venerdì 28 marzo 2025

FRANKENSTEIN ALL’ITALIANA (1975)

Regia Armando Crispino 

Cast Gianrico Tedeschi, Aldo Maccione, Jenny Tamburi 

Parla di “come tentare di rifare Frankenstein Jr. con pochi, pochissimi soldi e soprattutto senza neanche un’idea che sia una” 

Se il titolo alternativo per il film era “Prendimi, straziami, che brucio di passion!”, quello più appropriato per il regista Armando Crispino poteva essere “Dopo il capolavoro, il nulla totale!”. Questo infatti, oltre a essere per il regista biellese l’ultimo film realizzato per il grande schermo, è una chiara marchetta economica realizzata subito dopo il suo capolavoro “Macchie Solari”, un lavoro alimentare adatto per sfruttare (in malo modo) il successo di Frankenstein Junior, uscito l’anno precedente. Siamo dalle parti dell
a solita commedia pecoreccia che ha dalla sua, se non altro, un cast decisamente inusuale per il genere. Se a inizio film ci si può infatti stupire che Alvaro Vitali interpreti un prete strabico, rinunciando ai suoi soliti atteggiamenti alla Pierino, proseguendo vediamo Gianrico Tedeschi, attore più quotato  in ruoli impegnati e soprattutto a teatro, interpretare il Barone Frankenstein convogliato a nozze con una bella americana, stupidina e inverosimilmente illibata (Jenny Tamburi). 

Ma non finisce qui, il cast si arricchisce anche di un Ninetto Davoli nella parte del servo gobbo Igor a cui il mostro toglierà la gobba a suon di manate. In un ruolo minore poi anche Aldo Valletti, indimenticabile protagonista di Salò e le 120 giornate di Sodoma (entrambi quindi provenienti dal cinema di Pier Paolo Pasolini). Troviamo poi Anna Mazzamauro (l’eterna Silvani nei film di Fantozzi) e dulcis in fundo, Aldo Maccione nel ruolo della creatura. Come nel film di Mel Brooks, anche qui Igor pasticcia coi cervelli (mescolandone più di uno insieme), la realizzazione della creatura viene quindi bloccata dall’interruzione di elettricità e si risolve a colpi di palloncini. Il risultato è un mostro dalla faccia bianchiccia, con enormi scarponi neri e una fronte decisamente alta. Ma la peculiarità che risalta più di ogni altra cosa, è ovviamente la prestazione sessuale del mostro, che nel film di Brooks era una gag riuscita ma qui diventa il leit motiv ossessivo-sessuale di tutta l’operazione. 

Le gentil donzelle che finiscono vittime degli appetiti sessuali del mostro, cantano alleluja in segno di estrema beatitudine, questo anche grazie ad un’iniezione di ormoni che l’assistente Alice (Lorenza Guerrieri) propina alla creatura per indurla a sedurre la giovane mogliettina del barone, al fine di togliersela di torno. Tutto si risolve con un trapianto di genitali mostro/barone che porterà entrambi a diventare eunuchi con il dono dell’uncinetto mentre il povero Igor rimarrà l’unico baluardo sessuale del castello. Crispino lascia briglia sciolta al cast dimenticandosi la sceneggiatura (se mai ci fosse tale prezioso reperto), la comicità latita sia per la scarsa qualità delle gag, sia per come vengono realizzate (a tal proposito si veda la penosa scena della colazione dove il mostro sotto la tavola ruba le brioches e spia le sottane). Tedeschi imita Gene Wilder a spron battuta, Davoli sembra sempre non rendersi nemmeno conto di cosa sta facendo e Maccione gigioneggia alla massima potenza. Per fortuna, come sempre, c’è il cast femminile a tirare un po' su il morale. 

venerdì 21 marzo 2025

LA MALDICIÓN DE LA MOMIA AZTECA (1957)


Regia Rafael Portillo 

Cast Ramon Gay, Rosita Arenas, Luis Aceves Castañeda 

Parla di “scienziato criminale vuole recuperare monili aztechi maledetti ma la mummia guardiana non ci sta e lo ciabatta a morte” 


