martedì 30 ottobre 2012

LE ALI DELLA NOTTE

(Nightwing, 1979)
Regia Arthur Hiller
Cast: Nick Mancuso, David Warner, Kathryn Harrold

"I Pipistrelli vampiro sono la quintessenza del male, ti succhiano tutto il sangue e pisciano quello in eccesso lasciando in giro odore di ammoniaca", queste in sostanza le motivazioni che spingono il cacciatore di vampiri David Warner a portarsi con un furgoncino nel deserto del New Mexico in compagnia di uno sceriffo pellerossa a caccia di mostruosi chirotteri che dapprima si accontentavano di mucche e cavalli, poi si sono rivolti verso gli indiani di una riserva lasciando dietro di sè una scia di peste, acido e morte.
Arthur Hiller dirige questo eco-vengeance di fine anni settanta, tratto dal romanzo "L'ala della notte" di Martin Cruz Smith, prima di essere baciato dal successo di Gorky Park. Purtroppo nonostante ci sia tutto per realizzare un buon film, pipistrelli assassini, magia indiana e splendidi paesaggi selvaggi, il film non decolla e cade addirittura nel ridicolo con l'apparizione degli spettri degli antenati nel finale.

Carlo Rambaldi si occupa di realizzare i mostriciattoli alati ma purtroppo non fa un gran bel lavoro, i pipistrelli sono troppo cicciotti  e pelosi per far paura e sbattono le ali meccanicamente senza nascondere troppo la loro natura artificiale, manca la suspance e pure l'azione, non bastano gli anatemi del solito vecchio indiano a creare tensione, oltretutto alla fine i morti sono pochissimi (per un film del genere) e a parte uno o due casi, il decesso non è neanche attribuibile ai vampiri se non collateralmente. Si salva solo la sequenza dell'assalto al bivacco di stupidi turisti portati nel deserto di notte, abbastanza trucida nel suo insieme ma che rappresenta solo un guizzo di vivacità in un film decisamente morto. La pellicola uscì in Italia decisamente in sordina, con il titolo "Le ali della notte".

martedì 23 ottobre 2012

THE MACHINE GIRL

(Kataude mashin gâru, 2008)
Regia Noboru Iguchi
Cast Minase Yashiro, Asami, Kentarô Shimazu

La vendetta è un piatto che si consuma freddo...come il sushi, chi meglio dei giapponesi può dunque rappresentare adeguatamente questo feroce sentimento nelle proprie arti? Non a caso infatti, il tema della rivalsa di un torto subito, il vendicare la morte dei propri cari sono leit motiv ricorrenti nel cinema orientale, espressi frequentemente in modo truce e violento, con grande spreco di sangue e frattaglie ma anche di sentimenti duri che rasentano la parodia come nel caso di questo spassosissimo filmaccio di Noboru Iguchi, regista che ha esordito nel porno fino ad arrivare allo splatter per poi estremizzare la propria verve artistica nel trash più assoluto con il delirante RoboGeisha.

In The Machine Girl la storia è molto semplice, quasi un pretesto per mostrare eccessi fino in fondo, la protagonista Ami è una ragazzina che insieme al fratello Yu è rimasta orfana poichè i genitori, accusati ingiustamente di omicidio, si sono suicidati.I due teen-ager vivono quindi ai margini, evitati dalla comunità come appestati. A rincarare la dose c'è poi il figlio di uno Yakuza, Sho Kimura, che fa il bulletto con Yu. Durante una collutazione Sho uccide Yu e l'amico Takeshi, la sorella per vendicarsi si intrufola in casa Kimura ma viene catturata, torturata e gli mozzano un braccio. Più morta che viva viene raccolta dai genitori di Takeshi che la curano e costruiscono una mitragliatrice da innestare nel moncherino. Ami diventa quindi una macchina di morte in grado di sgretolare letteralmente un essere umano, forare stomaci (citazione da Apocalypse domani) e maciullare corpi.

