giovedì 28 dicembre 2023

THE MEATEATER

(1979) 

Regia Derek Savage (David Burton Morris) 

Cast Peter Spitzer, Arch Joboulian, Dianne Davis 

Parla di “venditore di scarpe apre un cinema ma ci trova dentro un mostro assassino” 

Beh, dalla forchetta impressa sul manifesto e dal titolo originale (letteralmente Il carnivoro) ci si sarebbe aspettato, quanto meno, un film su un mostro cannibale,  invece l’unica cosa che questo addenta per tutto il film (tolte ovviamente le quintalate di Hot dog divorate dagli spettatori del cinema) è un topo morto a inizio della pellicola. Del resto The Meateater non risulta annoverato tra i film cult del cinema horror e il suo regista David Burton Morris (opportunatamente accreditato sotto lo pseudonimo di Derek Savage) non rientra fra gli autori considerati del genere ma proseguirà la sua carriera soprattutto nella realizzazione di scialbe commediole per la televisione. 

Il protagonista è Mitford (Peter Spitzer), un onesto padre di famiglia stanco di percorrere chilometri in giro per l’America come piazzista di calzature. A risolvere le sue frustrazioni è una lettera di un’agenzia immobiliare che gli comunica l’accettazione della sua offerta per acquistare un vecchio cinema abbandonato in un altro paese. Trasferitosi con tutta la famiglia, Mitford mette moglie e figli all’opera  nella ristrutturazione e gestione della sala e assume anche un giovane nerd come proiezionista. Alla prima, dove si proietta un assurdo documentario intitolato Grizzly Safari (qui vengono citati i carnivori del film), un essere misterioso (misterioso mica tanto infatti altri non è che l’addentatopi a inizio film) fulmina il giovane proiezionista e fa spuntare un cadavere essiccato appeso dietro lo schermo. 

La polizia (un paio di ciccioni perennemente affamati di merendine) indagano senza molta solerzia e alla seconda proiezione spariscono anche un ragazzino con una assurda capigliatura e la figlia di Mitford, il quale, invece di preoccuparsi, passa tutto il tempo del film a farsi spuntini e salmodiare sui giovani che sono tutti fatti a modo loro (per giustificare la loro sparizione insomma…). Il colpevole è un vecchietto sfregiato e psicopatico che scambia la figlia di Mitford per l’attrice Jean Harlow, di cui è follemente innamorato. Film a tratti bizzarro e sconclusionato dove l’attore Arch Joboulian interpreta il doppio ruolo del killer sfregiato e del fratello ritardato, ma siccome la qualità vale più della quantità, l’attore non ha più fatto uno straccio di film. Per il resto, tolta la fotografia pessima, le inquadrature sballate e le location deprimenti, The Meateater non si salva nemmeno per la sceneggiatura che progressivamente si riempie di buchi peggio di un gruviera (Tipo la madre che trova la porta del cinema chiusa con il lucchetto e si dispera ma dopo pochi minuti è in sala a salvare la figlia senza darci modo di sapere come ha fatto ad entrare). Fortunatamente nel finale Mitford decide di tornare a vendere scarpe e lasciare perdere il mondo del cinema, cosa auspicabile per tutta la crew del film.  


giovedì 21 dicembre 2023

MY LOVELY BURNT BROTHER AND HIS SQUASHED BRAIN

(1988) 

Regia Giovanni Arduino e Andrea Lioy 

Cast John J. Bridge, Nick Tortone, Bernie Burnt 

Parla di “igienista dentale pazza manovra fratello ustionato per vendicarsi dei pazienti bulli” 

Quando si dice che il tempo migliora la qualità delle cose ci si potrebbe riferire in modo preciso a questo film amatoriale datato 1988 e realizzato in 16 mm da due pazzi (almeno all’epoca) di nome Giovanni Arduino e Andrea Lioy. Il miglioramento ovviamente non riguarda certo la qualità dell’opera stessa quanto l’aura di cult che, negli anni ha smosso l’interesse verso questo assurdo pasticciaccio gore punk underground. Realizzato in maniera rozza e improvvisata, con attori che danno il peggio di loro stessi, effetti artigianali realizzati con quello che si trovava lì in giro, una trama scritta in due paginette che ha il solo scopo di dare un senso all’accozzaglia di immagini disturbate da una pessima copia in vhs che gira da anni sul tubo e che rimane purtroppo l’unica testimonianza di un’opera comunque unica nel suo genere. Già il trovare un Lewis Waters nel cast dei titoli di testa (ovviamente pregno di nomi finti e inventati alla cazzo) fa capire subito il genere di cinema a cui i due schizzati registi e produttori vogliono riferirsi, un cinema povero, poverissimo ed estremo, shockante e ultra gore. 

