venerdì 26 febbraio 2021

DISCO SEX

(1978) 

Regia Jean Rollin 

Cast Jean-Pierre Bouyxou, Cathy Stewart, Agnès Lemercier 

Genere: Musicale, Porno, Commedia 

Parla di “registrazione di un disco sexy trasforma la session in una gigantesca orgia collettiva” 


Mosso da evidenti esigenze alimentari, il regista francese Jean Rollin non disdegnò, nella sua lunghissima carriera cinematografica, di girare qualche porno utilizzando pseudonimi come Robert Xavier o Michel Gentil. Xavier fu utilizzato per la prima volta con questo titolo che si inserisce nel periodo d'oro del cinema a luci rosse, quando l'emancipazione sessuale era al suo culmine. Nonostante l'uso dello pseudonimo, il regista, curiosamente, appare anche con il suo vero nome nella parte di un tecnico del suono nel finale del film ma la cui ombra persiste dominante per tutta la durata. La trama è alquanto pretestuosa, ci troviamo in uno studio di registrazione discografica dove un hippy capellone con gli occhialini alla John Lennon raduna un gruppo di attori amici, chiedendogli di partecipare alle registrazioni di un disco sexy. 

Per aumentare maggiormente l'enfasi del sonoro, il gruppo dovrà avere realmente rapporti sessuali, questo in sostanza il pretesto con cui viene messa in scena per un'ora abbondante una specie di orgia in cui gli attori scatenano la loro energia sessuale, tutto questo mentre il tecnico del suono (che non viene mai inquadrato se non, per l'appunto, nel finale) gira per le coppie impegnate a fare sesso, per registrarne ansimi e godimenti vari. La macchina da presa vola velocemente da un amplesso all'altro mostrandoci una biondona platinata che si dedica dapprima agli amori saffici per proseguire masturbandosi con l'asta di un microfono, proseguire con un pò di anal e chiudere in bellezza con un threesome frettoloso. 

Il resto del cast non è da meno e si dedica con impegno a trombare e sbocchinare senza sosta alternando cunnilings e blowjobs con bella mostra di vagine baffute per gli amanti del porno vintage. Il tutto inframezzato da un'unica pausa dove vediamo uno dei protagonisti dedicarsi a un assolo di pianoforte mentre un'attrice si dimena a quattro zampe sopra lo strumento. Passata la prima mezz'ora però l'assenza di trama e la ripetitività delle situazioni comincia a procurare i primi segni di noia nello spettatore, la colonna sonora passa da un brano all'altro senza soluzione di continuità mentre l'hippy organizzatore della sarabanda, rimasto l'unico vestito, passa da una coppia all'altra per incitarli a dare di più, ad ansimare più forte, ad allargare chiappe e incitare all'accoppiamento. Alla fine il povero tecnico del suono non ce la fa più e si butta anch'esso nell'orgia festante. Ormai ogni pudore sembra essere stato abbandonato al punto che anche la cena finale diventa un baccanale festoso. Il giorno dopo tecnico del suono e organizzatore ascoltano finalmente il risultato di questa sessione e gongolano soddisfatti del buon risultato ottenuto. Carini i titoli di coda dove vengono disegnati degli allegri peni che accompagnano la presentazione di un cast seriamente impegnato a realizzare questo faticoso capolavoro pornografico. 

mercoledì 17 febbraio 2021

HANNA D. LA RAGAZZA DEL VONDEL PARK

(1984) 

Regia Rino Di Silvestro 

Cast Ann-Giselle Glass, Karin Shubert, Sebastiano Somma 

Genere: Drammatico, drugsploitation 

Parla di “discesa negli inferi della droga da parte di una giovane e discesa nei meandri dell’incoerenza narrativa per quanto riguarda lo spettatore” 