Sin dalle prime immagini ci troviamo di fronte a una festa splatter senza alcun ritegno, a Iguchi non importa nulla della credibilità, l'importante è giocare con infiniti spruzzi di sangue, i  corpi diventano fontane di emoglobina, gli arti saltano via come mollette, gli attori più che recitare urlano come ossessi, ma il festival del non sense arriva a estremi paradossali  come il braccio che infilato nell'olio bollente si trasforma in tempura. Ovunque spuntano citazioni tarantiniane, alcune quasi rasentano il plagio come la madre di Takeshi, Miki, che dopo aver perso la gamba, si infila nel moncherino la sega elettrica come in Planet Terror con il mitragliatore. Iguchi spazia da Lucio Fulci a Sam Raimi senza alcun tipo di inibizione, quasi uno sfogo nei confronti di un cinema troppo ancorato ai suoi sistemi di autocontrollo. E se sullo schermo, tra uno spruzzo e l'altro non si intravede nulla di nuovo, almeno ci si diverte un casino.

martedì 16 ottobre 2012

JESSE JAMES MEETS FRANKENSTEIN'S DAUGHTER

(Id 1966)
Regia William Beaudine
Cast John Lupton, Narda Onyx, Cal Bolder


William Beaudine è un altro di quei registi capace di dirigerti 10 film all'anno, non a caso lo chiamavano "One Shot" forse per l'approssimazione delle riprese ma anche per la velocità con cui confezionava questi prodottini per il mercato dei Drive-In. Per intenderci uno dei registi della cosiddetta epoca "Grindhouse" tanto declamata da Tarantino, ed infatti questo delirante titolo, frutto di una curiosa commistione tra l'horror stile RKO e il western tipo Henry Ford, si accoppiava perfettamente con un altro, girato nello stesso anno, quel Billy the Kid versus Dracula che accompagna una lista di 350 film girati da Beaudine nel corso della sua lunga e anonima carriera di mestierante. L'aura di cult nel corso degli anni, questo film, se l'è guadagnata quasi totalmente per la demenzialità del titolo, in realtà il film non è poi così male, la storia regge bene con un Jesse James attempatuccio (John Lupton) che, mentre compie una rapina con il fido Hank (Cal Bolder), cade in un'imboscata. Hank viene ferito gravemente e il buon jesse non trova di meglio che cercare un dottore sulle colline di un paesino del messico.
Qui la figlia del mitico dottor Frankenstein, Maria (Narda Onyx), in compagnia del fratello, sta cercando un corpo prestante in cui inserire il cervello del suo schiavo Igor. L'occasione di dover curare il muscoloso Hank è ghiotta per la scienziata, ma il celebre bandito, aiutato per l'occasione da Juanita (Estelita Rodriguez) una avvenente ragazza latina, riuscirà alla fine a sconfiggere il mostruoso risultato di questo folle trapianto.
Nonostante l'ilarità di alcune scene (i genitori di Juanita sono visibilmente dei cani a recitare) e l'approssimazione di alcune inquadrature (dove si vede di straforo qualche membro della troupe accidentalmente inquadrato) il film risulta alquanto godibile, siamo comunque di fronte a una delle prime commistioni tra generi diversi, cosa oggi alquanto in voga ma che allora rappresentava sicuramente un'innovazione senza precedenti.   

martedì 9 ottobre 2012

VOCI DAL PROFONDO

(Id. 1991)
Regia Lucio Fulci
Cast Duilio Del Prete, Karina Huff, Pascal Persiano

Un oggettino di difficile collocazione questa pellicola di un Fulci ormai sul viale del tramonto ma ancora straordinariamente attivo. Non propriamente un horror anche se pregno di elementi distintivi del genere, non precisamente un giallo e nemmeno un drammatico ma tutto quanto insieme in un piccolo minestrone (ma sarebbe più giusto definirla una minestrina!) senza sale, certamente non un bel film ma neanche una schifezza.  Mal cagato dai suoi connazionali, ignorato dalla stampa specializzata, il buon Lucio si pone, negli anni novanta, in una sorta di purgatorio del cinema, nascondendosi in piccole e mediocri produzioni dove può comunque divertirsi senza però l'entusiasmo di una volta.
Ecco dunque che questo "Voci dal profondo" tratto da una storia scritta e sceneggiata dallo stesso regista, si presenta come un mediocre film di cassetta dove assistiamo ad una lotta per l'eredità del cinico Giorgio Mainardi che, un bel giorno, muore improvvisamente per un'emorragia interna ma i suoi pensieri continuano a fluttuare nell'aria cercando disperatamente la verità attraverso l'amata figlia Rosy, tutto questo prima che il corpo sepolto venga progressivamente divorato dai vermi.
Ovviamente la ragazza scoprirà uno scontatissimo complotto della matrigna, inutile dal momento che prima di morire il Mainardi aveva nominato come sua unica erede proprio l'adorata Rosy.Più che nella trama vera e propria l'horror fulciano esiste attravero flashbacks e sogni che assalgono i protagonisti, vediamo quindi, sin dalle prime immagini Mainardi che fa all'amore con la moglie Lucy ma viene disturbato dal pianto del figlioletto bastardo, si alza quindi dal letto prende un coltello e va nella stanza del bambino per sventrarlo sotto i nostri occhi. Non va meglio al figliastro Mario che viene assalito in sogno da un gruppo di zombi che lo divorano.