Purtroppo nemmeno in questo il film centra il bersaglio, il gore e lo shock infatti latitano se non in qualche scenetta dove vengono spruzzate generose dosi di sangue finto. Dove invece il film funziona è il reparto follia e cattivo gusto, sin dalle prime inquadrature vediamo quasi un fermo immagine del produttore (o chi per esso) che ad un certo punto muove le labbra solo per dire che “il film fa schifo” e da qui in poi non c’è possibilità di fraintendimento riguardo agli intenti dell’opera. La storia,  o perlomeno il collante che tenta di dare un senso al tutto, si incentra su Jenny, un’igienista dentale impiegata nello studio di un medico perennemente attaccato alla bottiglia. Capelli a caschetto, occhialoni scuri e risata satanica tirata via con le tenaglie, Jenny  viene bullizzata da un gruppo di deficienti e decide di vendicarsi con l’aiuto di Bernie, il fratello deforme, la cui faccia è celata dietro un cappuccio bianco del Ku- Klux – Klan, al quale la ragazza regala generose dosi di Novocaina per lenire il dolore delle ustioni. Vediamo quindi susseguirsi sullo schermo una serie di originali quanto rozzi omicidi. La prima vittima viene massacrata mentre amoreggia con una bambola gonfiabile, il secondo, che è un tossico, viene ucciso con una multipla overdose che gli fa schizzare sangue fuori dal corpo fino a ricoprirlo completamente. 

Il terzo, dedito a divorare popcorn e guardare un donnone che fa il bagno nuda in televisione, cerca di fuggire ma Bernie, prima gli versa il caffè bollente sulla mano, e poi gli piazza la faccia dentro un’affettatrice di salumi, il tutto con dovizia di particolari ma con una tale imperizia registica da rendere ogni sequenza goffa e assurda. Il momento clou è quando una tizia (una venditrice porta a porta di prodotti da bagno che periodicamente importuna Jenny) muore nella vasca da bagno divorata da anguille assassine con tanto di intervento dello scienziato di turno che interrompe la scena e cerca di spiegarci la natura di questi animali. A indagare sugli omicidi una punk detective alla quale hanno ucciso il padre (che si vede in vari flashback mentre qualcuno, fuori campo, tenta grossolanamente di farlo fuori). Nel finale vedremo le fattezze reali di Bernie, al quale hanno piazzato un’assurdo mascherone realizzato, probabilmente, con la cartapesta, che lo fa sembrare un’enorme cotoletta alla milanese. Ad allungare il brodo del metraggio ogni tanto spuntano esibizioni in sala prove del gruppo post punk The Sick Rose, forse il momento migliore del film. Inedita in Italia, la pellicola ha avuto una piccola distribuzione all’estero ma oggi, come confermatomi da Arduino stesso in una recente chiacchierata su Facebook, il master video è andato perduto per cui, non ci resta che goderci quest’assurda follia in un’unica pessima edizione che, se non altro, enfatizza l’aspetto vintage dell’opera. 

giovedì 14 dicembre 2023

LA GUERRA DEI MUTANTI

(Mutant Hunt, 1987) 

Regia Tim Kincaid 

Cast Rick Gianasi, Bill Peterson, Mary Fahey 

Parla di “cattivone del futuro prossimo impoverito dalla mancanza di budget, tenta di trasformare androidi in assassini ma questi invece iniziano a sorridere come deficienti” 

Se pensavate che con “Robot Holocaust” il regista Tim Kincaid avesse detto l’ultima parola in fatto di trash movie, vi siete sbagliati di brutto. Si perché mentre il regista americano, oggi divenuto un nome di punta nel genere porno gay, spennellava mostriciattoli di gomma e improbabili robot di cartapesta, in contemporanea preparava un altro capolavoro del brutto,  se possibile anche peggiore. Parliamo di Mutant Hunt, altra perla imperdibile per chi pensa che gli anni ottanta siano stati il canto del cigno del peggior cinema trash di genere, uscito da noi in sordina con il titolo “La Guerra dei Mutanti”, “Mutant Hunt” tenta di sfruttare la corrente filmica sulla scia del successo di “Terminator” ma senza il becco di un quattrino, e purtroppo per lui, non tenta neanche di mascherare questa pochezza di intenti. Nelle prime scene c’è Z (Bill Peterson) una sorta di imprenditore del futuro con un vestito assurdo che estremizza la moda delle spalline gonfiate degli eighties. 

Il viscido manager scopre che una certa sostanza inserita nei pacifici androidi operai (chiamati, almeno nel doppiaggio italiano, inspiegabilmente mutanti), li trasforma in assassini e confeziona così un’arma da vendere in giro per il mondo. A contrastarlo ci sono un gruppo di cacciatori di androidi (Blade Runner docet) vestiti con orrende tutine verdi e muscolazzi in bella mostra. Dal canto loro gli androidi hanno tutti un taglio di capelli a zazzera e occhiali da sole mentre sfoderano assurdi sorrisi da deficienti. La cosa divertente è che per tutto il film i robot ammazzano solo le donne mentre i maschi riescono sempre a fargli il culo con improbabili mosse di kung fu. Poi quando gli androidi afferrano una vittima sembra che effettuino una mossa di balletto sollevando in alto per i fianchi le persone per poi buttarle contro il muro o lanciarle fuori dalla finestra. Siccome poi al peggio non c’è mai fine, ai robot viene dato anche il potere di allungare gli arti con sequenze oltre ogni comicità ragionevole. 

