lunedì 30 marzo 2020

NUOVO PUNK STORY

(Desperate Living, 1977) 

Regia: John Waters 

Cast: Mink Stole, Jean Hill, Edith Massey 

Genere: Commedia, Grottesco, Demenziale 

Parla di: “Aristocratica fuggitiva con obesa governante al seguito giungono in cittadina dove vivono solo relitti umani” 

Desperate Living è il primo film di John Waters ad essere doppiato e distribuito sul territorio italiano, questo anche grazie all’apporto della scrittrice Lidia Ravera che ne curò personalmente i dialoghi e il doppiaggio, apporto di cui probabilmente l’intellettuale torinese ebbe a pentirsene amaramente, viste le vicissitudini a cui il film andò incontro grazie alla nostra sempre lungimirante censura. Di certo il bel paese non era ancora pronto per le opere dell’irriverente regista di Baltimora e, da parte sua, non è che Nuovo Punk Story (titolo italiano quanto mai opportunista vista la concomitante ascesa del movimento punk all’epoca) sia un filmetto per educande. Nulla a che vedere con Pink Flamingos, in termini di cattivo gusto, vista anche l’assenza di Divine, personaggio clou di Waters in quel periodo impegnato in lunghe ed estenuanti tourneè teatrali, ma nonostante ciò, il maestro del bad taste statunitense picchia giù duro anche questa volta. 

Sin dalle prime inquadrature vediamo una delle sue attrici cardine Mink Stole interpretare una schizofrenica signora perbene che urla all’attentato quando dei ragazzini gli fracassano la finestra con un pallone, trova i due figli nudi in camera e grida allo scandalo (e in effetti la scena oggi sarebbe stata censurata ovunque) e alla fine litiga con il marito fracassandogli una bottiglia in testa mentre la pachidermica governante Grizelda (Jean Hill) lo soffoca con il suo enorme culone. Terrorizzate da un possibile arresto, le due fuggono in auto ma vengono fermate da un poliziotto pervertito che veste con giarrettiere fucsia e chiede loro, in cambio di un lasciapassare, le loro mutandine (o mutandone giganti trattandosi di Grizelda). Le due donne, a questo punto, non hanno altro luogo dove andare se non Mortville, baraccopoli di disperati governata da un’allucinante Regina Carlotta (Edith Massey) e il suo stuolo di teddy boys vestiti con completini in pelle modello omosex. La ributtante monarca impartisce editti assurdi tipo camminare all’indietro con i vestiti rivoltati, fa uccidere il boyfriend spazzino della figlia acquisita (che peraltro è quasi più vecchia di lei e indossa un candido abitino da sposa e boccoli degni di Shirley Temple) e si trastulla con i suoi sgherri che ballano oscenamente nudi (“Puzzi tremendamente di cazzo!”). 

Le due donne vengono ospitate da due lesbiche pazze Mole (Susan Lowe) e Maffy (Liz Renay) in cambio di un biglietto della lotteria. Quando Mole andrà a riscuotere la vincita avvererà finalmente il suo sogno e si farà innestare un orrendo cazzo pieno di cicatrici, a Maffy però la sorpresa non è gradita e per compiacerla Mole arriverà a tagliarsi il nuovo pene in diretta. Tra vomito, rutti, scoregge, turpiloqui vari e abominevoli scene saffiche con Grizelda protagonista di un’aberrante cunnilings, si snoda un percorso cinematografico che il buon Waters ha maturato in tutto il decennio dei settanta e che qui raggiunge la sua degna conclusione. A partire dagli anni ottanta, e proprio con la commedia in Odorama Polyester, il cinema del maestro si purgherà dell’estremo visivo raggiungendo una dimensione più accettabile anche se i contenuti irriverenti e oltraggiosi, oltre ad un sonoro pugno in faccia alla borghesia americana perbenista e puritana, saranno sempre nelle corde del cineasta americano. 

lunedì 23 marzo 2020

TARZANA, SESSO SELVAGGIO

(1969)

