lunedì 15 giugno 2020

ROBO VAMPIRE

(1988)
 
Regia Godfrey Ho

Cast Robin Mackay, Nian Watts, Harry Myles

Genere Horror, Fantascienza, Action, Thriller, Fantastico

Parla di “vampiri cinesi saltellanti, robottoni di gommapiuma, narcotrafficanti e santoni sparascintille”

La leggenda del vampiro, nell’estremo oriente, trova la sua più classica espressione nel mito dei jiangshi, una specie di succhiasangue vestito con un lungo vestito blu intonato al colore cianotico della pelle ed al ridicolo cappellone squadrato. Ma ancora più ridicola appare la loro camminata saltellante con le braccia distese in avanti quasi fossero degli zombie. Il mito del vampiro cinese è in effetti un misto di leggende occidentali tra cui anche quella del Golem, restano infatti immobili quando gli si mette una specie di pergamena sulla faccia (modello scontrino fiscale). Con queste premesse il prolificissimo regista orientale Godfrey Ho non poteva che dirigere un film di culto nella cinematografia trash aggiungendo a questo una assurda scopiazzatura di Robocop senza peraltro avere la stessa tecnologica e gli stessi Vfx a disposizione rispetto agli americani. Insomma Robovampire aveva a disposizione tutti gli elementi necessari per entrare di diritto tra i film più ridicoli di sempre e difatti le aspettative non sono state disattese. 

La trama, tra le più confuse e pasticciate di sempre, vede un manipolo di narcotrafficanti coadiuvati da una specie di santone ninja che risveglia un esercito di jiangshi saltellanti tra cui una specie di scimmione capellone con una maschera comprata dal rigattiere sotto casa. Tra zompi, saltelli, piroette e abuso di petardi spara scintille in sostituzione dei classici raggi laser, i narcotrafficanti rapiscono un’agente occidentale, una discreta sventola bionda a cui viene applicata la tortura della goccia e, dal quel momento in poi, la ragazza comincia a fare delle smorfie assurde agitando la testa come in preda ad una possessione demoniaca degna di Riposseduta (Repossessed, 1990). 

Il santone poi deve vedersela con una specie di maga svolazzante che indossa un vestitino trasparente tanto per far vedere anche qualche tetta bianchiccia e buttarci dentro quel pizzico di fantasy che in un minestrone fantahorror non deve mai mancare. A questo punto entra finalmente in scena il Robowarrior ovvero un estratto di un povero agente di Polizia ferito in uno scontro, eccetera eccetera (alla trama ci aveva già pensato Veroheven), peccato che il design dell’automa si riduca ad una assurda tutona argentata e imbottita con gommapiuma ed al povero attore inserito al suo interno viene affidata totalmente la meccanica dei movimenti. Il novello Michael Jackson cinese deve quindi muoversi un pò come David Zed (chi non lo conosce vada subito a recuperare qualche puntata di “Pronto Raffaella?) e parlare con un filtro robotico, armato di un gigantesco mitragliatore. Gli scontri con i vampiri saltellanti che si mettono in cerchio a saltellare contro il robottone sono tra le cose più assurde mai viste nel mondo della settima arte ma è l’anarchia generale che conquista decisamente in quest’opera, si ha la sensazione, infatti, che al ciak d’inizio il regista (che ci regalerà anche un seguito ancora più disastrato di questo titolato “Devil’s Dynamite”) si sia alzato e abbia detto “fate un pò come cazzo vi pare, io vado a bermi un bel sake”! 

lunedì 8 giugno 2020

QUELLA VILLA IN FONDO AL PARCO

(1988)
Regia: Giuliano Carmineo
Cast: Eva Grimaldi, Janet Agren, David Warbeck
Genere: Horror
Parla di: “Omuncolo ratto figlio di topo e di scimmia, semina il terrore nelle strade di Santo Domingo”
 
Per gli amanti del cinema trash, questo film si potrebbe tradurre con il titolo “Weng Weng meet Horror” dal momento che il vero protagonista della pellicola di Giuliano Carmineo è l’attore dominicano Nelson de La Rosa, deceduto nel 2006, il quale, analogamente alla celebre star filippina, era anch’egli affetto da nanismo, con un’altezza ancora più estrema rispetto al protagonista di “For your eight only”, se Weng Weng misurava infatti 83 cm, De La Rosa arriva a misurare non più di 71 cm. Truccato di nero, con enormi denti posticci, l’attore dominicano interpreta una mostruosità da laboratorio genetico (anche se nel film ci si limita ad una cantinaccia lurida piena di vecchie gabbie piene di sorci) frutto dell’assurdo incrocio tra lo sperma di topo e l’utero di scimmia, con tanto di zampette acuminate da cui secerne un mortale veleno che provoca l’istantanea paralisi delle vittime. Fuggito dall’angusta gabbietta in cui era relegato, il nostro rat-man gironzola per le spiagge di Santo Domingo, ammazzando tutti quelli che incontra, fino a colpire una giovane modella che indossava gli abiti della collega Marlis (Eva Grimaldi) che a sua volta si reca nella giungla per un servizio fotografico. 