C’è anche un cyborg tutto sgarruppato che riesce a parlare e pensare meglio degli altri colleghi più in forma, lo vediamo con la bocca staccata e un lampeggiante in gola che ricorda uno stronzo penzolante. Il tutto si svolge all’interno di una specie di capannone pieno di finestre e balconi in cemento grezzo, un set probabilmente riciclato in qualche ex carcere o roba del genere. Le scene di action, se fossero girate da tartarughe (non ninja ovviamente) sarebbero poi più adrenaliniche, ma Kincaid da comunque il meglio nei dialoghi assurdi del tipo “Ti ho messo una bomba nel collo, se non parli ti faccio esplodere” – “Parlo ma solo se mi togli la bomba dal collo” – “D’accordo ti tolgo la bomba ma poi parli eh!” (Vi lascio immaginare la conclusione della scena più cretina al mondo). Nel finale arriva anche l’apoteosi del ridicolo con un mostruoso androide bendato come una mummia e spacciato inizialmente come la quintessenza dell’erotismo che si rivela di una bruttezza assurda con un faccione da mangiatore di hamburger. Diciamocela tutta, pochi registi hanno osato regalare al cinema tanta pochezza e povertà, fra questi Kincaid è un vero e proprio diamante grezzo. Del resto dai diamanti non nasce niente mentre dalla merda… 

giovedì 30 novembre 2023

STING OF DEATH

(1966) 

Regia William Grefè 

Cast Joe Morrison, Valerie Hawkins, John Vella 

Parla di “inserviente sfregiato tenta il riscatto sociale trasformandosi in un uomo medusa” 

La prima parola che ti viene da pensare guardando questo film è “poraccitudine”, termine coniato nell’antico impero romano per definire la condizione di schiavitù o comunque di indigenza delle persone meno abbienti. La sensazione di povertà nell’opera di William Grefè (regista di Mako, lo squalo della morte e Tartù lo stregone maledetto) è evidente soprattutto nella realizzazione del mostro protagonista, l’uomo medusa, un poraccio col volto deturpato che si trasforma in un sommozzatore zozzone con tanto di pinne da snorkeling, una serie di cordini colorati che penzolano dalle spalle e un’assurdo sacco della monnezza trasparente, gonfiato come un palloncino, da cui si intravedono le forme del volto della povera comparsa che probabilmente ha rischiato di morire soffocata durante le riprese. 

La pellicola appartiene al genere beachsploitation, ovvero quella serie di spettacoli da double bill dei drive in estivi dove coppiette sfigate che non potevano andare in spiaggia si consolavano guardando film pieni di ragazzi che invece in spiaggia ci andavano. La variante beach o surfsploitation, si arricchiva di tanto in tanto di connotazioni horror a basso costo con mostri dalla bocca di salsiccia (The horror at party beach) o umanoidi pesciolati ripieni di alghe di stoffa (The beach girls and the monster). Quello che non mancava mai in questi spettacoli (realizzati tutti dal 1965 fino al 1968) sono la musica surf o twist, come in questo caso, le ragazze che ballano seminude in spiaggia e i fustacchioni con improbabili costumini colorati. Tutti elementi che in “Sting of death” vengono messi abbondantemente in evidenza generando un’estetica kitsch colorata al limite del psichedelico. 

La trama è molto semplice, c’è un gruppo di ragazzi che vengono decimati in modo orrendo, riportando ustioni sul volto e sul corpo, una famigliola, capitanata da un biologo (Joe Morrison) con un orrendo porro sulla fronte, indaga e scopre che il colpevole è un uomo medusa che spunta dall’acqua all’improvviso, più per l’imperizia del montatore che per l’abilità della creatura di cui, per quasi tutto il film, vedremo inquadrate solo le mani (che indossano dei guanti da giardiniere anneriti), le gambe (una tuta da sommozzatore) e ovviamente i piedi (delle pinne da sub). Quello che più sconvolge lo spettatore, è che tutto questo ci viene mostrato nella sua bruttezza senza alcuna vergogna, con un’innocenza quasi commovente, come a dire: “Siamo poveretti e non ci vergogniamo di farvelo notare, anche se il costo del biglietto non cambia!”. 