Regia: Guido Malatesta

Cast: Ken Clark, Femi Benussi, Franca Polesello

Genere: Erotico, Avventura, Drammatico

Parla di “Spedizione nella Savana alla ricerca di ragazzina scomparsa divenuta una specie di Tarzan al femminile, rigorosamente a petto nudo”

L’irresistibile pretestuosità del cinema italiano sta anche nel realizzare un film giusto per mostrare un po' di tette, andando a ribaltare un personaggio amato soprattutto dai ragazzini per trasformarlo in una versione al femminile per adulti. Guardando quest’incredibile filmaccio firmato dal mestierante Guido Malatesta (che si firma con lo pseudonimo inglese James Reed) ci si chiede quanta fame di sesso arretrata doveva avere il pubblico che andava al cinema. Si perchè a parte le tette della protagonista, interpretata dall’istriana Femi Benussi, oltre a qualche sporadico nudo di schiena di Franca Polesello (la quale oltre ad una piccola parte ne Il Sorpasso, non fece mai nulla di più elevato artisticamente rispetto a queste produzioni di serie Zeta) risulta quanto meno arduo trovare altri motivi per vedere le avventure di questa sottospecie di Tarzan al femminile. 

Girato nel giardinetto sotto casa con ampio montaggio di scene da natura selvaggia importate da qualche documentario africano, il film ci regala tutto quello che ci serve per giudicarlo, già nelle prime inquadrature quando vediamo la Benussi in topless e tanga selvaggio, seduta su un elefantino, intenta a simulare malamente il classico urlo della Savana, con montaggio associato a varie belve che fuggono. Il tutto si sposta a Londra dove l’avventuriero Glen (interpretato da Ken Clark che ci regalò a suo tempo una grandiosa interpretazione nel classico Attack of the Giant Leeches) insieme alla bionda Doris (Franca Polesello) vengono assoldati da Sir Donovan per recuperare la famiglia della sorella scomparsa in un incidente aereo in Africa.

Durante la spedizione scopriranno che a salvarsi è stata solo la figlioletta di cui rintracceranno una bambolina bruciacchiata. Per tutto il film la Tarzana del titolo non fa altro che far finta di lanciarsi da una liana all’altra e saltellare a piedi nudi sul terriccio, opportunamente nascosta tra le foglie. Ogni tanto la sua controfigura accarezza qualche fiera addomesticata ma il più delle volte vediamo lei abbracciare un cucciolo di leone che non sembra molto convinto delle effusioni ricevute. Al top del trash assoluto vediamo nel finale la Poleselli aprirsi la camicia e mostrare le proprie tette alla Tarzana per convincerla di appartenere entrambe alla razza umana e intimarle quindi di lasciare la giungla per tornare alla civiltà. Il tutto in un tripudio musicale enfatico accompagnato dai saltelli di un’antipaticissimo scimpanzè ripreso chissà dove.

martedì 17 marzo 2020

MOTHER'S DAY

(1980)

Regia Charles Kaufman

Cast: Nancy Hendrickson, Frederick Coffin, Beatrice Pons

Genere: Commedia, Horror, Slasher
Parla di: “Vecchina con figli maniaci tortura e violenta trio di campeggiatrici solitarie”

Chi dice che lavorare con i parenti non produce nulla di buono dovrebbe ricredersi guardando questo slasher prodotto dalla Troma di Lloyd Kaufman e Michael Herz e diretto dal fratello di Lloyd, Charles Kaufman. Una pellicola che, seppur nei suoi limiti al confine con il Trash più gretto e sporco, tipico dei prodotti della Casa di produzione di Long Island, ha dalla sua parte un non trascurabile merito: Funziona! Almeno dal punto di vista narrativo, con una scrittura semplice ma ben orchestrata che riesce, nella povertà di mezzi più che evidente, a creare quella giusta tensione necessaria ad un film del genere. Pur oscillando tra commedia, horror e Thriller, nei suoi debiti rimandi allo stravisto copione della famiglia rurale assassina, Mother’s day riesce a generare tensione, soprattutto nella seconda parte relativa alla fuga e sopravvivenza delle vittime nei boschi. Il soggetto è molto semplice, anche troppo, c’è questa dolce vecchina dagli enormi denti giallastri e un collare medico stretto in gola, che si fa dare un passaggio da una coppietta, giunti nei boschi, escono dai cespugli due pazzi mascherati che decapitano il ragazzo e massacrano di pugni la ragazza. 