Confortati dal buon successo ottenuto con La Momia Azteca (1957) il produttore Guillermo Calderon e lo sceneggiatore Alfredo Salazar decidono di mettere in piedi in quattro e quattr’otto, un sequel che riprende le gesta della mummia azteca Popoca, esattamente dal punto in cui finiscono le vicende del primo film. Coadiuvati dallo stesso regista Rafael Portillo e dagli stessi personaggi del cast precedente (escluso il Dottor Sepulveda ovvero l’attore Jorge Mondragon, che muore alla fine del primo capitolo) gli autori recuperano le gesta del Murcielago ovvero il cattivissimo Dottor Krupp, malamente arrestato dalla polizia ed escluso piuttosto sbrigativamente dal gran finale. Il pipistrello viene quindi liberato dai suoi scagnozzi dopo una sparatoria assurda in cui i gangster sparano ma dalle armi non esce neanche del fumo e l’unica cosa che ci permette di immedesimarci dello scontro a fuoco con le guardie, sono le braccia dei banditi che simulano il tremore della mitragliatrice ed una serie di effetti sonori piuttosto dozzinali. Siccome poi in Messico sembra che, a quei tempi, non poteva uscire un film senza un lottatore mascherato come protagonista, ecco spuntare l’Angelo, un misterioso supereroe con la maschera del Luchador e una vistosa tutina argentata. L’eroe giunge sul luogo dello scontro con una decappottabile e mena i banditi colpendoli di spalle, ma viene messo fuori combattimento, permettendo la fuga del Murcielago. 

A questo punto il regista, che deve allungare la seppur breve durata del film, ci piazza un lungo riassunto del precedente esperimento ipnotico ai danni della povera Flor (Rosa Arenas) che rivive ancora una volta, l’antico sacrificio al Dio Tezkatlipoka, poi riprende il girato del primo film e riesce così a riempire la prima mezz’ora. Nella successiva mezz’ora, dobbiamo ammettere che non ci si annoia, ci sono scazzottate, un andirivieri di personaggi che entrano ed escono dal covo misterioso del Dottor Krupp, il quale, a furia di dare l’indirizzo a destra e a manca, lo rende famoso in tutto il Messico. Dal canto suo l’Angelo entra ed esce di scena, prendendo sempre un sacco di botte e finendo persino nella stanza della morte dove una botola, sotto ai suoi piedi, rivela serpenti e ragni velenosi. In tutto questo la povera mummia del titolo appare per pochissimi minuti scarsi, dove ciabatta in giro per boschi e strade alla ricerca del pettorale e del bracciale azteco ai quali è stata messa di guardia per tutta l’eternità. Stavolta però il mostro salva capra e cavoli, sconfigge il Murcielago (che ritornerà nel terzo capitolo), recupera i monili e se va in giro pel bosco, accompagnato dal solito pippotto moralistico del bene che sconfigge sempre il male. 

venerdì 14 marzo 2025

THE IMMORAL MR. TEAS (1959)

Regia Russ Meyer 

Cast Bill Teas, Ann Peters, Marilyn Wesley 

Parla di “guardone seriale assume troppo anestetico dal dentista e com
incia ad avere allucinazioni nudiste”  

Esordio ad oggi ufficiale alla regia di Russ Meyer (non considerando The French Peep show girato 9 anni prima ma ad oggi irrintracciabile), questo The Immoral Mr. Teas è il prototipo perfetto del genere nudie cutie per il quale se ne attribuisce la paternità proprio a Meyer. 

