giovedì 16 maggio 2024

FUNNY FRANKENSTEIN aka AGNESE E…(1982)

Regia Alan W. Cools (Mario Bianchi) 

Cast Mark Shannon, Aldo Sambrell, Laura Levi 

Parla di “impiegati allupati rispondono ad un annuncio e si ritrovano in mezzo a satanisti ancora più allupati di loro” 

Gola profonda meets Rocky horror picture show? Senza andare a scomodare due classiconi nel loro genere, possiamo senz’altro definire questa fatica di Mario Bianchi come un fulgido esempio di monnezza risorta dalle pieghe del tempo. Realizzato dal regista nel suo breve periodo sexy-horror (quindi subito dopo “La bimba di Satana”) con lo pseudonimo Alan W. Cools (anche se pare che il film lo realizzò per intero Luigi Petrini), il film conteneva numerose scene pornografiche ad oggi irreperibili nella versione integrale, per cui bisogna accontentarsi di una versione edulcorata, mutilata di tutti i peni in vista (fortunatamente la mutilazione riguarda solo l’ambito visivo!) ad eccezione del finale dove i due protagonisti Mark Shannon (Al secolo Manlio Cersosimo) e Aldo Sambrell, dopo ore di sesso sfrenato, possono lasciare a riposo i loro membri sfiniti. 

Nonostante la realizzazione risalga ai primi anni ottanta, il film fu distribuito solo dieci anni dopo sfruttando il visto censura de “La dottoressa di campagna” uscendo, per l’appunto, con il titolo “Agnese e…la dottoressa di campagna” che, se si guarda l’opera, non c’entra un beneamato cazzo di niente. La storia parte all’interno di un normale condominio dove lo spagnolo Sambrell (qui in un ruolo inedito essendo l’attore specializzato nel genere western) si reca in una specie di casa d’appuntamenti dove una bionda lo costringe a fare sesso indossando indumenti femminili. Lo segue Mark Shannon, invidioso della sfrenata attività sessuale del collega. Qui il Bianchi ci piazza a tradimento alcune scene saffiche che non hanno alcun senso se non quello di implementare il carico sessuale dell’opera. Shannon e Sambrell lavorano entrambi in uno studio di pubblicità dove bullizzano Agnese, una collega dai modi rigidi e casti. Mentre Shannon e un altro collega un pò hippy si dedicano ad attività voyeuristiche, il prode Sambrell si fa una bella sveltina nella sala oscura con una collega ninfomane che, dopo la scopata si concede, non ancora appagata, un po' di sano autoerotismo sia prima che dopo essersi fatta il bagno. 

Queste atmosfere bucoliche però, prendono una piega inaspettata quando Sambrell decide di rispondere ad un annuncio pubblicato sulla rivista “Intimità”. Shannon insiste per seguirlo e i due si ritroveranno a Villa Lucifera in un guazzabuglio infernale dove si celebrano riti satanici accompagnati dalla musica di Shining e nel contempo teste di mostri decapitati rotolano dalle scale mentre un tizio vestito come un pellerossa sfodera un enorme fallo posticcio. Mentre cercano una via d’uscita, i due incontrano una sorta di cameriera mascherata, la quale reca sul sedere l’invito a seguirli per poi sfondarli a colpi di sesso senza interruzione. Sorpresa! Sorpresa! La cameriera non è altri che la loro collega Agnese che, dopotutto non è così casta come vuole apparire. Tra commedia, horror e pornografia, il film non riesce a funzionare in nessuno dei tre generi, troppo rozzo e malfatto, quasi peggio delle commedie pierinesche. Almeno si trovasse la versione integra potremmo consolarci con un porno vero e proprio e non con questa versione in cui l’unico Frankenstein citato nel titolo è proprio la pellicola, mutilata e ricucita senza alcun riguardo per lo spettatore. 

giovedì 9 maggio 2024

DRACULA (THE DIRTY OLD MAN) (1969)


