martedì 27 marzo 2018

THE FLESH EATERS

(Id. 1964)
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Una piccola perla del cinema indipendente del dopoguerra, questa ghiottoneria di Jack Curtis e Arnold Drake , vero prototipo per tutto l'horror moderno, una fonte a cui si possono attingere la genialità ed estro di chi non  ha mezzi per fare un monster movie ma lo fa lo stesso. In effetti nel complesso il film appare raffazzonato, denso di dialoghi e primi piani, una location gratuita come una spiaggia deserta, luci e lucette realizzate in post produzione ed il nobile tentativo di stupire con rudimentali effetti di gomma. Ma la storia è eccezionale: 

Il film inizia con una sequenza marina che fa impallidire lo squalo  con i fidanzatini che litigano sulla barca poi lui cade in mare e scompare, la tipa si getta in acqua e si trova coperta di sangue, inizia Flesh Eaters e non c'è speranza per nessuno! Poi c'è un pilota che deve trasportare una vecchia attrice alcolizzata e la sua segretaria con l'aereo privato ma hanno un'avaria e finiscono in un isola deserta dove incontrano un sommozzatore che si rivelerà un professore pazzoo assoldato dai nazi per realizzare un'arma segreta capace di sciogliere la carne umana in pochi secondi. In breve i quattro si ritroveranno circondati da un mare ribollente pronto a versare acido su di loro.

Alcune sequenze sono veramente gore per l'epoca, la storia si sviluppa in modo originale anche grazie alla divertita recitazione di ottimi attori sconosciuti come il satanico Martin Kosleck , la vecchia attrice acida e seduttrice Rita Morley o il naufrago hippie Ray Tudor  a cui viene fatta bere la sostanza in una scena chiaramente ispirata ad Hitchcock. La fotografia è stupenda e certe trovate spassosissime (il mostro che si gonfia sotto il telo è palesemente un pallone di gomma) e l'uscita finale del mostro fa tanta tenerezza old fashion. Un film sfortunato a livello di diffusione ma di gran lunga superiore a tante inutilità che ci vengono propinate oggi come fittizi blockbuster.  Piccola nota su Arnold Drake, co-realizzatore di fumetti dark anni '60 come  Doom Patrol e Deadman nonchè scrittore per tanti altri meravigliosi B-Movie come il suddetto.

lunedì 19 marzo 2018

ROBIN HOOD LA LEGGENDA SEXY - UN AMORE LEGGENDARIO

(Id. 1996)
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Una delle pratiche mai passata di moda, nel mercato del cinema porno, è il remake in chiave (..o chiavata?) erotica dei grandi successi cinematografici cosiddetti mainstream. Anni prima della Asylum e dei suoi mockbusters ormai divenuti leggendari, gli studios a luci rosse si ingegnavano per realizzare copie imbarazzanti di film come "L'albero degli zoccoli" (a cui bastava togliere la "i" e aggiungere la "e" nel finale per entrare nel mito) "Terminator" (divenuto ovviamente "Sperminator") o Edward Mani di Forbice (Il più assurdo di tutti "Edward mani di pene"). Nel cestone generale del pornomercato non manca ovviamente l'illustre firma di Aristide Massacesi, al secolo Joe D'Amato, il quale non lesinava di realizzare fiction hardcore, spesso di buon livello. 

 


Nel 1996, visto il successo del film di Kevin Costner dedicato al celebre arciere di Nottingham, Robin di Locksley, meglio conosciuto come Robin Hood, D'amato ne realizza una versione straight to video, destinata al mercato home video dei sexy shop, con l'avvolgente titolo: "Un amore leggendario - Robin Hood la leggenda sexy". La trama, molto semplificata vede il cattivo Principe Giovanni, con l'immancabile tunica regale (che nasconde ovviamente un enorme pene) e il fido sceriffo (interpretato dalla pornostar afroamericana di nome Sean Michaels, piuttosto belloccio almeno quanto legnoso nella recitazione) dedicarsi al rapimento delle belle villiche a scopo sessuale, costringendo i mariti a pagare dazio se vogliono potersi trombare la moglie. Per fortuna che arriva il nostro eroe interpretato da un'altra leggenda del porno, Mark Davis.   

