venerdì 20 dicembre 2024

THE CREEPING TERROR (1964)

Regia A.J. Nelson (alias Vic Savage) 

Cast Vic Savage, Shannon O'Neil, William Thourlby 

Parla di “cosa può accadere quando l’effettista scappa con il costume del mostro alieno e non ti resta a disposizione nient’altro che una vecchia coperta” 

Trovo alquanto ingiusto considerare quest’opera come il “peggior film di tutti i tempi” secondo solo a “Plan 9 from outer space”, anche perché il primo posto, questo film, se lo merita tutto. Parliamoci chiaro, il capolavoro di Edward Wood jr., al confronto, sembra roba da poppanti. Qua la bruttezza rasenta la maestria, al netto di tutte le vicissitudini che la lavorazione del film ebbe a subire. Primo fra tutti, l’addetto agli effetti speciali, il quale piccato dal mancato pagamento delle fatture, ha pensato bene di darsi alla macchia portandosi via anche il costume del mostro e costringendo il povero Vic Savage (protagonista e regista con lo pseudonimo A.J. Nelson) a ripiegare su vecchie coperte e pelli d’animale.

In questo modo fu possibile realizzare l’irrealizzabile, la più ridicola creatura aliena di sempre, una specie di torpedone di stoffa al cui interno ciondolavano due povere comparse totalmente ignare della direzione da seguire, con tanto di testone penzolante pieno di tubicini, zampette di stoffa e un buco nel mezzo in cui venivano infilate a forza le vittime. Come se non bastasse poi, la scoperta a fine girato, della perdita dell’audio, il che obbligò sempre il povero Savage (che leggenda vuole montò il film da solo, in una stanza d’albergo, con una moviola senza sonoro) a ripiegare su una voce narrante e pochi, sparuti, dialoghi, registrati con la cornetta telefonica. 

Il risultato è che il film ci viene costantemente spiegato da Larry Burrell (manco accreditato!) il quale non lesina in dettagli cui non frega un cazzo a nessuno come un assurdo pippone moralistico sulle gioie dell’amore tra Savage e la neo-mogliettina Brett (Shannon O'Neil) su un divano mentre il collega poliziotto li guarda imbarazzato. Il film, inizia infatti, con il rientro dalla luna di miele del vicesceriffo Martin e il concomitante atterraggio (praticamente la ripresa mandata al contrario della partenza di un missile americano) di un’astronave aliena. Giunto sul posto, lo sceriffo ha la malaugurata idea di infilarsi nello scafo e finire malissimo (almeno dalle urla), poi vediamo il nostro adorato lumacone alieno ciondolare nei boschi e inghiottire una ragazza abbandonata sul prato dal fidanzato pusillanime. Arriva il Dr. Bradford (William Thourlby) esimio scienziato esperto di comunicazioni con gli extraterrestri (come gentilmente ci fa notare la voce narrante) anche se, al lato pratico non ha mai comunicato con nessun alieno prima d’ora. Infilatosi nell’astronave (che i primi sospetti vedevano addirittura come velivolo sovietico) l’aitante luminare scopre che c’è un alieno legato al suo interno, in mezzo a quello che sembra un magazzino di vecchie radio usate (Ah! L’incredibile tecnologia aliena!). Il mostro, nel frattempo, cammina per i boschi con una lentezza da cavare la pelle ma nonostante questo riesce a papparsi una giovane casalinga dal vestito improponibile, un ragazzino saltellante e il suo nonno trippone. Ma la sua cavalcata (lenta ma inesorabile e condita da suoni e versacci che sembrano pernacchie) non si arresta e irrompe ad una festa dove il regista ci propone per mezz’ora le stesse due riprese di ragazzi che ballano il twist per poi caracollare nel boschetto dei pomicioni dove ribalta due volte un’auto tutta pasticciata (nella prima rovesciata vediamo il cadavere del guidatore, nella seconda anche quello di una ragazza che magicamente è comparsa dal nulla). Sul finale arriva l’esercito ma vengono miseramente inghiottiti in massa dall’alieno in un bailamme di rara comicità dove vediamo i soldati cadere uno sopra l’altro mentre indietreggiano davanti alla mostruosa coperta. 