Regia William Edwards 

Cast Vince Kelly, Ann Hollis, Billy Whitton 

Parla di “Vampiro ipnotizza licantropo per farsi portare la cena a casa mentre il doppiatore si fa I cazzi suoi allegramente” 





La sua disgrazia fu anche la sua fortuna, poiché se il sonoro del film non era così schifoso al punto da dover essere rifatto completamente in post produzione dal regista William Edwards, probabilmente nessuno, oggi annovererebbe tra i cult più esagerati questo Dracula (The dirty old man). Infatti, se nelle intenzioni della produzione il film doveva essere un horror a tinte erotiche, il doppiaggio raffazzonato e scazzatissimo inserito successivamente, lo trasformò in un film comico ed è questo l’unico motivo per cui ricordare questa assurdità sexploitation, un soft-core ridicolo reso ancor più ridicolo da un commento fuori campo di un unico doppiatore che cambia voce a seconda dell’attore da doppiare in scena al punto che tenta di imitare le voci femminili con suoni da cornacchia gracchiante. Ogni tanto sembra, poi, che vada per i cazzi suoi (ma non è solo una sensazione), divagando in pensieri totalmente estranei a quello che succede sullo schermo quando non è completamente fuori sincrono.

L’introduzione è memorabile, con una lunga inquadratura su un gruppo di colline al tramonto e una voce fuoricampo che ripete ossessivamente “behind the blue hills behind the blue hills behind the blue hills….”. Il weirdo prosegue con il conte Alucard (Dracula al contrario...che  cosa innovativa!!!!) che si alza da una bara il cui coperchio si solleva a comando grazie a cavi (mica tanto) invisibili, spuntano di seguito, dei pipistrelli fatti con cartone pressato ondeggiati sul soffitto di roccia e un viaggiatore di commercio chiamato Jeckyll che cerca una toilette (eh beh! Qui entriamo nel sublime!). Siccome ha bisogno di un servo che gli porti a domicilio le sue vittime, il conte ipnotizza l’uomo e lo trasforma in un orribile licantropo con capelli rasta, dei guanti di pelle a tre dita e un muso che sembra un incrocio tra un porco e una iena. Il licantropo inizia quindi a catturare le prede femminili per il suo padrone il quale le lega a pali di legno, le spoglia con dovizia e ne succhia il sangue, ovviamente mordendole alle tette. 

Intanto il licantropo, evidentemente stufo di fare il rider per il conte, assale una giovane direttamente in casa, ammazza il fidanzato e si trastulla con la donna dopo averla massacrata (l’effetto splatter è dato più che altro da generose manate di vernice rossa sulla faccia degli attori). Questa tecnica di ammazza e stupra evidentemente piace parecchio all’uomo lupo visto che ad un certo punto inizia a contendersi l’ultima vittima (che poi era la fidanzata di Jeckyll) fino alla catarsi finale. Non prima di aver ripreso una lunga fuga della ragazza tra le rocce, ovviamente completamente nuda. Ultimo baluardo del nudie cutie, questo film è divenuto negli anni un piccolo cult di mezzanotte, particolarmente interessante la colonna sonora, un prog rock costante e ossessivo che accompagna indiscriminatamente tutto il film, infischiandosene di quello che succede sullo schermo, il che dopotutto è coerente con il doppiaggio. 


giovedì 2 maggio 2024

IL CASTELLO DI DRACULA

(Blood of Dracula’s castle, 1969)

Regia Al Adamson 

Cast John Carradine, Robert Dix, Jennifer Bishop  

Parla di “giovane coppia eredita castello e vuole sfrattare gli inquilini, peccato che questi siano il conte e la contessa Dracula, con mostri al seguito”  

Realizzato con un budget più alto rispetto agli standard del cinema di Al Adamson, Blood on Dracula’s castle, è uno dei pochi titoli della filmografia di questo scalcinato regista (che ricordiamo morì di morte violenta e il suo corpo fu ritrovato sepolto sotto il pavimento del bagno durante i lavori di ristrutturazione della sua casa a Washington) distribuito nel nostro paese. La realizzazione del film fu possibile grazie all’apporto del produttore Rex Carlton, il quale, purtroppo, impegnò nell’opera soldi di provenienza mafiosa e, non potendone restituire gli interessi, si suicidò dalla disperazione. 