Realizzazione in estrema economia (27.000 dollari di budget), nessun dialogo e una trama creata ad hoc solo per mostrarci le bellezze naturali di un gruppo di maggiorate che, per tutto il tempo del film, fanno il bagno in un laghetto, prendono il sole, suonano la chitarra, chiacchierano amabilmente mentre la macchina da presa ostenta silenziosa sulle varie parti anatomiche più pregiate, ovvero il culo e le tette (perché siamo ancora negli anni cinquanta e la rappresentazione vaginale è ancora tabù). Il protagonista è Mr. Teas (interpretato da un certo Bill Teas che, pare, recitasse perennemente in stato di ebbrezza alcolica), un distinto signore di mezza età abbronzato con la paglierina calcata in testa che va al lavoro in bicicletta indossando una ridicola tuta da meccanico rosa e gira per gli studi dentistici consegnando protesi dentali fissate con impressionanti impalcature metalliche. Tra uno studio e l’altro il buon Teas non disdegna di passare il tempo a contemplare i generosi seni dell’infermiera e della segretaria e, nel tempo libero, quelli della giunonica barista. A seguito di un intervento dentistico, il nostro eroe, alterato da una dose massiccia di anestetico, comincia ad avere visioni  in cui si approccia con barista e segretaria completamente ignude, fino a inseguirle sulle sponde di un laghetto dove le sue tre beniamine si dedicano al più puro naturismo. 

Il tutto recitato (diciamo così…vabbè!) senza dialoghi con il solo ausilio di un narratore (tale G. Ferrus) che passa il tempo a snocciolare inutili orpelli nozionistici di varia natura, tanto per fare un esempio, una delle nudiste si mette a fingere di strimpellare una chitarra e il narratore sotto comincia “la chitarra fu inventata nel…ecc. ecc.”, quando ovviamente non ci trita gli zebedei con melense descrizioni dei paesaggi naturali della zona. Insomma tra una divagazione filosofica del narratore e l’altra, la colonna sonora procede impetuosa senza stacchi e soprattutto senza alcuna attinenza con il girato, passando da polke irruente, valzer e marcette assordanti nel più puro spirito del cinema exploitation. Ad oggi si fatica a riconoscere (se non per l’ostentazione voyeristica delle prosperose mammelle protagoniste) il Meyer di Faster Pussycat…kill! Kill! o SuperVixens, in questa specie di demenziale farsa dai ritmi così narcotici che neanche i conetti indossati sul seno da una spogliarellista riescono a scuotere. Se siete amanti di Russ Meyer, il film va visto per completezza, se soffrite di insonnia può essere un valido aiuto ad addormentarsi, se siete amanti del buon cinema, come sempre, evitatelo senza alcuna esitazione. 

venerdì 7 marzo 2025

ZOMBIE ON BROADWAY (1945)

Regia Gordon Doglas 

Cast Wally Brown, Alan Carney, Bela Lugosi 

Parla di “coppia di cloni di Gianni e Pinotto devono recuperare zombie per un locale e si recano su un isola dove scienziato pazzo crea morti viventi a colpi di puntura” 

Il declino inesorabile della carriera di Bela Lugosi si misura dalla ridda di filmetti a cui l’attore ungherese ha partecipato, filmacci di genere horror piuttosto banali (tra cui Notti di Terrore e l’assurdo The Ape Man) e commedie insulse prodotte a seguito del successo de “Il cervello di Frankenstein” con Gianni e Pinotto tra cui ricordiamo (anche se preferiremmo dimenticarle) “Bela Lugosi e il gorilla di Hollywood” (dove invece recita in compagnia dei cloni di Jerry Lewis e Dean Martin) o “Mother Riley meets the vampire”, tutto questo prima della catarsi finale quando l’attore declinerà inesorabilmente in un turbinio di droga e disperazione, confluendo finalmente nel cinema di Ed Wood jr.. Questo Zombies on Broadway precede di tre anni il successo del film con Bud Abbott e Lou Costello ma ad interpretarlo ci sono Wally Brown e Alan Carney, coppia di imitatori del celebre duo, ma decisamente sottotono in quanto a comicità. 