Lo statuario americano non perde tempo e inizia a rubare le chiavi delle cinture di castità per ridare felicità alle coppie di Nottingham e dopo essersi ingroppato la servetta del principe (con cui fa un bel 69 in piedi...da applausi) le infila del sonnifero nella vagina, in questo modo il principe dopo averla leccata si addormenta e il bravo Robin può dedicare le sue attenzioni anche a Lady Marian. La servetta, però, spia ingelosita e decide di raccontare tutto al principe, il quale spodesta Lady Marian e la costringe a diventare schiava di piacere, almeno fino all'arrivo risolutivo di Robin che chiude l'opera con una bella chiavata. Nonostante l'impegno di una produzione Italoamericana, il film si mantiene su standard medi, con parentesi pseudo comiche (come quella del villico al quale portano via la moglie ogni volta che sta per trombarsela), cambi di scena durante le scene di sesso (segno forse che più di un tot i ragazzi non ce la fanno?) e sborrate finali rigorosamente in bocca con tanto di ralenty epico. Ad accompagnare in modo ossessivo tutto il film, una simpatica musichetta medioevale piazzata sulla pellicola in modalità loop nella migliore tradizione del porno di cassetta.

  

lunedì 12 marzo 2018

ATTACK OF THE GIANT LEECHES

(Id. 1959)
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Prodotto da Roger Corman, questo assurdo film di Bernard L. Kowalski (regista di numerosi telefilm degli anni '60 e di un incredibile horror sui serpenti intitolato SSSSSSS) ci propone uno dei mostri più ridicoli di sempre, la sanguisuga gigante, frutto di mutazioni atomiche, che infesta i paludosi acquitrini della Louisiana. Ridicoli perchè si vede sin da subito che le schifose blatte altro non sono che sommozzatori a cui è stata messa una tuta nera con delle ventose, assistiamo quindi, non senza un sorriso, al disperato annaspare di queste creature che, pur prive di arti, riescono a trasportare le loro prede umane in una grotta, pronte ad essere succhiate dei loro liquidi.

Il bello è che le vittime muoiono nel finale, in seguito ad un'esplosione che li fa rotolare in acqua e riaffiorare tutte assieme a riva esangui.  Purtroppo, a parte il divertissement di vedere queste goffe creature spuntare fuori dalle ninfee, il film non offre altri spunti di interesse e si trascina inutilmente verso un piatto happy end con i vermoni che galleggiano cadaveri sull'acqua sconfitti dall'ingegno umano (ma quale ingegno poi, minare tutto lo stagno!). Consigliato per una serata solitaria a meditare su quanto l'invenzione della bomba atomica abbia influito sul cinema del dopoguerra, vista anche la moltitudine di pellicole demenziali, come questa, che hanno proliferato nelle sale fino agli anni '70.
  

lunedì 5 marzo 2018

OLGA'S DANCE HALL GIRLS

(Id. 1969)
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L'unica nota positiva, guardando quest'ennesima produzione dell'infame George Weiss, è che dopo questo non ci saranno più altri film dedicati alla diabolica mistress Olga. Tiriamo quindi un sospiro di sollievo alla fine di una delle serie cosidette "grindhouse" più pallose e ridicole della storia del cinema exploitation. Stavolta il personaggio di Olga viene interpretato da Lucy Eldredge che va a sostituire la sempiterna Audrey Campbell, evidentemente stufa dopo quattro film, di farsi ridicolizzare in questo modo. Riguardo alla nuova Olga possiamo dire che sembra più una Frau Blucher più giovane, a livello recitativo.
Se con la Cambell eravamo a zero, qua scendiamo sotto e di molto. La nuova padrona non fa altro che sfumacchiare e ridere compiaciuta, spaparanzata sul divano in contemplazione di giovani biondine seminude che fanno alla lotta, o limonano duro con qualche ballerino. Stavolta infatti, la nostra dominatrice, gestisce una specie di scuola di ballo che sembra piuttosto il salotto di casa, dove, terminate le danze ci si lascia andare a turpi pomiciamenti che vanno avanti per minuti che sembrano ore in un tripudio di mutandine di pizzo che invadono brutalmente lo schermo. Ad alimentare il ridicolo c'è anche il personaggio di Nick, vizioso socio della mistress, che passa il tempo a fare delle facce da libidinoso veramente oscene, con alzate di sopracciglia, comici ammiccamenti con le labbra, tutto rigorosamente in primo piano.
Come per gli altri capitoli della serie, anche qui non esistono dialoghi ma è tutto raccontato attraverso la voce narrante di una delle sedicenti vittime del diabolico intrigo che sconfinerà nel finale in un rito satanico con tanto di messali truccate da scimmionesse ed uno spadone sacrificale che non verrà comunque utilizzato ma viene brandito con imbarazzante imperizia. La musica al solito è tutta composta da ritmi beat che si susseguono senza soluzione di continuità, anzi a volte interrompendosi bruscamente come un vinile al quale è scivolata sopra la puntina. Fortunatamente il film dura un'oretta scarsa e quindi, tra un pisolino e l'altro, si riesce a raggiungere senza grossi traumi l'agognata scritta "The End".
 

