giovedì 25 luglio 2024

AMERICA COSI’ NUDA, COSI’ VIOLENTA (1970)

Regia Sergio Martino 

Cast Giorgio Albertazzi (voce), Guido Gerosa (voce), Gianfranco Vene (voce) 

Parla di “indagine mondo su usi e costumi bizzarri della società americana tanto per mostrare qualche sequenza shock e soprattutto tanta carnazza a stelle e strisce” 

Come per tutti i registi di genere italiani (ma anche all’estero) la filmografia di Sergio Martino è costellata di piccoli capolavori e grandi monnezze, tra commedie sexy, fantascienza, horror e thriller. Ma agli inizi degli anni ’70, quando ancora il genere era gettonatissimo nelle sale, Martino ha esordito alla regia di tre mondo movies, una trilogia di cui questo “America così nuda, così violenta”, rappresenta la conclusione del suo excursus nel genere documentaristico shock. Il leit motiv in questo caso è la scoperta di usi e costumi del popolo americano con particolare attenzione a quelli più bizzarri e scottanti. 

Il risultato è un collage alquanto dozzinale di sequenze, tra verità e finzione, di situazioni pruriginose che rappresentano casi al limite, spesso di minoranze bizzarre e non sicuramente rappresentativi dell’apparato sociale degli Stati Uniti d’America. Si perché nonostante i pippottoni moralistici elargiti dal narratore Giorgio Albertazzi, l’unico intento del film è mostrarci abbondanti nudità e inquadrature shock, meglio se condite da sangue e frattaglie sparse qua e là. L’appeal è decisamente reazionario e moralistico, con particolare accanimento sui poveri hippies che vengono sbeffeggiati e ridicolizzati sin dalle prime sequenze, del resto siamo ad appena un anno dalla strage di Cielo Drive che costò la vita alla povera Sharon Tate e amici vari nella villa di Bel Air, inquadrata clandestinamente dall’esterno e montaggio abbinato di un rituale pseudo-satanico in cui un gruppo di freak decapita una povera gallina facendo colare il sangue sul corpo ignudo di una vittima sacrificale su cui gli officianti si avventano a bere avidamente. 

A seguire balli e canti di una comunità hare krishna con neonati che gattonano in mezzo ai fedeli danzanti e un pasto a base di blatte registrato con dovizia di effetti sonori croccanti per alimentarne il disgusto visivo. La macchina da presa indaga poi su comunità di pellerossa dislocati nel carcere abbandonato di Alcatraz, corse in moto e auto impennate, massacri di conigli appesi per le zampe e capelloni che si tranciano le dita in diretta per evitare di finire in Vietnam. Da sanguinose circoncisioni di origine africana operate clandestinamente attraverso riti tribali si viaggia nella coloratissima Las Vegas alla ricerca di ludopatici rovinati per sempre che vanno a suicidarsi nel deserto passando per anziani abbandonati negli ospizi e barboni accasciati per le strade di New York e improvvisati pittori che si dedicano al body painting a spese di giovani modelle ignude.

E poi raduni modello Woodstock dove si indaga sul consumo di sostanze stupefacenti, battute di caccia razziali, bambole gonfiabili, ristoranti in cui a  servire ci sono cameriere nude, empori dove si acquista sangue (blood bank) e altre amenità dove, tra sequenze palesemente ricostruite e indagini opportunistiche, si sviluppano 90 minuti di montaggio serrato a opera di Michele Massimo Tarantini e una splendida colonna sonora di Bruno Nicolai, unica vera nota d’interesse per un film dozzinale dove si mostra tanto per non dire nulla di nuovo. 

mercoledì 17 luglio 2024

TARZOON, LA VERGOGNA DELLA GIUNGLA

(Tarzoon, la honte de la jungle, 1975) 

Regia Picha, Boris Szulzinger 

Parla di “ peni alieni rapiscono Jane della Giungla per rifare il parrucchino alla regina Bazonga ma Tarzoon non ci sta e comincia a fare casino nella Savana”  

Quello dell’animazione per adulti è sempre stato un genere cinematografico piuttosto complesso con cui era difficile ottenere grandi consensi nell’immediato. Opere come il Signore degli anelli o Fritz il Gatto di Ralph Bakshi sono state considerate dei Cult solo dopo che la loro fama era cresciuta nel tempo, questo perché ancor oggi il pubblico generalista tende a identificare il genere animato come un prodotto per bambini mentre questi film creano un punto di rottura utilizzando l’animazione per fuoriuscire dai canoni della settima arte e definire un qualcosa di unico e spesso incompreso. 