Se Christiane F. ambientava a Berlino una turpe storia di tossicodipendenza, la risposta italiana viene ambientata, tre anni dopo, nella libertina Olanda, da sempre meta agognata di chi cerca sesso, droga e turpitudini di facile accesso. Il risultato però, non è decisamente allo stesso livello, complice un Rino Di Silvestro a basso rendimento, un cast che era meglio rimanesse nei fotoromanzi e un montaggio che mette a dura prova tutta la nostra intuitività per cercare di collegare le varie fasi del film una dopo l'altra. Si parte da un vagone di un treno in corsa dove la giovane Hanna, interpretata dalla francese Ann-Giselle Glass (che troviamo nello stesso anno anche in Rats - Notte di terrore del buon Mattei), si sfila le mutandine trasparenti davanti a un grosso ed elegante viaggiatore. Dopo di lui arriva una coppia e nel mentre tutto viene gestito da un vecchietto incravattato che batte le mani come se fosse un direttore d'opera. Scesa dal treno, Hanna va a trovare la madre (Una Karin Shubert inchiattita dal tempo) che amoreggia con un ragazzino efebico passando il tempo ad accusare la figlia di averle rovinato la carriera come attrice. 

Dopo questo bel siparietto familiare, Anna si dirige in un vecchio magazzino abbandonato dove un pelatissimo e inquietante spacciatore che si fa soprannominare "Madre" la induce ai piaceri dell'eroina. A questo punto un brusco cambio di scena la vede elegantemente vestita in un ristorante italiano con un bellimbusto di nome Miguel, dopo cena fanno l'amore e lei gli rivela la sua verginità (ma non si prostituiva sul treno?), dapprima Miguel la introduce nel mondo del cinema a luci rosse, poi la droga bucandola sulla fronte e la manda a fare la mignotta, anche se non si capisce bene perchè, fermata da un cliente, invece di salire in macchina, Hanna va a chiamare una collega e manda lei, senza nessun motivo apparente, dal grassone pagante. Altro brusco cambio di scena e vediamo Hanna su un autobus che viene tacchinata da un altro bellone di nome Axel (il divo dei fotoromanzi d'amore Sebastiano Somma), i due si innamorano ma la doppia vita di Hanna la porterà ancora nei vecchi magazzini, stavolta per farsi arrestare. In prigione dà di matto per la scimmia, inizia a spaccare tutto e si attacca ad un lercio rubinetto cercando di suggere disperatamente acqua per poi ferirsi e giungere al punto di bere il suo stesso sangue. 

Durante l'interrogatorio assistiamo a una scena allucinante, le altre carcerate sfilano dall'ano di una ragazza una supposta di metallo contenente eroina che iniettano in bocca ad Hanna. Miguel intanto minaccia la madre affinchè faccia scarcerare la figlia e dopo averla malmenata la irretisce nuovamente per andare a battere. Axel però la trova e se la porta a casa dove Hanna sbocca dappertutto e in una crisi di astinenza si sniffa la benzina di un motore nautico. Il finale ci porta all'imbarazzante duello tra Axel e Miguel dove il primo inizia a tirare assi di legno contro il secondo, il quale armato di pistola, spara due colpi alla cazzo, cade in mare e muore annegato. Finale con fidanzatini mano nella mano a travolgere piccioni e pippotto memoriale nei confronti di tutte le ragazze meno fortunate di Hanna che non ce l'hanno fatta, aggiungerei a queste anche le migliaia di spettatori che si sono sorbiti questo polpettone ridicolo inferiore solo a roba come "Alex l'Ariete" in fatto di recitazione e delirio narrativo dove i personaggi vivono situazioni fini a sè stesse e la storia abbandona ogni coerenza dopo appena 10 minuti dall'inizio. 

martedì 9 febbraio 2021

HELL HOLE - LA GABBIA INFERNALE

(Hell hole, 1985) 

Regia Pierre De Moro 

Cast Ray Sharkey, Judy Landers, Marjoe Gortner 

Parla “biondona platinata finisce in manicomio dove si sperimenta non si sa bene cosa né perché ma l’importante è soddisfare la fame di sesso del solito scienziato pazzo” 