lunedì 26 febbraio 2018

WHITE SLAVES OF CHINATOWN

(Id. 1964)
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Secondo capitolo, benchè primo in ordine di distribuzione, sulla saga della dominatrice Olga, il film si sviluppa più o meno sulla falsariga del primo "Olga's House of shame" con la giunonica Audrey Campbell a farla da padrone in una storiaccia improntata sulla messa in schiavitù di giovani bianche,  spesso e volentieri di costumi non proprio virtuosi quando non dedite alla tossicodipendenza. Il tutto ambientato nel quartiere di Chinatown o meglio le inquadrature di repertorio ci mostrano immagini esterne del celebre quartiere di New York mentre la storia si svolge quasi tutta in anonime stanze e squallidi scantinati dove la nostra protagonista prima travia le sue vittime e poi le sottopone a torture varie con lo scopo di trasformarle in schiave di piacere per il suo boudoir. Anche in questo capitolo il regista Joseph P. Mawra utilizza la tecnica della voce narrante fuori campo, questo per evitare probabilmente l'utilizzo di un fonico in presa diretta (i dialoghi sono praticamente assenti) e di limitare la cagneria degli attori  talmente elevata che, in alcune scene,li vediamo sghignazzare come matti invece di  esprimere la sofferenza richiesta dal copione. 

La Campbell strabuzza gli occhi compiaciuta di fronte alle sue prede, legate alla cazzo di cane (i nodi con cui vengono serrate ai polsi e alle gambe sono praticamente sciolti), alcune vengono infilate tra un paio d'assi modello "palo della vergogna medioevale", ad una tizia cercano di schiacciarle la mano sotto ad una pressa anche se l'effetto scenico è talmente rozzo che la pressa si ferma a 5 cm dalla mano lasciandola libera di fingere visibilmente di venir schiacciata. Ogni tanto qualche ragazza butta fuori una tetta in modo peraltro gratuito mentre striscia per una stanza dove c'è quasi sempre lo stesso coglione che sembra essersi svegliato da poco, mentre altre giovincelle si dedicano a fumare oppio o a iniettarsi eroina nelle vene, senza peraltro darsi la pena di infilare l'ago nel braccio.  

Insomma il film va avanti così per poco più di un'ora senza particolari guizzi se non quelli espressi dalla rozzaggine della messa in scena, con un ritmo lento e agonizzante ed una colonna sonora che cambia pezzo in mezzo alla stessa sequenza senza alcun nesso logico, come se uno ad un certo punto si accorgesse che il disco è finito ed è necessario girarlo sul piatto. Abbiamo  anche un abbozzo di scena lesbica ma rimane un abbozzo e basta, poi ci sono le solite tipe appese a testa in giù o crocefisse mentre la telecamera indugia vogliosa cercando parti del corpo proibite. Procediamo quindi stancamente verso la fine del film ansimando con terrore nell'ipotesi di spararci anche il terzo capitolo Olga's Girl con almeno la consolazione che il quarto capitolo "Olga Massage Parlor" si considerato perduto (ma forse perchè nessuno si è mai dato la briga di cercarlo). Produce George Weiss (che fa anche un piccolo cameo psichiatrico) il quale ci aveva già regalato un'altra perla dell'exploitation americana con il mitico "Glen or Glenda" esordio alla regia di un uomo che non ha bisogno di presentazioni: Ed Wood.