Se poi ci si mette anche il sesso esplicito le cose tendono a complicarsi ulteriormente e infatti, negli anni settanta, con la liberazione dei costumi sessuali e una certa curiosità verso prodotti di nicchia, meglio se sperimentali e anarchici, gli adult animation destavano un certo interesse che ha permesso il proliferarsi di pazzie come questo Tarzoon, opera prima del belga Picha, pseudonimo di Jean-Paul Walravens, che all’estero è un po’ il comprimario di Bakshi per quanto riguarda il genere ma ovviamente in Italia non lo conosce quasi nessuno (e Tarzoon rimane l’unica sua opera distribuita qui da noi). Tra scene di sesso esplicito, sbudellamenti e una robusta dose di humor nero, Tarzoon riprende in chiave parodistica le avventure del personaggio creato di Edgar Rice Burroughs, i cui eredi fecero causa due volte alla produzione  per l’uso illegittimo e degradante del personaggio, al punto che, in America la produzione fece uscire il film con il titolo Shame of the Jungle, omettendo anche dai manifesti qualsiasi riferimento a Tarzan e Jane. 
Del resto non si può certo biasimare chi trova il film un tantinello folle e dissacratorio: elefanti che vengono trapanati analmente, zanzare che si fottono mosche, scimmiette che si masturbano e si chiavano Jane ma soprattutto un esercito di peni giganti che scorrazzano allegramente nella Jungla zompettando sui propri scroti e sparando in giro liquido seminale esplosivo. Tutto parte da un’astronave aliena che atterra in Africa per catturare Jane, il cui scalpo verrà usato dalla
perfida regina extraterrestre Bazonga per ricoprire la sua testa calva, con l’aiuto di due scienziati siamesi. La regina invia così i suoi peni soldato a catturare la donna, nel frattempo delusa delle fiacche prestazioni sessuali di Tarzoon (per fortuna c’era anche Cheeta a dare manforte). 

Dopo aver coinvolto Jane in un threesome, i tre cazzoni portano la donna in questa specie di ridicola astronave (che sembra un mix tra l’astronave trapano di I-zenborg e il dirigibile Hindenburg) dove viene legata ad un tavolo operatorio. Scoperto il rapimento, l’uomo della Jungla si lancia all’inseguimento tra fiori carnivori, esploratori e cannibali rosicchiatutto, c’è persino l’apparizione fugace di Tin Tin che mena crocefissi agli indigeni. Nel doppiaggio americano compaiono nel cast di voci anche Bill Murray e Cristopher Guest.  

venerdì 12 luglio 2024

PIECES

(Mil gritos tiene la noche, 1982) 

Regia Juan Piquer Simón 

Cast Cristopher George, Linda Day, Edmund Purdom 

Parla di ”ragazzino amante dei puzzle cresce e decide di costruirne uno con I corpi di ragazze smembrate a colpi di motosega”  

Nel corso della presentazione di Thanksgiving, la nuova fatica di Eli Roth (Cabin Fever, Hostel, The Green Inferno) tenutasi alla Fondazione Prada di Milano, il regista, parlando di Pieces, si è rivolto al pubblico chiedendo quanti di loro lo stessero per vedere la prima volta. “Quanto vi invidio, è un’esperienza incredibile!” – Ha affermato il regista, e a questo punto, appertenendo io stesso alla categoria dei neofiti, mi sono convinto, nonostante l’ora tarda (il film, come è giusto che sia, iniziava a mezzanotte) a rimanere per la visione. E il buon Eli aveva ragione, cazzo, se aveva ragione! Pieces è davvero un’esperienza unica nel suo genere, uno slasher dove il tasso di ignoranza supera i livelli di guardia e le assurdità (vedete il finale e poi mi fate sapere) mescolate allo splatter estremo e rintuzzate a casaccio lungo il breve corso della pellicola trasformano la visione in un’esperienza al limite del surreale. 

Dopotutto parliamo di un film che parte in tromba con un ragazzino che sta giocando con il puzzle di una ragazza nuda, la madre lo becca e minaccia di buttare via tutto e il ragazzino non trova niente di meglio da fare che spaccare il cranio del genitore e farne a pezzi il corpo. Anni dopo la scena si sposta in un campus di Boston dove, senza neanche darci il tempo di respirare, il regista Juan Piquer Simón ci regala una bella decapitazione con motosega ai danni di una studentella sdraiata sul prato. Come si evince immediatamente, il misterioso assassino in tenuta Baviana (vestito cioè come il killer di 6 donne per l’assassino quindi con cappottaccio e cappellaccio) ma armato di una hooperiana “chainsaw”, si dedica a sua volta al gioco del puzzle ma con corpi umani appartenuti, manco ci fosse bisogno di dirlo, a giovani e bellissime ragazze. 

Le assurdità si sprecano, a cominciare dal fatto che l’intera indagine viene affidata dall’ispettore Frank (Cristopher George) ad uno studentello secchione ma particolarmente capace con le ragazze (già questo stravolge il clichè del nerd da campus) e nonostante il ragazzino sia pure sospettato, viene invitato ad analizzare documenti importantissimi della Polizia. Ad un certo punto irrompe anche Mary (interpretata da Linda Day che era pure la moglie di Cristopher George), una ex campionessa di tennis sotto copertura, la vediamo passeggiare di notte nel parco della scuola e, ad un tratto viene assalita da un cinese che si esibisce in una serie di arti marziali ed altri non è che Bruce Le, controfigura storica del celebre attore. 