Segue poi una confusione incredibile dove un sergente sta per lanciare una granata sul mostro, inciampa e ruzzola per terra. Poi lo scienziato inciampa e cade a terra a sua volta (buona la prima eh!), si infila, strisciando, nello scafo e, senza motivo, ne esce tutto bruciacchiato e insanguinato. Poi tocca a Martin entrare nello scafo e cominciare a martellare dappertutto per evitare che il computer di bordo invii i dati sugli esseri umani (si perché si scopre che i due alieni inglobavano le persone per analizzarle, mica per mangiarle..eh!) ma fallisce miseramente. Per fortuna ci pensa il Dr. Bradford in punto di morte a darci una nota positiva, asserendo che solo Dio sa cosa può succedere in futuro. Di sicuro noi non sappiamo cosa accade al buon Vic Savage dopo la fine della lavorazione. Accusato di frode da più parti, il regista scomparve misteriosamente anche se, notizie successive, lo danno morto a 41 anni per insufficienza epatica. Di sicuro questo film gli ha fatto rodere il fegato più del necessario e visto il risultato, anche piuttosto inutilmente. 

venerdì 13 dicembre 2024

BLOODY NEW YEAR (1987)

Regia Norman J. Warren 

Cast  Suzy Aitchison, Nikki Brooks, Colin Heywood 

Parla di “gruppo di coppiette fugge da bulletti del Luna Park per ritrovarsi in un albergo fantasma su un isola deserta dove Natale e Capodanno non sono mai finiti” 

L’ultimo lungometraggio della seppur scarna filmografia di Norman J.Warren (autore di quel piccolo capolavoro della fantascienza di serie Z che era “Inseminoid”) sembra il titolo ideale per tutti quelli che, come me, non reggono i capodanni. Segnato da problematiche produttive già minate da un budget striminzito, il film è una sorta di connubio tra Shining (quello turco però), La Casa di Sam Raimi e Philadelphia Experiment, realizzato con attori di scarsa qualità, fotografia inesistente, situazioni paradossali e una deliziosa anarchia che mette in scene un vero e proprio helzapoppin’ di effetti artigianalissimi ed estetica trash oltre ogni perversione. 

Ci sono queste due coppiette al Luna Park insieme al solito sfigato della compagnia di nome Spud il quale, per non reggere il moccolone e trovarsi una compagna, decide di salvare cavallerescamente una ragazza di nome Carol, infastidita da due bulletti attempati a cui si unisce anche il gestore della giostra. Dopo una serie di inseguimenti pazzeschi, il gruppo di ragazzi fugge in mare su una barchetta che però affonda costringendoli ad approdare su un’isoletta, Qui c’è un vecchio albergo rimasto addobbato ancora al periodo natalizio e completamente abbandonato. Qui i ragazzi non tarderanno ad accorgersi che qualcosa non va. Cameriere che appaiono e scompaiono, apparizioni allo specchio, oggetti che si animano e via così fino alla sistematica decimazione del gruppo. Compaiono anche i bulli, che nel frattempo sono giunti con la barca sull’isola, il gestore delle giostre sfonda lo stomaco di una delle ragazze che però si trasforma in una sorta di strega pazza dalla faccia argentata. 

