Non
c'è niente da fare, il cinema giapponese ha delle sue precise peculiarità,
indipendentemente dal genere a cui attinge. Una di queste è certamente l'essere
sempre fuori dalle righe, spesso creando molta confusione nella trama ma
assolutamente visionario nelle immagini. Nel caso di questo anomalo esempio di
horror nipponico, le basi di riferimento sono decisamente il cinema gotico
europeo, tuttavia il regista Hajime Satô (ricordato per opere pregevoli come
"I mostri della città sommersa" o "Il ritorno di Diavolik) non
rinuncia alla tradizione del sol levante esagerando in maniera sostanziale le
atmosfere macabre di cui impregna la pellicola.
Ecco quindi che, immersa nella
penombra di una ottima fotografia che satura i chiaroscuri accentuando la
cupezza delle inquadrature, si sviluppa una storia di case maledette e
maledizioni ordite dal marito morto della protagonista che si scoprirà essere
una specie di serial killer paranormale in grado di trasmutare nel corpo del
servo gobbo rassomigliante ad una brutta copia di Cristopher Lee ne "La
Maschera di Frankenstein". Vediamo quindi il gobbuto trasformarsi gradualmente
in una maschera kabuki intenta a spogliare e strozzare le giovani donne di
casa. Da tutte le parti si odono urlacci, gemiti, porte che si aprono e si
chiudono da sole, corvi aggressivi, mostri impagliati, cadaveri (realizzati in
cartapesta) nascosti nei pozzi, tutto all'insegna di un allegro caos narrativo
dominato da un continuo viavai di persone che suonano alla porta di casa.
Il
marito morto, dopo essersi infilato un fiore in bocca nella bara in una rara
sequenza weirdo iniziale, si insinua anche nel corpo di una vecchia medium che,
a un certo punto sbava,capovolge gli occhi
e urla come un'ossessa in quella che, a mio avviso, è una delle scene più
memorabili del film (a dimostrazione che non c'è niente di più weirdo di una
seduta spiritica giapponese). Avviandoci verso la fine del film si fatica a
capire i tanti intrecci che il regista ci propone, tra cui un probabile
inciucio tra la protagonista ed il suocero e una serie di morti sequenziali,
fino al consueto rogo purificatore. Nonostante comunque gli eccessi tipici del
cinema asiaticoSatô sviluppa una
confezione di tutto rispetto, dominata da luci spettrali ed un bianco e nero
opprimente, si potrebbe quasi paragonare l'opera al cinema di Antonio
Margheriti se solo ci fosse stata più attenzione alla sceneggiatura. In ogni
caso un filmino interessante che sarebbe anche utile riscoprire. Una curiosità,
nell’edizione italiana il cast compare con pseudonimi inglesi come se,
guardando le prime scene prima dei titoli di testa, non fosse già chiara la
reale provenienza del film stesso.
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