Le informazioni rilasciate dalla Golem Video che ne ha distribuito il dvd in Italia parlano di ambientazioni girate nel ranch di Charles Manson mentre invece la location principale è il pacchiano Shea’s Castle, realizzato dal newyorkese Richard P. Shea nel deserto della California ed ispirato allo stile dei manieri irlandesi. Insomma attorno a questo film, come si può vedere, girano un sacco di informazioni, curiosità ed aneddoti, sicuramente più interessanti e stuzzicanti della pellicola stessa, che è, a conti fatti, un sordido filmetto exploitation di bassa qualità. Nella parte iniziale vediamo l’attrice Vicky Volante in panne con la sua auto, la ragazza si inoltra nel bosco e incontra l’orrendo Mango (Ray Young) che non è un frutto ma un gigante deforme al servizio dei coniugi Townsend (Alexander D'Arcy e Paula Raymond) che sono in realtà il conte e la contessa Dracula sotto falso nome, eternamente giovani e raffinati bevitori di sangue in calici di cristallo prelevato da giovani vittime incatenate in cantina. 

A gestire il castello c’è nientemeno che John Carradine nei panni del maggiordomo George, coadiuvato dallo psicopatico Johnny (Robert Dix), il quale, appena evaso dalla prigione si diverte ad annegare una giovinetta, stordisce un vecchietto e lo fa precipitare, chiuso nella sua autovettura, giù da un dirupo. Non contento, lo psicopatico risente dell’influsso della luna piena ed è pure un licantropo (ma nel film non si trasformerà mai).  In questo allegro menage familiare giungono il fotografo Glen e la modella Liz (Gene Otis Shayne, Jennifer Bishop) una coppia che ha ereditato il castello e vuole sfrattare gli attuali inquilini. Tra riti satanici al Dio Luna e lotte a colpi di mazza ferrata, sarà decisamente uno sfratto movimentato. L’atmosfera del film resta sempre in bilico tra il serio e il faceto, alimentata dalla pacchianeria delle location (gli interni dello scantinato sembrano fatti di cartone pressato) e la grettezza del montaggio che, soprattutto negli inseguimenti finali tra rocce e sterrate sabbiose, risulta brutalmente allungato.

Le scene di lotta rasentano il ridicolo (si veda a proposito l’assurda morte di Carradine) e gli attori recitano con evidente imbarazzo. Eppure il cinema di Adamson, con i suoi colori forti e i retroscena che accompagnano ogni suo film sono exploitation purissima e conservano nel tempo un fascino razionalmente incomprensibile perché insito nel nostro sporco sogno  americano fatto di schifosissimi popcorn al burro salato, seduti in una coloratissima corvette a guardarci un double bill al nostro scalcinatissimo drive-in di fiducia. 

mercoledì 24 aprile 2024

VENNI, VIDI E M’ARRAPAHO (1984)

Regia Vincenzo Salviani 

Cast Giziana Spatrisano, Alessandro Cerquetti, Athena Minglis 

Parla di “sfigatissimi musicisti in cerca di gnocca tentano di vincere un concorso mentre sullo schermo esplodono le note di soavi canzoncine che ci suggeriscono quanto è dolce la patata” 

Non è ben chiaro se il termine “M’arrapaho” inserito nel titolo sia uno stratagemma opportunistico per sfruttare il contemporaneo successo del film di Ciro Ippolito dedicato agli Squallor, se si riferisca al nome della band protagonista, ovvero gli Arrapathis, o meglio ancora alle pulsioni sessuali dei suoi membri, perennemente malati di figa, al punto che anche i testi delle canzoni che dominano la trashissima colonna sonora esprimono totalmente l’urgenza di una sana chiavata. In realtà assistendo alle vicissitudini di questi quattro sfigati, non si giungerà mai a null’altro oltre a qualche casto bacetto da parte delle loro pseudo fidanzate con cui, per tutta la durata del film, non faranno altro che scorrazzare per le vie cittadine, infrattarsi nei parchi o simulare coiti con la voce previo colazione pagata per tre mesi. 