Nel cast troviamo anche quella vecchia gloria di Paul L. Smith, celebre (vabbè insomma) per essere stato un po' il clone di Bud Spencer in certi western italiani di bassa caratura. Irresistibile il suo sguardo strabico e le smorfie da maniaco incazzoso che tiene per tutto il film. Nonostante l’ambientazione americana, il film è girato per la maggior parte a Valencia in Spagna, le nudità si sprecano (anche maschili) e le scene gore abbondano, omaggiando in più momenti il cinema di Hershell Gordon Lewis, in particolare l’ultimo omicidio risulta particolarmente ben fatto (soprattutto in termini di prostetica) ma è soprattutto il finale che lascia a bocca aperta, un’ultima sequenza che ti fa uscire dal cinema con quella domanda ormai classica tra gli estimatori: “Ma cosa cazzo ho visto?”. 

giovedì 4 luglio 2024

DIARIO PROIBITO DI UN COLLEGIO FEMMINILE (Horror Hospital, 1973)


Regia Antony Balch 

Cast Michael Gough, Robin Askwith, Vanessa Shaw 

Parla di “nonostante il titolo, non si parla di sesso ma di un mad doctor che riduce in schiavitù giovani capelloni e affetta teste con machete attaccato all’auto” 

Già me li immagino i bavosi pipparoli italiani attratti in massa da un titolo che evoca libidinosi incontri saffici, addensati in un cinemino di provincia col patello in mano, sconvolti dalla delusione dopo i primi minuti del film. Non assisteranno infatti alle pratiche erotiche di dolci teenager in calore, in compenso si godono quel mascellone diabolico di Michael Gough che insegue sulla sua limousine attrezzata con machete attaccato ad una portiera (a guisa di biga romana) due ragazze bendate e intrise di sangue. Sfrecciando accanto, l’auto stacca di netto la testa alle due poverelle, che vengono raccolte in un cestino attaccato anch’esso al veicolo (full optional!!!!). Insomma a stò giro i distributori italiani hanno ordito una colossale truffa al pubblico nazionale, trasformando questo horror inglese, condito da robuste dosi di humor e soprattutto di trash, in una sorta di porcellonaggine falsata. 

Titolato in originale più appropriatamente come “Horror Hospital”, il film di Antony Balch è una stranezza cinematografica che non lascia indifferenti, soprattutto gli amanti del weirdo, perché qui c’è ne in abbondanza. Si parte con un esibizione rock a metà tra The Rocky Horror Picture Show e Il fantasma del palcoscenico, con un tipo vestito da donna che fa il morto. Tra il pubblico il sosia di Mick Jagger, Jason (Robin Askwith), autore del brano, si lamenta per come viene trattata la sua musica, ma il lamento giunge alle orecchie del morto sul palco che risorge e lo prende a pugni. Stressato da questa vicenda Jason decide di prendersi una vacanza e si affida all’agenzia Hairy Holidays (vacanze per capelloni!) gestita da un viscido ometto (Dennis Price) che lo invia ad una magione gestita dal dottor Storm, sul treno incontra Judy (Vanessa Shaw) che si reca anch’essa alla clinica per raggiungere sua zia. 

Dopo una serie di dialoghi assurdi i due raggiungono una stazione ferroviaria deserta in cui l’unica presenza umana è un capotreno dagli occhi spiritati che chiede il biglietto due ore dopo che sono scesi dal treno. Raggiunta la clinica la coppia non tarda a scoprire le stranezze del luogo, anzi gliele si sbatte in faccia subito senza preamboli. Una vecchia ipertruccata (la zia di Judy interpretata da Hellen Pollock), un nano bistrattato, un gruppo di guardie del corpo vestite come motociclisti ed il volto perennemente nascosto nel casco, una serie di giovani pazienti lobotomizzati e, dulcis in fundo, l’uomo merda, ovvero uno strano mostro che sembra proprio ricoperto di una bella spalmata di cacca marroncino chiaro. Sfuggito alle maglie del comunismo sovietico ed accanito sostenitore delle teorie pavloniane (come ci viene gentilmente spiegato in un inutile flashback dove non si vede un cazzo), il dottor Storm (interpretato da un Gough decisamente mefistofelico) si diverte a trasformare giovanotti e signorine in zombie obbedienti ai suoi voleri che, scopriremo sul finale, sono puramente sessuali. 

Decisamente ilare la scena degli schiavi che fanno palestra, ridicoli i corpo a corpo tra Jason, Abraham (il fidanzato di una vittima venuto a cercarla) e i motociclisti, che vengono comicamente lanciati giù dalle balaustre come se fossero stracci vecchi. Non manca anche un bel pantano ribollente di sabbie mobili miste ad acido che ingoieranno i cattivi nel finale. Tra l’altro il film si chiude con una scena enigmatica (che non vi rivelo) che sinceramente non avrà compreso neanche il regista. Scorrevole, adorabilmente camp e assurdo nel suo insieme Horror Hospital è comunque un film che si lascia guardare a occhi e bocca aperti dallo stupore, probabilmente gli spettatori italiani, visto il titolo, si aspettavano di guardarlo anche a patta aperta, pazienza!