I film horror ambientati nei manicomi hanno generalmente la stessa identica struttura, c'è il protagonista internato per sbaglio, un direttore ospedaliero sadico e assassino, un eroe pronto a tirare fuori il protagonista dai guai ma soprattutto c'è un luogo segreto all'interno delle cantine dove si svolgono esperimenti atroci e illegali. Nella fattispecie di quest'opera del poco prolifico (Solo tre film in tutta la carriera, ahi ahi ahi!!!) Pierre De Moro il luogo segreto è il buco infernale del titolo dove piomba la malcapitata Susan dopo aver perso la memoria a seguito di una brutta caduta nel tentativo di sfuggire al killer di sua madre. La biondona dalla messa in piega eterna si trova ad affrontare un ambiente ostile pieno di matte che se le danno di santa ragione e infermiere lesbiche che si prendono a cazzotti nelle docce e fanno festini nel fango. 

Come se non bastasse poi la direttrice Fletcher (interpretata da quel donnone inquietante di Mary Woronov) si dedica ad esperimenti di lobotomia chimica insieme al solito professorino di turno ammaliato da prospettive di scoperta scientifica, peccato che il suo obiettivo (come espressamente esplicitato dalla stessa in una scena) è quello di soddisfare la sua fame di sesso (sic!). Non è ben chiaro come questi esperimenti che consistono in una siringona infilata nel collo di giovani malate irrequiete, possano giovare ai suoi appetiti sessuali, in ogni caso la trama si sviluppa come un thriller a tinte forti in cui il regista, gratuitamente, ogni tanto ci sbatte un pò di nudo qua e là arricchendolo di qualche abbozzo lesbico, tanto per richiamare quel pubblico in sala che altrimenti diserterebbe volentieri questa grottesca farsa exploitation. Lentezza assoluta, recitazione ghiacciata e miserrime ambientazioni da sit com low budget anni ottanta condiscono il tutto introducendo la noia più estrema. 

C'è da dire che la sceneggiatura tiene botta mantenendo il film su una struttura solida, ma quello che dà all'insieme una patina trash da prodotto dozzinale che persino i vecchi lettori vhs avrebbero rifiutato, è l'imbarazzante messa in scena con matte che saltellano qua e là come scimpanzè arrapati, guardie ipertrofiche che menano all'inverosimile capeggiate dal faccione inespressivo di Robert D'zar (per capirci quello che interpretava il poliziotto maniaco nella trilogia di Maniac Cop), gabbie di vetro (quelle che tengono prigioniere le pazze all'interno del buco infernale) solidissime per giorni interi ma che alla vista del malcapitato di turno, vengono giù come cristalli. Da guardare solo se avete anche voi un blog di cinema spazzatura da tenere aggiornato tutte le settimane. 

venerdì 5 febbraio 2021

KZ9 LAGER DI STERMINIO

 (Id. 1977) 

Regia Bruno Mattei 

Cast Ivano Staccioli, Ria De Simone, Nello Riviè 

Parla di “infame medico del campo di concentramento nazista, sperimenta a cazzo su esseri umani, meglio se avvenenti donnine” 

Il secondo Nazisploitation di Bruno Mattei è l'esempio perfetto di come il genere, considerato uno tra i più infami dell'exploitation tricolore, abbia in realtà un intento nobile come quello di documentare fedelmente, senza interessi aggiunti, oltre che denunciare in maniera spontanea, gli orrori dei lager nazisti. Tutti sappiamo infatti che, all'interno dei campi di concentramento, le prigioniere erano quasi sempre ignude e, nonostante le privazioni a cui erano sottoposte, si presentavano bionde e bellissime, mostrando spesso e volentieri, con garbata innocenza, le proprie parti intime durante le azzuffate, o quando si stendevano sulle brande. Ma il buon Mattei (pace all'anima sua) va oltre, nell'olocausto finale ci piazza pure un momento di grande pathos con le prigioniere inginocchiate che fanno finta di cantare in coro mentre in sottofondo la colonna sonora ci regala una musichetta celestiale con gli angeli che sottintendono l'impiccagione dei due protagonisti. 