Ma se superate l’imbarazzo del costume del mostro allora potete anche tentare di restare svegli durante infiniti dialoghi fra improbabili protagonisti e lunghe quanto noiose corse sull’hovercraft in mezzo alle mangrovie per poi godervi finalmente alcune mostruose medusette di gomma rilasciate in mare a danno dei bagnanti che, quando riescono a non ridere davanti alla telecamera, si mostrano 

giovedì 23 novembre 2023

THE SLAYER

(1982)

Regia J.S. Cardone

Cast Alan McRae, Sarah Kendall, Frederick Flynn

Parla di “Artista affetta da incubi va in vacanza su un’isola di merda che è pure abitata da un mostro assassino”

La partenza al fulmicotone delle prime sequenze di questo horror/slasher a basso costo non deve trarre in inganno lo spettatore, dopo pochi minuti da quando la protagonista Sarah Kendall viene abbrancata da un paio di zampe demoniache, ci accorgeremo infatti che non succede più un cazzo. L’esordio al cinema del mestierante J.S. Cardone (che realizzerà una manciata di titoli di serie B fino all’apoteosi nel 2006 con il bruttissimo Zombies – La vendetta degli innocenti) è un horror a basso costo incentrato sulla figura di Kay, (La Kendall in modalità scream queen) una giovane artista con evidenti turbe psichiche derivanti da una serie di incubi da cui è afflitta. 

Il baffuto fidanzato David (Alan McRae) non trova niente di meglio, per tirarla su, che organizzare una vacanza a quattro in una squallidissima isola deserta, dove l’unico sport ammesso è la pesca e l’unico luogo abitato è una casa in legno piuttosto malmessa affiancata da una specie di magazzino per pescatori che, oltretutto Kay ha già visto nei suoi incubi. Siccome al peggio non c’è mai fine, è previsto pure l’arrivo di un uragano che amplificherà il loro isolamento. Dulcis in fundo la presenza di un mostro assassino che è la cosa migliore del film ma che, ovviamente, vedremo solo per dieci secondi dieci nel finale. 

Il resto è di una lentezza ammorbante, con una serie di omicidi ai danni dei quattro attori del cast. David verrà decapitato e qui siamo in presenza di una scena di necrofilia involontaria con Kay che limona nel letto con il fidanzato ma si accorge troppo tardi che sta baciando solo la sua testa avvolta nelle coperte. L’amico Eric (Frederick Flynn) viene letteralmente catturato con una canna da pesca e trascinato in mare mentre la sua ragazza Brooke (Carol Kottenbrook) è presa a forconate nel magazzino. In tutto questo la Kendall trasforma quello che poteva essere un discreto horror in una farsa ridicola con una recitazione che definire fuori dalle righe è quasi un complimento. 

L’attrice, infatti, (la cui interpretazione assurda stroncherà sul nascere la carriera e, diciamolo…grazie al cielo!) strabuzza gli occhioni a livello esagerato, sputa l’anima dai polmoni strillando come una gallina impazzita. Va detto che la trama, per certi versi, anticipa di un paio d’anni le tematiche del sonno e dell’incubo che faranno la fortuna di A Nightmare on Elm Street. La Kendall, infatti, assediata dal mostro, tenta di mantenersi sveglia in tutti i modi, arrivando a bruciarsi le mani con una sigaretta, ma non c’è nulla da fare, perché l’incubo finale, quello che chiude in bellezza tutta l’opera, si rivelerà nelle terrificanti spoglie di un tenero gattino con il fiocchetto lasciando basiti e sconvolti gli spettatori, ai quali non è stata data nemmeno la possibilità di rimanere svegli fino alla fine.

giovedì 16 novembre 2023

MR. VAMPIRE

(Geung see sin sang, 1985) 

Regia Ricky Lau 

Cast Ricky Hui, Ching-Ying Lam, Siu-Fung Wong 

Parla di “Santone col vizietto dell’esorcismo sgomina vampiri e demoni aiutato (male) dai suoi stupidi discepoli” 

Molto conosciuto tra gli appassionati di cinema orientale, un po meno tra gli aficionados del brutto tout court cinematografico,  il film di Ricky Lau è un vero e proprio contenitore exploitation dove la commedia di genere slapstick si mescola con il cinema di arti marziali e l’horror di tradizione cinese. Non a caso la produzione viene affidata all’attore e regista Sammo Hung che aveva già miscelato i tre generi nel suo Encounters of the Spooky Kind (1980) dando vita al genere jiangshi, ovvero portando sullo schermo i vampiri della tradizione flokloristica cinese, quelli, per intenderci, che zampettano in file ordinate e li risvegli solo togliendo dalla fronte una pergamena che reca un sortilegio esorcistico. Ovviamente anche “Geung See Sin Sang” utilizza gli jiangshi a piene mani esponendoli a scene umoristiche decisamente weird dove i protagonisti, per non farsi vedere dai vampiri, sono costretti a trattenere il respiro (che sarebbe poi il cibo essenziale dei morti viventi) esponendosi a smorfie assurde.