Per il resto i giovanottoni passano il tempo a rubare il pesce che due pescivendoli concorrenti si lanciano sulla piazza cittadina, per poi utilizzarlo come pagamento del noleggio di un sassofono appartenente ad un vecchio bisbetico con la figlia perennemente sdraiata sul letto che i quattro si divertono a sbirciare nascosti dietro la porta. Approvvigionatisi del suddetto strumento li vediamo esibirsi poco convinti presso una sala da ballo durante le lezioni di aerobica dirette da un pederasta che sembra il fratello scemo di Ninetto Davoli. Più interessati ad osservare culi e tette delle ballerine che a suonare, i quattro scemi affronteranno a fine film, persino un concorso musicale dove finalmente la fidanzata del sassofonista, membro della band nemica (i due leader si sfidano all’inizio persino ad una gara di motocross) decide di cantare con gli Arrapathis e sfodera una voce di gallina in grado di sfondare un cristallo di Boemia a chilometri di distanza. Il finale poi è una perla di montaggio dove la figlia del proprietario del sax (che senza soldi si rifiutava di prestarlo per il concorso) ruba lo strumento al padre ed entra nel teatro, dopodichè stacco improvviso e il protagonista si alza dal pubblico suonando meravigliosamente. A questo punto, gli spettatori si sorbiscono una smielatissima canzone in inglese maccheronico ed il pubblico esplode di gioia decretandoli vincitori senza che si faccia manco la fatica di far annunciare la vittoria al deprimente presentatore, la cui faccia sembra appena risorta dalla bara. 


Recitazione da filmaccio alvarovitaliano pierinesco arricchita da sequenze panoramiche messe a casaccio, il film diretto dal regista per caso Vincenzo Salviani (più conosciuto come produttore del resto) e coadiuvato da Mario Bianchi (conosciuto soprattutto per le sue pellicole hard), è un curioso mix tra la commedia giovanilistica in stile Porky’s e il musicarello, dove per l’appunto la componente trash è maggiormente rappresentata dalla colonna sonora. Brani come “Monica”, “La canzone del cacchio”, “Luna donna luna” e il grande successo “Come Sarà” rappresentano il punto di non ritorno del minimal synth pop danzereccio anni ottanta arricchito da testi inenarrabili di cui pubblichiamo volentieri un estratto dalla poetica “Domenica Svortamo” 


Domenica Svortamo, 

Sento odore di scopata 

Finalmente scoprirò 

Come è dolce la patata 

(Ritornello: Meeee laaa 

ìImpossibile non commuoversi di fronte a siffatta poesia mentre sul video scorrono le immagini di un guitto che tenta di cantare in playback con una voce non sua e la banda si scaracolla giù dagli scivoli. 

Questo (non) è cinema, ragazzi! 





giovedì 18 aprile 2024

TOP LINE (1988)

Regia Nello Rossati 

Cast Franco Nero, Deborah Moore, George Kennedy 

Parla di “scrittore alcolizzato scopre astronave aliena dentro un galeone spagnolo e da quel momento viene inseguito da tutti, compreso un Terminator modello Michael Jackson”  

Opera poco conosciuta di un onesto mestierante come Nello Rossati, questo Top Line richiama negli intenti la moda del misterioso Triangolo delle Bermude generata nel 1978 con il successo dell’omonimo film di Renè Cardona Jr. Successo che durò una decina d’anni tirandolo per le lunghe con una serie di titoli in cui si inserivano spiegazioni (a turno) di tipo demoniaco/fantascientifico/avventuroso per quanto riguarda l’inspiegabile evento che fece scomparire navi e aerei nel corso dei decenni precedenti (ci fu persino un gioco da tavolo che probabilmente oggi, a livello di collezionismo, vale una fortuna). Purtroppo il film di Rossati arrivò fuori tempo massimo e quindi non se lo filò nessuno. Peccato perché, almeno per quanto riguarda la prima parte, non è malaccio, ma purtroppo quando si entra invece nel vivo della fantascienza con alieni e androidi che il cinema italiano piomba improvvisamente in ambito trash, soprattutto nella resa degli effetti speciali. 