Il film si ispira certamente al classico “L’isola degli zombies” interpretato con successo dallo stesso Lugosi ma più esplicitamente al capolavoro di  Jacques Tourneur “Ho camminato con uno Zombi” da cui recupera l’attore “zombi” Darby Jones e la sua celebre fisionomia del morto vivente caraibico con gli occhi sporgenti . Qui tutto parte da un’attrazione per il lancio di un locale notturno chiamato “The zombie Hut” il cui proprietario è una sorta di gangster. Dal momento che il nero assunto per interpretare il morto vivente non risulta efficace e la presenza di un famoso giornalista all’inaugurazione rischia di trasformare l’evento in un fiasco, il gangster assolda Jerry (Wally Brown) e Mike (Alan Carney) affinchè rintraccino un vero zombie. La loro scalcagnata ricerca li porterà su un isola caraibica dove l’ennesimo scienziato pazzo, il dottor Renault (Bela Lugosi) si diletta a iniettare un siero che trasforma le persone temporaneamente in zombi. Unico vero morto che cammina è invece Kalaga (Darby Jones) rubato agli indigeni del posto e per questo leggermente incazzati con i bianchi del luogo. 

Tra scimmiette che zompettano da tutte le parti e foreste ricreate malamente in studio, le vicissitudini portano al rapimento di Mike a cui viene iniettato il siero. Nella colluttazione che segue il buon Kalaga interpreta male gli ordini di Renault e gli tira una badilata in testa per poi seppellirlo (presumibilmente) vivo. A questo punto, è necessario riportare a casa lo zombizzato Mike sfruttandone la momentanea situazione per esibirlo come morto vivente nel locale. Lugosi appare decisamente sottotono, come del resto in quasi tutte queste sue interpretazioni ad uso esclusivamente alimentare. Si ride poco e male per quasi tutto il film, si salva il finale ma solo perché il film dura pochissimo. 

venerdì 21 febbraio 2025

L’ AMANTE DI DRACULA

(La Fiancée De Dracula, 2002) 

Regia Jean Rollin 

Cast Cyrille Iste, Brigitte Lahaie, Sandrine Thoquet 

Parla di “coppia di occultisti a caccia di Dracula, devono salvare la vittima sacrificale che un gruppo di suore malvagie vogliono offrire in sposa al vampiro” 


Giunto all’alba del nuovo millennio, il cinema surreale, pazzo e sensuale di Jean Rollin si perde nei meandri delle produzioni home video, cedendo parte del suo fascino ad una sorta di autocelebrazione. Questo La Fiancée De Dracula, terz’ultima opera prima della dipartita del regista francese, avvenuta nel 2010, si potrebbe definire un compendio sragionato della sua arte cinematografica, spesso ai limiti della pornografia mescolata con una sorta di surrealismo pseudo autoriale che non ha mai attecchito molto nei confronti della critica più blasonata, mentre invece si è costruito un’aura di regista cult da parte degli estimatori del cinema di serie zeta come il sottoscritto. 

La trama vede un vecchio professione e il suo tamarrissimo aiutante che giungono alle porte di un castello dove spunta una vampira ignuda (Sandrine Thoquet) che prima morde il nano Triboulet (Thomas Smith) e poi si sdraia su una tomba. Dietro indicazioni del nano (che appartiene alla razza dei “paralleli”, sorta di congiunzione tra vampiri e umani) i due si recano in un assurdo convento governato da monache pazze che fumano pipa e sigaro e fanno discorsi ancora più assurdi. L’intento è quello di liberare la bella Isabel (Cyrille Iste) promessa sposa nientepopomeno che al conte Dracula. Ma i buoni propositi dei due eroi vengono messi a dura prova da una serie di donne più o meno sciroccate, tra cui una specie di cannibalessa detta “La Louve” (Brigitte Lahaie) che pasteggia con un neonato in culla.  Per chi si avvicinasse con quest’opera al cinema del regista d’oltralpe, l’impressione sarebbe quella di aver a che fare con un pazzo assoluto o un genio. 