C’è persino un omaggio a Nightmare – Dal profondo della notte con un ascensore le cui pareti inghiottono un’altra ragazza. E poi piatti che volano, coltelli che sfrecciano, pomoli delle scale a forma di uccello che azzannano, involucri di plastica che si traformano in una cosa simile al mostro della palude della Marvel, il tutto senza mai un minimo di tregua. La causa di tutto sembra essere un aereo sperimentale del governo americano precipitato sull’isola durante i festeggiamenti del 1960 come ci illustra il flashback iniziale in cui un gruppo di festanti scompare misteriosamente mentre fanno il classico trenino di capodanno. Warren omaggia esplicitamente anche uno scultone della sci-fi degli anni cinquanta mettendo in scena la proiezione di “Fiend without a face”, omaggio che prosegue successivamente con un bel poster del film appeso ad una parete dell’albergo.

Curiosamente il film sembra quasi privo di colonna sonora, se si eccettuano alcune canzoncine del gruppo Cry No More e qualche inserto elettronico realizzato da un certo Nick Magnus. Di certo non il miglior lavoro di Warren (del resto lo ha ammesso anche lui), resta comunque un bel filmaccio di serie ultra zeta con cui ci si può senz’altro divertire, sicuramente di più che ad un qualche sfigatissimo party di fine anno. 

venerdì 6 dicembre 2024

LA CALDA BESTIA DI SPILBERG


(Helga, la louve de Stilberg, 1977) 

Regia Alain Payet 

Cast Malisa Longo, Patrizia Gori, Dominique Aveline 

Parla di “giunonica dominatrice dirige castello prigione a colpi di frusta ma soprattutto a botte di sesso” 

Nonostante il titolo evochi suggestioni nazisploitation e nonostante il film stesso sia un tentativo alquanto rozzo di clonare il successo di Ilsa, la belva delle SS, in quest’opera gli unici assenti sono proprio i nazisti. In realtà non si capisce bene né l’ambientazione né il tipo di dittatura che viene instaurata all’inizio. Sappiamo solo che c’è un omone barbuto con casacca piena di medaglioni sullo stile di Pinochet, che si trastulla con una serva di colore mentre tiene una riunione con i suoi generali. E’ lecito quindi supporre a qualcosa tipo dittatura sudamericana, anche vedendo le divise dei soldati che ricordano quelle apparse in “Emanuelle in America” nell’arcinoto finto snuff inserito nel film di Joe D’Amato. 

Resta comunque un W.I.P. (women in prison) di provenienza francese costruito (è proprio il caso di dirlo) sul corpo di Malisa Longo interprete di Elsa, giunonica matrona bisessuale dalla frusta facile che, nello specifico, viene incaricata di gestire la prigione/castello di Spilberg (ch
e nell’originale era Stilberg ma la distribuzione italiana lo ha modificato forse per omaggiare il celebre regista) dove vengono recluse un gruppo di prigioniere in casaccona marrone sotto alla quale non portano neanche le mutandine, tant’è che le vediamo dormire nude con le scarpe (sic!), così tanto per facilitare i pruriti lesbo/saffici che inevitabilmente il genere impone. Ogni settimana le ragazze vengono selezionate da un certo doc che ne sceglie una a caso con cui sollazzarsi in cambio di bottiglie di vino ai soldati. Poi arriva Elisabetta (Patrizia Gori), la figlia del capo ribelle Vogel  con cui Elsa tenta di stabilire rapporti sessuali fallimentari. 

Se già la trama non dice nulla di interessante, il film risulta ancora meno attraente, sia per l’assenza di scene sessuali vere e proprie ma solo ridicoli sdrusciamenti nella paglia e qualche smanacciata sul seno, sia per la mancanza di scene violente eccettuata qualche loffia frustata qua e là. Insomma se il tentativo era quello di imitare la Thorne, siamo lontani mille miglia dall’originale. Dulcis in fundo il combattimento finale con i ribelli oltre ad essere montato alla cazzo di cane, è talmente incasinato da far pensare che il regista Alain Payet (noto soprattutto nell’ambiente a luci rosse con lo pseudonimo di John Love) sia andato a farsi una sveltina mentre gli attori correvano su e giù per il fiabesco castello.