Il protagonista Ted Angelo (Franco Nero) è uno scrittore italiano alcolizzato che vive a Cartagena, mantenuto dalla ex moglie (la bellissima modella Mary Stavin) a scrivere articoli sugli aztechi. Quando giunge alla sua attenzione l’antico diario di un conquistadores, Ted viene invischiato in una serie di omicidi e si reca sulla montagna dove è stato ritrovato il manoscritto, qui scopre un galeone spagnolo al cui interno vi sono elementi di fattura aliena. Da questo momento il film prende una piega da spy story con inseguimenti e sparatorie tra cui una adrenalinica corsa su un furgone pieno di galline guidato da due contadini ubriachi. Tra un sicario e l’altro spunta anche il Terminator, un gigante che sembra la copia ispanica di Michael Jackson nel video Thriller. L’androide rivela la sua fattura meccanica quando, ad un certo punto, finisce nel bel mezzo di una fabbrica di fuochi artificiali che ha preso fuoco, lo vediamo con mezza faccia ricoperta da cavi e cavetti elettrici con un occhio sporgente, attaccato a una protuberanza di plastica, che si muove disconnesso dall’altro; un mirabile esempio di make-up alla caciottara tipico dei b-movie italiano, in altre parole: una meraviglia! 

Ma se il cinema nazionale difetta di alti budget, non lesina in quanto a fantasia e infatti, a distruggere il mostruoso terminator, ci pensa nientemeno che un toro inferocito. Sul finale poi, possiamo goderci appieno l’apparizione dell’alieno, nascosto in forma umana perché ovviamente sono intorno a noi da millenni e chiaramente ci comandano (tanto per citare anche il contemporaneo Essi Vivono). Peccato che la trasformazione sia l’apoteosi del ridicolo, tra filari viscidi e bava colante, il mostro si rivela con una assurda faccia da mastino napoletano che muore miseramente con un semplice colpo di pistola mentre sta per farsi un boccone del povero Franco. E tornando a bomba sul protagonista, non si può che provare compassione per un tapino che sembra l’Indiana Jones dei poveri, costretto a correre a piedi scalzi su un terreno costellato di cactus e ad affrontare il cattivo George Kennedy che gli da le spintarelle con il cofano dell’auto. Estetica trash a parte, il film diverte e intrattiene il giusto, impreziosito da una trainante colonna sonora che mescola trame poliziottesche a sonorità caraibico-elettroniche. All’estero è stato venduto come Alien Terminator, titolo decisamente opportunista ma che comunque mantiene le sue promesse (gli alieni ci sono, il Terminator anche, che volete di più?). 

giovedì 11 aprile 2024

SHARKULA (2022)


Regia Mark Polonia 

Cast Jeff Kirkendall, Kyle Rappaport, Jamie Morgan 

Parla di “squalo morso da vampiro diventa vampiro a cui il vampiro offre sacrifici umani e alla fine lo spettatore rimane lì a chiedersi cosa cazzo ha appena visto!” 

MASOCHISMO CINEMATOGRAFICO  

sostantivo maschile

Una (neanche poi troppo) rara forma di malattia mentale che ti impone di guardare schifezze che neanche un neonato girerebbe così male, nonostante tu sappia già cosa ti aspetta. 