Il protagonista assoluto del film è il maestro Kau (Ching-Ying Lam) che contrasta lo stile sbarazzino del film con un aspetto serioso e perennemente incazzato, ma dotato di conoscenze infinite nel trattamento dei vampiri, al punto da essere interpellato dal riccone di un villaggio per risolvere il caso della morte sospetta di un parente. Manco a farlo apposta si troverà ad affrontare un vampiro, anzi una serie di vampiri saltellanti in doppia fila indiana. Ad aiutarlo nelle sue avventure troviamo il tonto Man-Choi (Ricky Hui) succcessivamente vampirizzato dando vita ad una scenetta surreale dove sfoggia lunghi artigli azzurri come fosse un’indossatrice di alta moda. Accanto a Man-Choi troviamo il giovane Chau (Chin Siu-ho) che nell’ultima mezz’ora verrà ammaliato da uno splendido fantasma di nome Jade (interpretata da una Siu-Fung Wong che da sola merita la visione). 

Come impatto visivo Mr. Vampire sta nel mezzo tra Storie di Fantasmi Cinesi e La Leggenda dei 7 vampiri d’oro della Hammer, con un’impronta alla Buster Keaton soprattutto grazie alle performance dei due aiutanti che ne combinano una dietro l’altra. Scopriamo che il vampirismo può essere curato con una miscela di riso lungo, sul quale il vampiro  subisce lo stesso trattamento della luce del sole, apprendiamo che i vampiri possono essere sepolti con la bara in verticale (è anche un bel risparmio di terreno!) e che strofinandosi due foglie sugli occhi si può vedere il reale volto di un ammaliante spettro deturpato con tanto di occhio pendulo.

Non tutte le gag centrano il bersaglio (l’equivoco del negoziante che scambia la nipote del possidente per una prostituta è penoso) e ci sono purtroppo un paio di uccisioni di animali (un gallo ed un serpente) oltre a qualche situazione veramente troppo surreale (i poliziotti che entrano in una grotta e vengono assaliti da una controfigura con indosso un fintissimo costume da gorilla), ma nel complesso la realizzazione è gradevole, con un occhio sorprendente alla fotografia che richiama il gotico occidentale pur con tempistiche decisamente superate. Rimane comunque uno straordinario successo per il cinema di genere orientale, successo che diede il via ad una vera e propria saga conclusasi nel 1992. 

giovedì 9 novembre 2023

EVVIVA LA LIBERTA’

(Mr. Freedom, 1968) 

Regia William Klein 

Cast John Abbey, Philippe Noiret, Donald Pleasence 

Parla di “Supereroe a stelle e strisce giunge in Francia per sgominare eversivi rossi ma non gli andrà tanto bene” 

Perfettamente allineato con i movimenti del cosiddetto Maggio francese del 1968, il film di William Klein è una farsa grottesca che mira a ridicolizzare l’imperialismo americano dell’epoca (visto che poi tale imperialismo è decisamente peggiorato). L’incipit vede una famiglia di neri che nasconde in casa una lavastoviglie appena rubata ma viene subito intercettata dal supereroe Mr. Freedom (John Abbey) che irrompe nell’abitazione sparando da tutte le parti. Dotato del tipico mascellone a stelle e strisce nonché vestito come un giocatore di Superbowl con un ridicolo para-addominali di gomma sulla pancia somigliante ad un intestino in libera uscita, il nostro eroe viene incaricato dal suo capo, il Dr. Freedom (Donald Pleasence) di recarsi in Francia e indagare sulla misteriosa morte del super Capt. Formidable (interpretato dal cantante Yves Montand) e su certi gruppi comunisti sospetti. 

Affiancato dall’affascinante eroina Marie-Magdalene (Delphine Seyrig) e da 25 scalcagnati supereroi (tra cui si intravede ogni tanto anche l’immenso Serge Gainsbourg, peraltro coautore della colonna sonora) all’interno di una caotica palestra piena di orpelli kitsch, Mr. Freedom deve affontare l’assurdo Mugik Man (lett. Il contadino) e il mostruoso Super Mao Mao che è una specie di pupazzo gigante che somiglia a quei gonfiabili installati nei parchi gioco a pagamento. Se all’inizio, la trama assume una confortevole direzione da spy story farsesca, andando avanti nella narrazione il delirio si fa sempre più evidente. Klein utilizza immagini di repertorio nelle scene di massa mentre per gli interni spara a mille i colori tipici della bandiera americana trasformandoli in un vessillo tanto sfarzoso quanto esuberante, con hostess a stelle e strisce che danzano attorno all’eroe in visita al centro commerciale, elmetti in plastica, costumi da wrestler, stivaloni e costumi colorati, il tutto con un’ottica satirica che sembra incrociare l’anarchia esuberante del cinema della Troma con l’umorismo dissacrante dei Monty Python. 