Purtroppo gli estimatori del maestro si trovano di fronte ad un filmetto scialbo, recitato male e girato anche peggio, dove la sensazione generale è quella di riciclare i topoi classici del cinema rolliniano come l’ossessiva presenza dell’orologio a pendolo (recapitato direttamente da Le Frisson des Vampire, suo capolavoro del 1971) che assume, in questo frangente, la funzione di portale verso multiversi paralleli quali ovviamente il buon Rollin, penalizzato come sempre da budget inesistenti, non prova nemmeno a mostrarci. Del resto anche gli effetti speciali latitano, al punto che la trasformazione finale della vampira, bruciata dal sole, sembra un’accozzaglia di make up dozzinale buttato a casaccio, sulla faccia della poveretta. 

Quello che poi fa veramente rimpiangere il passato, è la mancanza quasi totale della componente sessuale, vero e proprio marchio di fabbrica del buon Jean Rollin, qui ridotto a qualche sprazzo di nudo relegato alla sola performance di Sandrine Thoquet (La Iste si accontenta di indossare una specie di vestaglia trasparente ricoperta di fiori da cui s’intravede generosamente). Nonostante qualche buon momento di allegra follia trash (la suora che si mette in testa un imbuto, un’altra che getta il proprio cuore sanguinolento nel fuoco) il ritmo è fiacco, la narrazione si mostra talmente altalenante che risulta quasi impossibile arrivare al finale senza che la noia ci abbia definitivamente sopraffatto. 

venerdì 14 febbraio 2025

LA TOMBA

(The Tomb, 1986) 

Regia Fred Olen Ray 

Cast Cameron Mitchell, John Carradine, Michelle Bauer 

Parla di “profanatore di tombe risveglia divinità egizia vampira che gli infila uno scarabeo nel cuore mentre il regista infila qualcos’altro agli spettatori” 

Uno dei primi film del chilometrico (filmograficamente parlando) Fred Olen Ray, regista, attore, produttore e lottatore professionista, ispirato molto alla lontana al celebre romanzo “Il gioiello delle sette stelle” (da non confondere con La croce dalle sette pietre, eh!) di Bram Stoker. Da molti considerata la sua miglior produzione, il che la dice lunga sulla qualità delle sue opere che purtroppo conosciamo benissimo e, nonostante tutto, non ne abbiamo mai abbastanza. Il cinema di Ray, infatti, è uno di quei guilty pleasure che fa partire l’entusiasmo dal titolo, alza l’asticella quando vedi il poster, godi come un riccio con il trailer e…tutto si sgonfia durante la proiezione del film, che puntualmente, si rivela una poracciata inimmaginabile. 

Regola questa a cui aderisce anche questo “The Tomb”, filmetto insulso, noioso e privo di emozioni. Inizia con un inseguimento aereo/automobile che sembra voler richiamare “Intrigo Internazionale” di Alfred Hitchcock, ma poi spunta Sybil Danning con il viso opportunamente mascherato con un paio di occhialoni da sole che incontra il profanatore di tombe Banning (David Pearson) in quella che sembra essere un’intro alla Indiana Jones con assurda sparatoria. Di seguito il tombarolo e il suo socio si fanno convincere da un vecchio egiziano a entrare nella tomba di Nefratis (interpretata da Michelle Bauer, vera icona del B movie anni ottanta che si divideva equamente tra i peggiori registi in circolazione come appunto Fred Olen Ray o David DeCoteau), una specie di divinità vampiro sepolta viva in circostanze misteriose. Come da copione troveranno l’egizia viva e vegeta con una faccia da zombie e canini allungati. Stranamente però non vedremo mai Nefratis mordere qualcuno per succhiargli il sangue, a Banning gli infila uno scarabeo nel cuore per sottometterlo al suo controllo, al povero Cameron Mitchell gli scaricherà una serie di fulmini fuoriusciti dalla mano (nel finale invece la donna sparerà una serie di raggi laser manco fosse il Millennium Falcon) mentre un’ignara ragazza abbordata in un bar, verrà spinta in un letto pieno di serpenti. 