Ivano Staccioli riecheggia, nel cattivissimo comandante del lager di Rosenhaus, la figura del dottor Joseph Mengele, citato nelle didascalie finali del film, tutto intento ad effettuare improbabili esperimenti per creare la razza suprema in attesa della vittoria finale. Un esempio? Congelano un aviatore polacco e sperimentano su di lui lo scongelamento fisico, obbligando due ragazze nude ad avvinghiarsi sul corpo nel tentativo di riscaldarlo. Tentativo che fallisce miseramente, fortuna che interviene una mignotta di Marsiglia a risolvere il problema! Non parliamo poi delle umiliazioni che vengono inflitte alle prigioniere del campo, casualmente infatti quasi tutti i nazisploitation vanno ad indagare nel settore femminile dei lager nazisti. Come ne "La bestia in calore" abbiamo qui un demente ebreo assatanato di sesso che il comandante della guardia scatena come un cane libidinoso sulle donne. Il nostro arrapato, dotato di uno sguardo ed un sorriso talmente grotteschi da lasciare senza parole, passa il tempo a massaggiare le tette di prigioniere alquanto imbarazzate e infastidite. 

Il film non presenta particolari momenti di efferatezza, eccettuate le parti di bambolotti insanguinati messe a casaccio sul letto dell'infermeria a inizio film o qualche asfissiamento a sorpresa ai danni (come sempre) delle prigioniere. Protagonisti "buoni" sono due medici prigionieri, obbligati a seguire i mostruosi esperimenti del Comandante, i quali, ad un certo punto decidono di fuggire approfittando di un attacco aereo notturno. Manco a dirlo, non c'è lieto fine, del resto la guerra è quella che è. C'è però da dire che, rispetto a molti colleghi registi di precedenti Porno-nazi-movie, Mattei ha più sensibilità nei confronti dei temi trattati, alla fine del film, infatti, ci piazza tre belle didascalie informative riguardanti criminali nazisti rimasti ancora impuniti. Come a dire...vi siete goduti culi e tette in questo film? Ricordatevi però che stiamo parlando di cose serie!

martedì 26 gennaio 2021

INVASION OF THE STAR CREATURES

(1962)

Regia Bruno VeSota

Cast Frank Ray Perilli, Robert Ball, Dolores Reed

Genere: Fantascienza, Commedia, Demenziale

Parla di “alieni carota, amazzoni poppute, indiani ubriachi e due marmittoni che cercano inutilmente di fare i comici”

Prodotto da Samuel Z. Arkoff e diretto da quel Bruno VeSota che ci aveva già deliziati con quel filmaccio di The Brain Eaters, quest’assurdo “hellzapoppin’ del brutto senza mezze misure” mescola fantascienza tipica degli anni cinquanta con siparietti comico-demenziali nel tentativo di lanciare sullo schermo l’improbabile duo comico di Frankie Ray (Frank Ray Perilli) e Bob Ball (Robert Ball) che cerca senza successo di copiare il demenziale dei Fratelli Marx e l’idiozia calcolata di Jerry Lewis. Il risultato, ovviamente, non fa ridere nessuno, ma la pellicola offre notevoli momenti weirdo che gli estimatori del brutto hanno, negli anni a venire, rivalutato con ardore nostalgico.  
 
Trattandosi di un film comico demenziale non ci si stupisce più di tanto delle situazioni assurde a cui è costretto ad assistere lo spettatore. I due protagonisti sono dei marmittoni all’interno di un campo militare, la cui prima gag, scontatissima, vede la coppia caracollare davanti alla forza propulsiva di un manicotto antincendio, bruciarsi le chiappe con un sigaro e incastrarsi all’interno di un bidone metallico. L’ufficiale del campo è poi ancora più demenziale a pari merito con la sua segretaria che si mette la maschera antigas quando sente puzza di bruciato all’entrata dei due marmittoni. E così avanti, con questa qualità comica che fa letteralmente cadere i coglioni, si arriva ad una grotta di cartapesta dove i nostri eroi incontrano assurdi uomini carota, letteralmente due comparse vestite con tutine nere attillate, un sacco di juta malridotto in testa e filamenti di mais sparsi per tutto il corpo.  
 