Non sempre si ride (anzi si ride pochissimo in realtà) ma alcune trovate risultano geniali come la distruzione delle città francesi semplicemente mettendo dei segnali sulla mappa della nazione, o il sondaggio che fa scoprire a Mr. Freedom di non essere poi tanto amato (anzi). Philippe Noiret interpreta Mugik Man e si diverte a indossare calzamaglie rosse strapiene di imbottiture mentre il buon Pleasence si limita a comparire nel video orologio del supereroe. Diciamo che, se siete stufi del solito cinema propagandistico americano e volete riderci un po’ sopra, questo è il film giusto, ovviamente con le dovute contestualizzazioni. 

martedì 31 ottobre 2023

THE HUMAN CENTIPEDE (THE COMPLETE SEQUENCE)

 (2009-2015) 

Regia Tom Six 

Cast Laurence R. Harvey, Dieter Laser, Bree Olson 

Parla di “saga completa del millepiedi umano, dal primo prototipo a tre fino ad un intero carcere, tutto in sequenza per quattro ore e mezza da cui nessuno potrà più riprendersi….dopo!” 

Ci sono due modalità per vedere la saga del millepiedi umano realizzata da quel matto egocentrico di Tom Six, la prima è recuperare ogni singolo film è guardarselo come se fosse un’opera a sé stante, la seconda invece è accaparrarsi lo splendido steel box in vendita sul sito personale del regista, che peraltro contiene la full sequence, ovvero una versione di quattro ore e trenta in cui tutti e tre i film della trilogia sono collegati tra loro come se fosse un unico, lunghissimo centipede cinematografico che tra l’altro si conclude in loop, ovvero con una scena sequenziale che si collega all’inizio del primo capitolo. In questo modo uno potrebbe guardarsi la saga all’infinito andando probabilmente fuori di testa dopo un po' di visioni. 

The Human centipede è puro cinema weirdo all’ennesima potenza, roba come non se ne faceva dai primissimi film di John Waters ma con un budget tutt’altro che disprezzabile e quella voglia di sperimentare divertendosi che ormai il cinema ha perso da molto tempo. Tom Six passa il tempo a autocitarsi costantemente in un delirio metacinematografico dove i protagonisti di ogni titolo (tranne ovviamente il primo) rimangono folgorati dalla geniale intuizione di poter unire più esseri umani insieme collegandoli attraverso il sistema digerente con una procedura 100% medically correct! Ecco dunque che, se nel primo film, il delirante dottor Heiter (interpretato da un ancor più delirante Dieter Laser) rispolverava il prototipo del classico mad doctor con un piglio recitativo decisamente sopra le righe, nel secondo capitolo (unanimamente considerato il più disturbante e quindi anche il migliore della trilogia) l’assurdo parcheggiatore Martin (il bravissimo Laurence R. Harvey…ma dove lo sono andati a pescare?) rimane folgorato dalla visione e inizia a prendere a mazzate gli avventori del parcheggio a colpi di piede di porco, legandoli e imbavagliandoli per trasportarli in un lercissimo magazzino dove, con coltelli e seghe, si divertirà a costruire il suo millepiedi umano. 

Rispetto alla sterile e asettica sala operatoria del dottor Heiter, qui il marcio esplode senza mezzi termini, culminando in scene da cui distogliere lo sguardo appare quasi doveroso se non si vuole rischiare una super gastrite nervosa. La sequenza del lassativo collettivo e lo stupro finale con il filo spinato rappresentano il culmine del cinema estremo come lo concepisce Tom Six, probabilmente aiutato da un’atmosfera silente e malata, quasi da cinema “Warholiano” (si pensi al film Bad di Jed Johnson) fino all’esagerazione splatter in cui una donna incinta partorisce in auto schiacchiando il neonato nel tentativo di premere l’accelleratore per fuggire da questo incubo. Il terzo capitolo, considerato il minore ma solo perché a certi livelli non ci si può mai superare, è invece ambientato in una prigione di massima sicurezza dove troviamo i due protagonisti dei precedenti capitoli, ovvero Dieter Laser nei panni di William Boss, il perverso e psicopatico direttore William Boss e Harvey nei panni del timido contabile che cerca, per tre quarti di film, di convincere Boss che costruire un millepiedi umano con tutti i detenuti è la soluzione definitiva a tutti i problemi dell’Istituto. 