Il ritrovamento del cadavere della modella induce la polizia a contattare la sorella di Marlis, Terry (Janet Agren), la quale incontra al suo arrivo lo scrittore di gialli Fred (David Warbeck) che la supporta nell’indagine. Appurato, infatti, che il cadavere rinvenuto non è quello di Marlis, Terry decide di rintracciare autonomamente la sorella che nel frattempo ha trovato alloggio proprio dallo scienziato creatore dell’uomo topo. Senza citare necessariamente Tod Browning e il suo capolavoro Freaks, l’effetto mostro interpretato da un attore nano, fa il suo porco effetto, se poi vogliamo cimentarci in una disquisizione etica sullo sfruttamento cinematografico degli infelici, vorrei comunque ricordare che è una prassi conclamata nel mondo della settima arte, ad oggi ancora in voga soprattutto nel genere Fantasy/Horror. 

In generale comunque il film di Carmineo, regista poliedrico capace di passare dal western alla commedia sexy, al trash di Pierino fino al thriller, oltre ad essere considerato un cult, merita comunque il pieno apprezzamento. Sia per l’originalità della trama, sia per il saper dosare correttamente il pathos senza scadere nel ridicolo, ma soprattutto perché riesce a rendere incredibilmente credibile anche Eva Grimaldi nella sua parte oltre, ovviamente, al pregio di regalarci un’indimenticabile nudo di doccia della nostra splendida attrice. Merito anche della sceneggiatura del bravo Dardano Sacchetti e di un cast di fulciana esperienza, non a caso produce la Fulvia Film, artefice dei migliori capolavori di Lucio Fulci.

mercoledì 3 giugno 2020

LIVE FREAKY! DIE FREAKY!

(2006) 

Regia John Roecker 

Cast Billie Joe Armstrong, Lars Frederiksen, Asia Argento 

Genere: Animazione, Musical, Black Comedy, Horror 

Parla di: “Tentativo di narrare in salsa grottesca gli omicidi Manson con un gruppo di bruttissimi pupazzi di plastilina” 

Dopo aver letto Helter Skelter di Vincent Bugliosi e Curt Gentry, appassionante documento che narrava in maniera alquanto dettagliata, soprattutto dal punto di vista istruttorio, del caso Charles Manson, mi sono andato a recuperare tutta la filmografia legata agli avvenimenti relativi al massacro di Cielo Drive che portarono all’omicidio di Sharon Tate e dei suoi invitati. Tra i titoli disponibili (a cui va aggiunto l’ottimo film di Tarantino C’era una volta a Hollywood) spunta anche questo Live Freaky! Die Freaky! di John Roecker, regista accostato spesso alla scena new punk dei primi anni duemila e in particolare per la sua collaborazione con i Green Day che è culminata nel documentario Heart like a hand grenade dedicato al gruppo capitanato da Billie Joe Armstrong. Non a caso l’intera band presta la propria voce nel film oltre alla partecipazione di star del punk come Lars Frederiksen (Rancid) e Henry Rollins (Black Flag) oltre alla nostra arcinota eroina Asia Argento. 

Il tutto realizzato con la tecnica claymation, ovvero l’uso di personaggi in plastilina animati a passo uno. La cosa che stupisce nel film, oltre alla bruttezza intrinseca dei personaggi, realizzati e animati con imperizia totale e privi di quella compattezza necessaria quando si usano certe tecniche di animazione, è il desiderio ossessivo, da parte del regista (che è anche l’autore della storia) di voler dire la sua nei confronti dei fatti narrati, utilizzando un’inutile verve grottesca e volgare per descrivere personaggi (e in particolare le vittime del massacro) trasformandoli in macchiette negative e insopportabili, quasi a giustificare la brutta fine che hanno fatto. Sharon Tate (che diventa Sharon Hate perché tutti i cognomi vengono camuffati togliendo la lettera iniziale e sostituendola con una H) diventa così un’inquinatrice seriale, dedica a sniffare quintali di cocaina mentre il parrucchiere Jay Sebring narra turpi abitudini omosessuali e finisce decapitato in una pozza di sangue, la sua testa ancora viva si delizia a succhiarsi il proprio pene. 

Tralasciando sull’idiozia generale dei dialoghi, infarciti di battute gratuite e assolutamente poco divertenti, il film sconfina spesso nel musical con canzoncine idiote e banali. Il tutto introdotto da un incipit post-apocalittico di cui non si capisce il senso. Se in certi punti il delirio visivo prende il sopravvento con sequenze oniriche dove il sesso è volutamente protagonista, il resto del film tende a perdersi senza soluzione di continuità. Come già detto la Claymation sembra realizzata dai bambini dell’asilo e l’estetica dei personaggi sembra non riuscire mai a trovare una propria stabilità estetica. Forse in tutto questo c’entra il tentativo di realizzare un film punk, estremo e sarcastico, ma non si capisce perché andare a dissacrare un episodio nerissimo di cronaca quando c’erano tante altre storie americane da cui attingere un messaggio anarchico magari più condivisibile.