A capo degli alieni due notevoli amazzoni chiamate Puna (Gloria Victor) e Tanga (Dolores Reed), entrambe vestite con improbabili completoni argentati e immancabili reggiseni a punta, all’interno di una ridicola astronave aliena piena di inutili pulsanti ed enormi lampade che fungono da caschi per il controllo mentale. A rincarare la dose vediamo anche una ridicola serra dove vengono coltivati gli uomini carota con vasetti pieni di zampe pelose e artigli minacciosi. Come se non bastasse ad un certo punto spunta anche un gruppo di indiani con cui i nostri due si ubriacano durante il rito del calumet. Alla fine l’amore vince sempre e dona elettricità, quindi ecco l’effetto sonoro della scossa elettrica mentre i marmittoni sbaciucchiano le prosperose aliene. Inutile cercare un senso alla trama, quando si assiste a lanci di pietroni di polistirolo, sgambettate nei boschi e battute comiche senza alcuna logica, ci si può solo prostrare ammaliati di fronte alla bruttezza in pellicola di questo assurdo Z movie che, probabilmente senza conoscerne il reale valore artistico, la MGM ebbe pure il coraggio di distribuire.





giovedì 14 gennaio 2021

LA GUERRA DI STRYKER

(Thou shalt not kill... except, 1985)

Regia Josh Becker

Cast Robert Rickman, John Manfredi, Sam Raimi

Genere: Guerra, Horror, Azione

Parla di “Veterani del Vietnam organizzano una rimpatriata ma si scontrano con satanisti assassini”

Nel periodo d’oro della Namsploitation, accanto al supercapolavoro Apocalypse Now o al pur blasonato Platoon, si inseriscono una serie di pellicole dedicate alla sporca guerra, tutte più o meno decorose, pur se spesso inutili. Tra queste, come un folletto malvagio, si insinua questo filmaccio casalingo, realizzato dalla crew di Sam Raimi, ancora fresco di Evil Dead ma non ancora arricchitosi come negli anni successivi. Scritta nientemeno che da Bruce Campbell (che stranamente non fa neanche un cameo), questa pellicola, ai limiti dell’amatoriale, mescola al suo interno guerra, vendetta privata e horror, il tutto condito da una buona dose di violenza grottesca e qualche spruzzata di splatter rudimentale. Il risultato, manco a dirlo, è decisamente spassoso, merito di una confezione rustica ma scorrevole e quell’attitudine scanzonata che solo un film fatto tra amici, senza pressioni produttive e tanta demenzialità, può dare. 

Basta la presenza di un giovane Sam Raimi nella parte dello psicopatico leader di una setta di satanisti, truccato con una ridicola parrucca semi rasta e denti marci, a meritare da sola la visione del film, la cui produzione è affidata all’amico Scott Spiegel che nel 1989 esordirà alla regia con un piccolo cattivissimo slasher intitolato “Intruder – Terrore senza volto” . L’inizio è ambientato nelle foreste del Vietnam del sud (più verosimilmente nello stesso boschetto dove si svolgerà il resto della storia) dove un gruppo di Marines deve affrontare una missione pericolosa, malamente orchestrata da un sottotenentino senza grandi attitudini strategiche. Nel corso dell’azione, che finirà disastrosamente, il sergente Stryker viene ferito. Lo vediamo l’anno successivo, in panni civili, zoppicante con cagnolino al seguito, mentre tenta di ricostruire i suoi rapporti con l’ex fidanzata.

L’ambiente rurale circostante viene sconvolto dall’irruzione di una setta assassina che segue pedissequamente le gesta della Manson Family, con massacri in case private, contraddistinti da scritte con il sangue inneggianti a mistici bagni di sangue. Nel frattempo gli ex commilitoni di Stryker giungono in loco per un’allegra rimpatriata. Quando la setta rapisce la ragazza del sergente e ne uccide il cane, il gruppo di reduci si arma e inizia la mattanza. Tra sforbiciate negli occhi, impalamenti negli alberi, infilzamenti multipli e scazzottamenti vari, il film non lesina in momenti di puro trash, come il topo morto visibilmente fatto di pezza, gente che cade prima ancora di essere colpita, manichini che esplodono e amenità varie. Pur nella sua fattura low budget, rozza e primordiale, resta comunque un’opera divertente che estremizza il machismo allo stato puro e ci ride sopra senza mezzi termini. Alla regia viene accreditato Josh Becker, altro membro fisso della troupe del primo rutilante Raimi.