Se il primo titolo aveva dalla sua l’idea innovativa alla base della trilogia e poco altro, se non riprendere in chiave moderna gli stilemi del mad doctor, qui Laser si scatena in una recitazione che considerare fuori dalle righe risulta poco adeguata, il protagonista infatti, nonostante le sue origini germaniche, indossa perennemente un cappello da cowboy, non fuma sigari cubani (troppo comunisti!), mangia clitoridi essiccati provenienti dall’Africa e molesta sessualmente la segretaria. L’apice qui si raggiunge nell’asportazione dei testicoli ad un detenuto per poi farseli cucinare su un piatto d’argento. Alla fine l’idea del millepiedi viene accettata con il beneplacito di Tom Six che qui appare nel ruolo di sé stesso e il governatore stesso (interpretato da un compiaciuto Eric Roberts), dopo le prime reticenze, dovrà giocoforza constatare che l’idea del millepiedi umani rappresenta il vero sogno americano. Ironia dissacratoria e antiamericanismo sono gli elementi principali di questo terzo capitolo, contraddistinto da una fotografia ipersatura e la ricerca spasmodica dell’esagerazione cinematografica, una degna conclusione di un trittico unico nel suo genere e sebbene consigliato a stomaci forti, rappresenta la perfetta metafora della scala sociale umana: il primo della fila è sempre il più fortunato! 

giovedì 26 ottobre 2023

SHE-DEVILS ON WHEELS

(1968) 

Regia Hershell Gordon Lewis 

Cast Betty Connell, Nancy Lee Noble, John Weymer 

Parla di “banda di motocicliste al femminile si sollazza coi maschietti e si scontra con banda rivale” 

Nonostante l’iconica aura da cult movie che pervade ogni singolo fotogramma di uno dei più grossi successi commerciali del regista Hershell Gordon Lewis, non si può fare a meno di notare quanto povera fosse la confezione di She Devils on Wheels. Ovviamente i budget con cui lavorava il “padrino del Gore” erano decisamente risibili (si parla di appena 50.000 dollari per questo film) ma, rispetto ad altre sue opere, qui si presentava anche la pretesa di realizzare un Biker-Movie, prodotto rigorosamente per i Drive-in molto in voga alla fine degli anni sessanta. Diciamo che la confezione casalinga ad un film bikersploitation non giova molto, essendo un genere nato per scorrazzare on the road su chopperoni ribollenti e desiderosi di strade sgombre e assoluta libertà. 

Qui invece la banda di motocicliste soprannominate “The Man-Eaters” si limita a viaggiare su stradine del paesello per pochi metri alla pazzesca velocità di 40 km orari. Tutto scorre lento e si concentra soprattutto negli ambienti scarni e spogli di un appartamento dove le rebel girls entrano direttamente in motocicletta, allo scopo di scegliersi il bel fustone con cui pomiciare per tutta la serata. Lewis lavora con inquadrature traballanti, un montaggio schizoide dove il cambio immagine è talmente repentino da spiazzare lo spettatore fino a fargli nascere il dubbio del “ma cos’ho visto?”. La trama è praticamente ridotta all’osso ed è composta da sfiancanti dialoghi senza senso, lunghe sequenze di festini con balli, palpamenti e piedi che si sdrusciano fra di loro. Tra un avvinghiamento corporeo e l’altro assistiamo agli scontri tra la banda delle bikers capitanate da Queen (Betty Connell), un donnone forzuto che sbraita come un camionista, e quella di Joe Boy (John Weymer) un tanghero allampanato con un paio di baffoni vistosamente finti che comanda un trio di teddy boy sfigati in maglietta nera, manco capaci di andare in moto. 

Il gore, nonostante l’autorevole firma, è scarso limitandosi a tre scene principali, ovvero il trascinamento sul selciato di uno dei membri della banda maschile, la violenta rappresaglia contro una delle ragazze (che viene ritrovata morta in un sacco di tela tutta sporca di sangue) e il finale con decapitazione, unico scampolo della mano sanguinolenta di Lewis. Le Man Eaters appaiono sufficientemente emancipate, mettono sotto i piedi i maschi che fanno a gara per accendergli enormi sigari e sigarette, il tutto alternato da continue apparizioni del poster ufficiale che viene utilizzato come elemento di transizione per i cambi di scena, facendolo ruotare come una trottola sullo schermo. Tra i simpatici aneddoti generati dalla pellicola pare che la banda delle Men Eaters fosse composta, non da attrici professioniste, ma da vere bikers tra cui, si vocifera, vi fosse anche un membro della famiglia Manson. 


mercoledì 11 ottobre 2023

MACUMBA STORY

(Diferente, 1962) 

Regia Luis Maria Delgado 

Cast Alfredo Alaria, Manolo Monroy, Julia G. Caba 

Parla di “giovane ballerino dissoluto imbarazza la famiglia borghese di provenienza ma la pagherà cara” 

Confesso di essere stato molto combattuto nel decidere se scrivere o meno riguardo a questo film, in quanto esula, dal punto di vista tecnico ed estetico, dai canoni del cinema trash propriamente detto. Tuttavia bisogna comunque considerare anche i contenuti, e quelli, in “Diferente” sono decisamente exploitation, costruiti come sono attorno alla figura di Alfredo Alaria, attore e ballerino argentino qui in veste di protagonista assoluto di una storia dai colori reazionari al limite dell’imbarazzo. Va detto che, per quanto riguarda il comparto coreografico il film è uno spettacolo per gli occhi, Alaria danza divinamente, fa tip tap, si veste da Gaucho e rotea la testa in modo vertiginoso nella danza magica finale dove si raggiungono vette di parossismo assolutamente impagabile. 

