto per non farsi mancare niente, ci piazza anche il tesoro dei Nibelunghi, un servo in tunica medioevale chiamato Alberico, un gruppo di sirenette con la faccia piena di Cerone e la stessa Lorelei, interpretata da Helga Liné, vestita con un castigato costume da bagno pieno di fronzoli e la faccia pasticciata di farina. 

A combattere la mostruosità che terrorizza un paesino tedesco sul Reno, viene ingaggiato il cacciatore Sirgurd che si presenta come un ibrido tra Little Tony e Mino Reitano, vestito con pantaloni ultra aderenti bianchi o con strisce azzurre e savoirfaire da tamarro ma con grande spirito di rubacuori, come del resto ci dimostra prima seducendo Lorelei, e poi anche la bella professoressa Elke (interpretata da una splendida Silvia Tortosa che da sola merita la visione). C'è anche uno scienziato che ha scoperto una pozione che trasforma tranci di mano in tranci di pesce e anche la cura per combattere Lorelei, ovvero usando un coltello radioattivo che probabilmente falcerà nel tempo anche il suo utilizzatore (ma questo non ci è dato di sapere). Il poverino però verrà frustato a sangue da Alberico e distrattamente si getterà una provetta d'acido in faccia.
Le scene splatter non mancano anche se sarebbe più corretto parlare di un'unica sequenza che si ripete per tutto il film, ovvero il dettaglio degli artigli che aprono il petto delle vittime per strapparne il cuore. C'è anche un violinista cieco che tenta di avvisare i paesani ma nessuno gli crede e finirà ucciso. Poi ci sono i villici che organizzano battute di caccia ma solo di giorno così siamo sicuri che non beccheranno mai il mostro, c'è un bel collegio femminile pieno di ragazzine infoiatissime e una caverna segreta che accede ad un palazzo nascosto.  Alla fine Ossorio ci regala anche una cavallerizza psichedelica che cavalca verso il Valhalla consigliandoci implicitamente di assistere alla visione storditi da droghe lisergiche in modo da apprezzare maggiormente il delirio puro che si snoda in questi fotogrammi.
 

venerdì 11 luglio 2014

BLOOD TIDE

(Id.1982)
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Curiosa coproduzione greco britannica, questa prova del mediocre Richard Jefferies è un onesto B movie ancora legato alle atmosfere anni tardo seventies con un irriconoscibile James Earl Jones ed un mai troppo compianto José Ferrer all'interno di un plot avventuroso horrorifico che narra le vicende di una giovane coppia americana (interpretati da Martin Kove e Mary Louise Weller) i quali sfruttano il loro viaggio di nozze per cercare la sorella di lui, Madeleine (Deborah Shelton) su un'isoletta greca alquanto minuscola e arretrata.

La ragazza, un'artista un pò matta, non ha infatti dato più notizie di sè in quanto impegnata a restaurare un'antichissima icona raffigurante San Giorgio e il Drago. In questa sorta di "Mediterraneo rosso sangue" troviamo anche Frye (il buon J.E.Jones) avventuriero maschilista e alcolizzato che fa esplodere una grotta per recuperare un tesoro di monete antiche risvegliando una mostruosa creatura anfibia. Ad un certo punto il villaggio dovrà tornare ad atavici rituali organizzando un sacrificio umano per placare il mostro furioso e la bella Madeleine scoprirà alcune sue discendenze con una vittima cerimoniale che si vede all'inizio del film in una sorta di flashback introduttivo.


Pur essendo diretto male, con inquadrature traballanti ed una assoluta mancanza di tensione, il film ha alcune curiosità che meritano la visione, l'utilizzo dell'iconografia ortodossa per rievocare miti tribalisti, l'inconsueta e splendida location (già però sdonagata da Antropophagus due anni prima) dell'isoletta greca e il mostro che si muove sia sulla terraferma che in acqua come il Gillman di Creature from the Black Lagoon. Il regista ha, inoltre, il buon gusto di non mostrare mai la creatura (che già quando si vedono le mani si capisce quanto possa essere ridicolo il make up). C'è poi un continuo riferimento sessuale/fallico nel rapporto fra la vittima e il demone, riferimento che si fa esplicito nel finale. Deborah Shelton inoltre è di una bellezza mistica che merita più di un apprezzamento.
 

martedì 1 luglio 2014

TRANSFORMATIONS...E LA BESTIA SORGERA' DAGLI ABISSI

(Id. 1988)
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Sul finire degli anni ottanta, il cinema italiano, mandava gli ultimi colpetti di quello che verrà ricordato come cinema di genere, sulla scorta del successo internazionale di Alien ecco quindi "Transformations", il pellicola che in un certo senso richiama alla mente quel piccolo cult di Alfonso Brescia intitolato "La bestia nello spazio" pur se epurato completamente da suggestioni pornografiche e concettualizzazioni Borowczykiane. In realtà la produzione è americana ed è opera della Empire Video di Charles Band, il quale però si avvalse di un cast tecnico tutto italiano, pur mettendo dietro la macchina da presa l'esordiente Jay Kamen più quotato come sound director che come regista (E infatti si vede!). 
Nonostante questo i risultati non migliorano, anzi, il film è talmente scarso da non essere mai neanche stato proiettato negli states. Rimane però lo spumeggiante trash delle grafiche computerizzate modello Atari, astronavi che sembrano generate da impossibili contorsioni plastiche di oggetti fusi nel fuoco svolazzanti goffamente in uno spazio puntinato che ricorda la carta da parati di qualche locale osè. Il protagonista si chiama Wolff e come dice il nome è  per l'appunto un lupo solitario che vaga nello spazio da solo il giorno del suo compleanno. Credendo in un regalo da parte di suoi amici, fa entrare dal portellone una Pamela Prati ammiccante con cui ha subito un bel rapporto sessuale, durante il quale lei si trasforma in una creatura senza forma che cola zampe schifose sul petto del viaggiatore. 

Al suo risveglio il nostro eroe è solo, la nave è in avaria e deve quindi atterrare in una base spaziale dove viene subito affidato alle amorevoli cure di un'avvenente dottoressa. Frattanto nella base, capitanata da soldati che sembrano brutte copie degli imperiali di "Star Wars", si odono echi di rivolta a opera di un terzetto di operai balordi, c'è anche un prete che vede cadere trascinato da fili invisibili il crocifisso. Seguono dialoghi interminabili e sfiancanti tra la dottoressa e il protagonista il quale, va detto, recita come un perfetto idiota. Ogni tanto il regista ci butta qualche flashback tanto per ricordarci le tette della Prati che, a onor del vero, sono l'unica cosa che si salva del film. Tra scene ricreative post punk degne di un centro sociale si snodano balletti di improbabili prostitute, Wolf riesce a raccattarne una con i baffi sulle guance e una cresta bianca sulla criniera che la fa assomigliare bizzarramente ad una puzzola umana.


Durante il rapporto sessuale anche il protagonista subisce una mutazione e uccide la donna. Sarà la bella dottoressa a fermare la mostruosa cosa che si è impossessata di lui in un tripudio di mutaforme gommose senza senso, scene tagliate con l'accetta e riproposte in loop tanto perché sono forse le uniche su cui si sono spesi bei soldi, sequenze sbagliate ma che vanno bene così perché "buona la prima" (vedi l'aggressione al prete che viene colpito alla schiena ma il suo aggressore spunta poi di lato) e un simpatico lieto fine che fa vivere tutti "felici e contenti" dentro astronavine che sembrano stronzi stellari.