Ma c’è di più, i due killer sono figli della vecchina. Da questo incipit ci si sposta alle vicende di tre ragazze che organizzano una scampagnata nei boschi e, come prevedibile, finiranno nelle vicinanze della baracca abitata dalla madre e dai due figli maniaci, Ike (Frederick Coffin) anche lui dotato di una dentatura oscena, al limite del ridicolo e Addley (Michael McCleery) che indossa una maschera somigliante ad una busta di carta (che richiama una delle prime apparizioni di Jason Voorhes in Friday The 13th part 2). Le tre ragazze verranno catturate come selvaggina nei loro sacchi a pelo e dovranno subire violenze di ogni genere, stupri e torture prima di trovare la via di fuga, complice anche l’evidente stupidità dei due fratelli maniaci e lo strabordante ego della madre (Beatrice Pons) che richiede continue attenzioni. 

Ambientazioni rurali immerse nella confusione e nello sporco più totale rendono molto efficace l’impianto narrativo, la recitazione non brilla per intensità espressiva anche se, nel finale, assistiamo ad una performance notevole da parte della protagonista Nancy Hendrickson che ci regala l’omicidio più intenso di tutta la pellicola. Peccato che l’Unhappy Ending troppo pretestuoso che occupa la sequenza finale sia assolutamente inutile oltre che incomprensibile, il cui unico contributo, nell’opera, sta esclusivamente nel ricordarci che siamo di fronte ad un film della Troma.

lunedì 9 marzo 2020

BEAST FROM HAUNTED CAVE

(1959)

Regia: Monte Hellman

Cast: Michael Forest, Frank Wolff, Richard Sinatra

Genere: Thriller, Horror, Fantascienza

Parla di: “Rapinatori fanno saltare caverna ma risvegliano ragno assassino che li assedia sulle Montagne”

Prodotto da Gene Corman, fratello del ben più conosciuto Roger, questo Low-Budget Movie segna l’esordio del regista Monte Hellman, mestierante dignitoso ma che non ha mai brillato di genio nella sua carriera (pur essendo uno dei produttori esecutivi di Reservoir Dogs di Quentin Tarantino). Del resto le premesse rilasciate da questo Beast from Haunted Cave non fanno ben sperare. Sorta di Sci-Fi/Horror ambientata nelle montagne innevate del South Dakota, la pellicola vede un pugno di malandrini che pianifica una rapina alla banca della cittadina locale per poi imboscarsi in una baita isolata sulle montagne di proprietà di Gil (Michael Forest) un giovanotto bonaccione che preferisce la natura alle strade di Los Angeles e gestisce lo skilift locale. 

Per operare in santa pace, i criminali creano un diversivo mettendo una bomba all’interno di una miniera, ma l’esplosione risveglia una specie di creatura filamentosa che sembra un ammasso di rami secchi ai quali è stata posta in cima una parrucca bionda. Il mostro, che nelle intenzioni degli autori, doveva essere una specie di ragnone gigante, si spinge nelle vicinanze della baita e attacca la banda di assassini. Praticamente per tutto il film assistiamo alla tresca tra Gipsy (la playmate Sheila Noonan) l’amante alcolizzata del capobanda (Frank Wolff) e il buon Gil, mentre il capo, non prendendola bene per niente, inizia a menare entrambi, il tutto contornato dalla presenza del gangster Marty (Richard Sinatra cugino del mitico Frankie) il quale, avendo già avuto un’esperienza iniziale con la bestia (mentre metteva la bomba il ragno lo ha aggredito uccidendo la cameriera Nathalie che era insieme a lui), continua praticamente a incontrare il mostro ad ogni angolo e tutte le volte, inspiegabilmente, questa cosa non gli torce un capello. 