Non sono un medico ma potrei diagnosticare questa malattia a chi si approccia alla visione di questo obbrobrio firmato dal prolifico Mark Polonia, autore di inenarrabili schifezze dal quale attendiamo con malcelata impazienza anche Cocaine Shark, nato sull’onda del successo di Cocaine Bear. Del resto non potevo dire che non ero stato avvisato, visto che analoghi titoli come Shark Exorcist o Sharkenstein ravvisavano la porcaggine più estrema. In una scena iniziale realizzata con un filtro che dovrebbe evocare l’effetto flashback ma che, di fatto, taglia a metà lo schermo con una specie di tendina sfumata, vediamo il conte Dracula inseguito da quattro sparuti paesani in mezzo ai campi. Giunto davanti a una scogliera, un villico lancia un coltello che colpisce il vampiro in un’esplosione di sangue digitale fumettosamente pop. Il conte cade in mare, uno squalo gli morde il braccio e lui gli azzanna una pinna. Inizio folgorante con una canzoncina in stile surf che ripete fuori tempo la parola Sharkula fino all’ossessione con una voce da tossico appena levatosi dalla bara. La scena si sposta in una cittadina di mare rinominata lovecraftianamente Arkham dove svolazzano sempre gli stessi due gabbiani (perché lo stesso girato viene mandato in loop più volte nel corso dello spettacolo al fine di aumentare il metraggio col minimo sbattimento possibile). Qui John e Arthur, due tizi che sembrano un mix tra cacciatori di frodo e spacciatori di metanfetamina, prendono alloggio da un rincoglionito di nome Renfield (giustamente!) che recita come uno zombie addormentato indossando un ridicolo cappello. 

Nella cantina c’è una tizia vampirizzata e, in una bara coperta di reti da pesca, dorme il conte Dracula che di notte organizza sacrifici umani a Sharkula “master of the red sea”, un cartoccio a forma di squalo butterato con ridicole ali da pipistrello, appiccicato davanti allo schermo su uno sfondo marittimo recuperato da qualche wallpaper animato: una roba devastante! Del mostro vedremo una pinna inserita malamente su inquadrature di mare mosso, due fanali di auto appiccicati sul fondo marino e un muso di squalo di gomma inquadrato davanti alla scena per farlo sembrare gigante, tutto questo senza che regista e membri della crew provino alcuna vergogna per quello che stanno facendo. Poi siccome è necessario raggiungere almeno un’oretta di girato perché si abbia un lungometraggio ai minimi sindacali, Polonia ci piazza ogni tanto una tizia vestita di pelle che piroetta candelabri circolari con tante belle fiammelle, recuperata da qualche associazione di artisti da strada a basso costo.

Nel mezzo ci sono anche due zombie con tanto di saio da monaco e mascheraccia di gomma da scheletro, che durante le sequenze di sacrifici umani, si guardano negli occhi quasi a chiedersi cosa cazzo ci stanno a fare lì. E visto che bisogna allungare il brodo, a metà film il regista ci ripropone pedissequamente il flashback iniziale, perché forse non avevamo ben capito le origini dello squalo vampiro. La recitazione è inesistente condita da interminabili dialoghi, gli attori si muoverebbero probabilmente meglio se qualcuno gli ingessasse mani e piedi, gli effetti fanno rimpiangere le schifezze catastrofiche che passavano fino a qualche mese fa sul canale TV Cielo (e in America su SyFy Channel) con una CGI talmente primordiale che se ritagliavano il cartoncino e lo muovevano sullo schermo con la mano in bella vista, forse avremmo almeno apprezzato l’artigianalità della cosa (neanche quella poi tanto, visto il ridicolo pipistrello di stracci che ogni tanto svolazza sullo schermo).  Tanto poi alla fine, ad attirare pubblico e distributori basta solo il poster e l’idea dello squalo vampiro, tutto il resto è solo un riempimento inutile ma doveroso. 


giovedì 4 aprile 2024

PARENTESI TONDE (2006)

Regia (???) Michele Lunella 

Cast (????????) Raffaella Lecciso, Rocco Pietrantonio, Francesca D’auria 

Parla di “non so! Credo che il mio cervello per salvaguardare la mia salute mentale abbia resettato tutto a fine visione” 