mercoledì 6 gennaio 2021

CAPITAN AMERICA

(1990)

Regia Albert Pyun

Cast Matt Salinger, Ronny Cox, Carla Cassola

Genere: Azione, Fantascienza, Avventura

Parla di “Dalle origini al mito di Capitan America fino alla sua disastrosa disfatta, ovvero la realizzazione di questo film”

Fino all’avvento del nuovo millennio il cinema dei supereroi della Marvel era relegato ad una certa produzione a basso costo che conobbe il suo picco più squallido nel pessimo “The amazing Spider-Man” di E. W. Swackhamer. Questo almeno fino al 1990 quando quel matto di Menahem Golan, chiamò Stan Lee e gli disse “Sai che c’è? Voglio fare un film su Capitan America ma non ci ho una lira per realizzarlo per cui come viene viene, eh!” – Inizialmente si doveva assumere il bravo Michael Winner, autore di almeno due capolavori come “The Sentinel” e “Il giustiziere della notte”, ma dopo un travagliato periodo di scrittura, questi abbandonò il campo, anche perché la Cannon, in quel periodo, fallì. I diritti del film furono ceduti alla 21st Century Film Corporation, venne assoldato il povero Albert Pyun, regista da quattro soldi e piccolo maghetto del b-movie d’azione (ricordiamo sempre il suo terribile Arcade del 1993) ed ecco qui, purtroppo, il film. Girato in location della ex-jugoslavia spacciata per Italia, con un cast assurdo dove Ronny Cox (il cattivissimo di Robocop) coabita con Francesca Neri e Michael Nouri (il bello di Flashdance) si affianca a Carla Cassola (una grandissima attrice che ha lavorato molto anche con Lucio Fulci), ma soprattutto abbiamo un protagonista fra i meno appropriati per quel ruolo che si potesse mai scegliere in un casting, ovvero Matt Salinger, figlio del ben più famoso scrittore e totalmente oscuro e mediocre come attore, al punto che questo film rimane, forse, la sua interpretazione più importante. 

Già nelle prime apparizioni si nota subito che il costume non sembra adatto alla sua misura (forse lo avevano cucito per Dolph Lundgren che all’ultimo ha declinato la parte) e i fori per gli occhi sembrano cadere in avanti, poi anche la psicologia del personaggio viene miseramente degradata ad un’americano stupidotto che sembra avere il cervello in un centimetro cubo di formaggio. Non parliamo poi del villain storico di Cap, il teschio rosso, del quale vengono narrate le origini italiane in una notte di Natale della Seconda Guerra Mondiale, quando i fascisti irrompono nella casa paterna e massacrano tutti per poterlo rapire ed adibire a super esperimento segreto mal riuscito. Peccato che, se all’inizio il make-up del teschio sembra ricordare vagamente quello del fumetto originale (va beh, almeno è rosso!), per il resto del film sembra una brutta copia dei gangster usciti da quell’orribile filmaccio su Dick Tracy uscito nello stesso anno. 

La sceneggiatura poi è un vero e proprio scrigno di idee, dal trucchetto di Capitan America di fingere il mal d’auto per fregare la macchina a qualcuno (trucchetto che usa per ben due, dico due, volte) fino all’espediente della registrazione sonora in bobina del massacro in casa del Teschio rosso al fine di ricordargli chi è veramente. Fotografia piattamente televisiva, scene action imbarazzanti tra le quali una sequenza di lotta nelle cantine dove non si vede un tubo, comprimari credibili come lo spazzolone per il water usato per i denti e quel senso di pochezza mirabilmente espresso dal costume del supereroe, il quale pur restando in un certo qual modo, fedele all’originale, sembra uscito da una sartoria per festini carnevaleschi. L’unica cosa che merita è lo scudo, si poteva inquadrare questo per tutto il tempo e il film sarebbe senz’altro riuscito meglio.