Da buon ragno che si rispetti, anche il nostro imbozzola le vittime e pare che sia uscito da una specie di uovo nascosto nella caverna, la qual cosa contribuisce a inserire il film tra i possibili ispiratori di Alien. Realizzato con buchi di sceneggiatura modello Emmenthal ed effetti speciali di una bruttezza esagerata (le zampe del ragno risultano talmente posticcie che si afflosciano sulle vittime quando il mostro le aggredisce), Beast from Haunted Cave risulta comunque godibile come qualsiasi Retro/Sci-Fi dell’epoca, rigorosamente quindi per gli appassionati della fantascienza americana del dopoguerra.  

lunedì 2 marzo 2020

WHITE POP JESUS

(1980)

Regia Luigi Petrini

Cast: Awana Gana, Stella Carnacina, Gianni Magni

Genere: Musical, Commedia, Personalitexploitation

Parla di: “Gesù capellone torna sulla Terra ma si scontra con la mafia e con una generazione sconvolta, il tutto a suon di balletti e canzoncine”

Awana Gana, all’anagrafe Antonio Costantini, speaker radiofonico di Radio Monte Carlo negli anni ’70 e conduttore di programmi televisivi come Rally Canoro e Discoring, è rimasto nell’immaginario collettivo soprattutto grazie alla particolarità del suo pseudonimo, che risultava essere un’anglofonia maccheronica simile ad uno scioglilingua (Tant’è che pare derivi da una frase di Alberto Sordi in Un Americano a Roma). Sicuramente la sua fama non deriva dall’interpretazione di questo suo unico film in qualità di protagonista, una specie di risposta all’amatriciana di Jesus Christ Superstar con musiche realizzate a tre mani da Vince Tempera, Franco Bixio e Alberto Mandolesi, e balletti coreografati nientemeno che da Don Lurio. Ambientato nella Taranto di fine settanta, narra le gesta di questo strano capellone stempiato, vestito con una palandrana bianca da chierichetto malcresciuto, che si fa chiamare Jesus. 

Impegnato in dialoghi deliranti con il Creatore che ha una forte pronuncia milanese, il nostro profeta fa innamorare di sé la manager Lattuga Pop (interpretata dalla cantante Stella Carnacina) che decide di seguirlo abbandonando i suoi affari ma soprattutto i suoi intrallazzi con la mafia. Dal canto loro, i gangster non approvano questa defezione e iniziano a pedinare la coppia nel tentativo di rapire Lattuga Pop e ricondurla all’ovile. Nel frattempo assistiamo a puerili tentativi da parte di Awana Gana di produrre miracoli, diffondere il verbo e convertire giovani freak, tossicodipendenti e addirittura due suore brigatiste, ad una nuova filosofia di pace e amore. Nel cast anche il grande ex “Gufo” Gianni Magni nella parte di un improbabile ispettore di Polizia ed il mitico Sandro Ghiani nella parte dell’appuntato sfigato e ignorante (parte che ha contraddistinto un buon 70% della sua carriera). Se l’apparato musicale è quantomeno discreto con una serie di canzonette in salsa disco-funky, le coreografie ricordano più un programma di varietà tipico dell’epoca con giovani che saltano da tutte le parti senza un ordine ben preciso. 

La Carnacina e Awana Gana recitano con la stessa espressione monofacciale per tutto il film, il povero Magni è costretto a subire una serie di battute orripilanti, tra le quali spicca per imbarazzo assoluto, quella sulla pantera (in pratica chiede una Pantera che lo porti sul luogo del delitto e l’appuntato gli porta una pantera in carne e ossa al posto della volante, capito? Eh?). Per il resto è tutto un susseguirsi di gags ridicole e situazioni incomprensibili che hanno come unico scopo quello di sfruttare da una parte il successo del musical religioso e dall’altra l’allora popolare figura del disc-jockey protagonista. Ma come nel film di Sbirulino, anche qua la confezione frettolosa e sgangherata ci dimostra, se mai ce ne fosse stato bisogno, che il personalitexploitation è un genere tutto italiano, dove il fulcro giustificativo, è il magico mondo della televisione, che all’epoca faceva a botte con quello del cinema per la sovranità popolare.