Pasticciato e confusionario, pieno di dialoghi noiosi, The Tomb alletta nei titoli di testa mettendo in rilievo un cast che sembra di prim’ordine dove, oltre alla Danning e a Mitchell, compare anche John Carradine con un’apparizione talmente effimera da rasentare il ridicolo. Inoltre per essere un horror manca completamente il sangue e le scene Gore ma soprattutto le scene di nudo che hanno fatto la fortuna (si fa per dire) del regista americano. Qui, a parte una piccola sequenza dove un’attrice si toglie la maglietta, sembra di essere alle prese con un film per educande. Se non altro possiamo ammirare, anche se per pochissimo, la grande Kitten Natividad (musa e attrice simbolo del cinema di Russ Meyer) nel cameo in cui (s)veste i panni di una spogliarellista immersa in un tripudio di musica synth-pop anni ’80 con cui il regista ammorba praticamente tutta la colonna sonora del film. 

venerdì 7 febbraio 2025

DEATH WARRIOR

(Ölüm Savasçisi, 1984) 

Regia Cüneyt Arkin 

Cast Cüneyt Arkin, Osman Betin, Funda Firat 

Parla di “superpoliziotto spaccatutto con fisico da pensionato, sgomina banda di ninja aggregati alla mafia italiana, che appaiono alla cazzo con scimitarre di cartone” 

Cüneyt Arkin, che i più strenui seguaci del cinema di serie Z, idolatrano come se fosse il loro messia, produce e dirige (e naturalmente anche interprete assoluto) questo assurdo filmaccio in cui la Turchia diventa Hong Kong e il poliziotto Murat una sorta di superguerriero invincibile incaricato di sgominare una banda di ninja mafiosi in Italia (meno male che ci sono gli ottomani a salvarci!). Il fisico di Cüneyt sembra più quello di un pensionato ultrasettantenne in vacanza, mentre si sbraccia sul bel corpicino in costume della biondissima fidanzata, ovviamente preoccupatissima delle sorti del suo uomo. 

Nel frattempo assistiamo agli allenamenti di questa specie di scuola di karate in cui un cattivissimo vagamente somigliante a Chuck Norris mena fendenti a destra e a manca arrivando addirittura a sgozzare uno con una carta da gioco lanciata di piatto. Le scene di kung Fu sono debitamente accellerate rendendo le sequenze piuttosto simili alle comiche anni ’30, tra urlacci a profusione messi alla rinfusa, musiche rubate senza pietà dalla colonna sonora di 1997: Fuga da New York e zompi acrobatici in cui non si fatica a vedere l’elasticone che fa sobbalzare le comparse. Poi ci sono i ninja, che ovviamente non usano la Katana ma una bellissima scimitarra turca rigorosamente di cartone pressato mentre scompaiono e riappaiono da tutte le parti con esplosioni di fumo che il sonorizzatore del film cerca di spacciarci per esplosioni atomiche. Tutto questo in appena un’oretta e 10 minuti di assoluta confusione, che già recuperare certi film in buono stato è un’impresa (di cui ringraziamo il grande sito Cinema Zoo per il fantastico lavoro di ricerca e sottotitolatura), se poi consideriamo che il film è stato girato con gli avanzi del girato di un precedente action di Cüneyt, intitolato Son Savasci (1982), allora potete ben capire quanto poco coerente sarà la narrazione. 

Infatti, soprattutto nel finale, non si capisce niente ma vale la pena di arrivare fino in fondo, se non altro per godersi l’assoluta unicità dello scontro tra il cattivissimo e Cüneyt. Quest’ultimo, tra una manata e un calcione accellerato, dà fuoco al nemico ma questi, in un maldestro tentativo di copiare anche Terminator, si solleva dalle fiamme per continuare a combattere, peccato che al suo posto, gli effettisti (a tempo perso anche agricoltori immagino) utilizzino una specie di spaventapasseri tirato coi fili e con il quale tentano, senza riuscirci, di concludere con un epico scontro, questo scherzo su pellicola. La lotta tra Cüneyt e il manichino è qualcosa di epocale, non potete dire di aver vissuto pienamente se non dopo aver visto tutto questo!