Per il resto si evidenziano sopratutto la staticità degli eventi (ergo non succede un cazzo!) e la banalità dell'impianto giallistico. Nonostante questo il buon Lucio sa ancora come rendere insostenibile un'autopsia (che gira partecipandovi nel ruolo del chirurgo) e a dare vita agli incubi più surreali della mente umana in questa sua penultima opera che ringrazia nei titoli di coda lo scrittore Clive Barker e si conclude con una risata al cimitero, segno che quando si chiude il proprio ciclo vitale è meglio prendere le cose con la giusta dose di ilarità. Da notare la presenza nel cast del mega direttore galattico fantozziano Paolo Paoloni.

martedì 2 ottobre 2012

EL BARON DEL TERROR

(Id. 1962)

Dando un'occhiata veloce alla carriera di Chano Urueta si trovano qualcosa come 117 film diretti dal 1928 al 1973, un'enormità che non stupisce in un mercato prolifico come quello messicano, stupisce invece che l'opera di questi veri artigiani del cinema a basso costo non vengano mai incensati dagli amanti del B movie, sopratutto quando realizzano titoli deliranti e bizzarri come questo "El Baron del Terror", uscito sul mercato estero con il titolo "Brainiac" e dotato di tutte le caratteristiche organolettiche per essere un cult assoluto, un vero e proprio canto del cigno della bruttezza e dell'imbarazzo cinematografico. La trama narra della solita vendetta di un barone pazzo, dedico a pratiche stregonesche nel lontano 1661 dove lo troviamo al cospetto dell'inquisizione incappucciata di nero, giusto per farci un pò paura. Dopo un processo sfiancante (per lo spettatore) il barone Vitelius d'Estera (Abel Salazar)  guarda in alto e subito viene inquadrata la cometa di Halley (evidentemente i processi d'inquisizione a quei tempi si tenevano a cielo aperto).
A questo punto il diabolico barone sferra la sua maledizione che colpirà i discendenti di coloro che l'hanno condannato. Puntuale come un orologio, nel 1961, il nostro cattivello risorge in contemporanea con il passaggio della cometa (che però svanisce!) ma arriva sottoforma di una creatura talmente brutta e malfatta da meritare l'oscar del ridicolo per i prossimi 300 anni. Praticamente il mostro si presenta in completo con cravatta ma al posto della faccia una sorta di volto da diavolaccio con nasone prominente, orecchione a punta pelose e una lingua biforcuta penzolante che infila nel collo delle sue vittime per succhiargli fuori la massa celebrale che il buon barone conserva in una specie di coppa dove ogni tanto ne assaggia una cucchiaiata.
Se fin qui pensate di aver visto il peggio vi sbagliate perchè il barone, oltre a tramutarsi in mostro sa anche ipnotizzare ed il regista per meglio chiarirci stò fatto ogni tanto fa passare un bagliore luminoso sullo sguardo di Vitelius fino alla scena clou, in termini di bruttezza, dove lo vediamo ipnotizzare il marito di una delle sue vittime, avvinghiarsi a lei per baciarla per poi trasformarsi in un mostro e avventarsi al collo con la sua oscena linguaccia, a parte la goffaggine dei movimenti degli attori ad un certo punto si vede chiaramente che al marito immobilizzato sta per scoppiare una risata.
A sorpresa nel finale il regista riesce a buttarci una scena decisamente inquietante quando l'ultima dei discendenti apre la stanza del suo bagno e trova il marito appeso a testa in giù nella vasca. Sul finale irrompono due poliziotti agghindati come Ghostbusters con tanto di lanciafiamme che arrostiscono il demoniaco barone lasciando per terra un mucchietto di cenere e tutte le lacrime degli spettatori, lacrime di disperazione ma sopratutto per il troppo ridere.