I Più anzianotti forse ricorderanno la (non) recitazione di Tinì Cansino et similia nel programma Drive-In, per tutti gli altri basti pensare ad una qualsiasi televendita mediaset degli ultimi 20 anni (non che quelle prima fossero migliori, eh! Ma una forbice di tempo va data comunque) e si avrà un esempio perfetto della performance recitativa del cast di Parentesi Tonde, anzi Parentesi T()nde come gigioneggia il titolo iniziale dell’esordio alla regia di Michele Lunella. Un film che ha superato in breve tempo tutti i livelli del brutto accettabile, roba che “Alex L’Ariete” sembra un film di Cristopher Nolan al confronto. Si perché qua, se non altro, vige l’assoluto suffragio poiché non vi è un solo attore cane, ma lo sono tutti quanti, in maniera democratica, e tutti riescono a recitare malissimo, anzi a non recitare. 

Se vi è capitato di sentire il termine “non musica” per decifrare un certo tipo di sperimentalismo sonoro, qui siamo di fronte ad un “non cinema” che, purtroppo, di sperimentale (anzi di sperimentato) ha solo un fiasco colossale alle sue spalle. Basti pensare che Lunella era direttore di produzione di “Cient’anne”, esordio al fulmicotone di Gigi D’Alessio al cinema, esordio che contribuì non poco ad espandere il neomelodico campano fuori dai confini regionali. La trama riprende le atmosfere cariche di odio (dello spettatore) tipiche dei cinepanettoni vacanzieri senza un minimo budget per assoldare un paio di comici sfigati da mettere sul cartellone. 

Ci si rivolge quindi ad una serie di figuranti rifiutati persino da L’isola dei famosi, come Giucas Casella (nei panni di un prete), Antonio Zequila, Eva Henger e, dulcis in fundo, la sorella gemella della Loredana Lecciso, Raffaella, come protagonista, dandole pure un ruolo quasi di spessore (come una fetta di salame ben tagliata). Una che cerca un amore non banale e finisce a letto con Mark (Rocco Pietrantonio) animatore fighetto e arrivista che colleziona mutandine nel cassetto. Poi, nelle sottotrame di questo villaggio “Ahiahiahi! No Alpitour?” in cui nessuno vorrebbe soggiornare, c’è pure la romanza sfigata del personal trainer con figlio annesso che tenta di ricucire il rapporto con la madre sotto gli occhi della moretta strainfatuata di lui (Francesca D’auria che almeno è figa!) ma che capisce e comprende e si tiene in disparte (tanto la madre del bimbo è una zoccolona con il volto della Henger). 

Poi c’è il nanetto animatore che fa il pagliaccio e lancia freddure da denuncia, i tres amigos che cantano in napoletano (ma soprattutto in playback), il cuoco finto francese che in realtà dovrebbe (usiamolo questo condizionale!) essere un sosia di Bud Spencer, una misteriosa talent scout che deve scoprire non si sa chi in questo posto di sfigati, un concorso di stelle nascenti messo in piedi tra concorrenti che non sanno fare un cazzo, fotografia televisiva, montaggio con lo scotch e regia inesistente. Anche le location sono tremende, persino il mare sembra fare più schifo di quanto lo sia veramente (mi sembra che il film sia girato in Puglia o giù di lì). 

Insomma, se l’albertone nazionale (parliamo di Alberto Tomba non Alberto Sordi) al suo esordio cinematografico faceva rotolare dalle risate pur senza volerlo, qua invece ci si incazza a morte, specie se si è pagato qualcosa per vedere ‘sta ciofeca immonda che stana il peggio della televisione trash per portarlo sul grande schermo e ampliare dunque l’enfasi della monnezza a dimensioni maggiorate. Ad un certo punto spunta anche Marco Columbro, in una fugace inquadratura probabilmente rubata mentre magari si faceva i cazzi suoi.