La trama è incentrata sul personaggio di Alfredo, giovane dissoluto con la passione per i localacci malfamati e i teatri dove passa il tempo a danzare disonorando così la sua famiglia di provenienza, di estrazione borghese. Il fratello gli sta praticamente con il fiato sul collo in continuazione, rompendogli il cazzo con pipponi sul buon nome della famiglia che sono totalmente fuori dalle righe, il padre invece tenta di redarguirlo offrendogli un lavoro nei suoi uffici dove Alfredo riesce a migliorare le performance lavorative delle dattilografe a tempo di jazz. Ma il nostro eroe (dai tratti somatici straordinariamente simili a quelli di Tony Curtis) non riesce ad adeguarsi alla vita borghese dei suoi congiunti e ben presto torna a calcare le scene provocando scandalo e imbarazzo. La follia dissoluta di Alfredo lo porta in un localaccio di quart’ordine, dove, tra fumi di alcool e di tabacco, viene iniziato alla macumba attraverso una danza sfrenata e, come già citato prima, si scatena in un vorticoso head banging. 

Il padre, avvisato che Alfredo stava frequentando una cantina con un gruppo di ubriaconi, si mette in auto per andarlo a recuperare ma muore in un incidente. Il giovane Alfredo, distrutto dal dolore, si reca nella villa paterna dove il fratello lo accusa di tutto l’accusabile e lo getta letteralmente giù dalle scale. L’ultima scena vede il ballerino in lacrime che abbraccia un albero struggendosi dal dolore. Tutto questo in appena un’ora di film dove assistiamo ad una discutibile fiaba moralistica in cui il dissoluto (forse omosessuale) e il diverso vengono condannati senza attenuanti ad una vita di solitudine e dolore dopo aver indiscriminatamente fatto del male a chi gli ha voluto bene. Il tutto in maniera così evidente ed ingenua che non da luogo a fraintendimento riguardo al contenuto exploitation del film, dove il moralismo d’accatto così evidenziato è pari ad altre opere del genere come Reefer Madness (Droga) o Chained Girls (Lesbismo) ma filtrato da un’estetica accattivante e coreografie comunque eccellenti. 

giovedì 5 ottobre 2023

SCANNATI VIVI

(Skinned deep, 2003) 

Regia Gabriel Bartalos 

Cast Jason Dugre, Warwick Davis, Karoline Brandt 

Parla di “allegra famigliola di mostri tiene segregata giovinetta e deve affrontare sarabanda di anziani in motocicletta” 

L’unico grande sbaglio di questo film è quello di essere stato realizzato fuori tempo massimo, perché a tutti gli effetti quest’esordio alla regia del grande effettista Gabriel Bartalos ha il sapore delle produzioni low budget degli anni ottanta con richiami nostalgici a Bad Taste, Basket Case e Non aprite quella porta 2 (del quale cita apertamente la bellissima sequenza tra i due pick up). Bartalos del resto è stato, negli anni ottanta e novanta, un nome di punta di un certo cinema underground, collaborando non solo con Henenlotter in “Brain Damage, la maledizione di Elmer”, ma anche in opere come Spookies, Leprechaun, From Beyond, Dolls e Ammazzavampiri 2. Un background professionale così marcato nell’età d’oro del cinema horror a basso costo, non poteva quindi che riflettersi nel suo primo film che mescola insieme demenzialità splatter, assurdi mostri gommosi e un pizzico di sana cattiveria tipica del cinema underground dove non ci si pone nessun problema a mostrare un bambino tagliato a metà. 

La trama omaggia apertamente il famoso ciclo della famiglia cannibale di Tobe Hooper aggiungendo però personaggi marcatamente freak come l’assurdo Brain con il cervellone che sporge oscenamente rendendo peraltro difficile e visibilmente goffo il movimento dell’attore Jason Dugre. Non manca il buon Warwick Davis, divenuto famoso grazie a Willow e la serie di Leprechaun nella quale ha conosciuto Bartalos, qui nella veste di Plates che, per l’appunto, non fa che lanciare piatti in faccia alla gente. Ma Il villain è il Generale Surgeon, un mostro che sembra uscito da Star Wars passando per Hardware e Hellraiser con catene a uncino, asce da passeggio e una mandibola d’acciaio. Coadiuvata da una vecchia che gestisce una tavola calda nel deserto ed ha una specie di orifizio sul collo da cui si nutre di sangue, quest’allegra famigliola tiene segregata l’adolescente Tina (Karoline Brandt) dopo averne sterminato i genitori e il fratellino, con lo scopo di farla sposare a Brain. La ragazza però non ci sta e fugge dalla stanza tappezzata di giornali in cui era stata rinchiusa e inizia ad arrampicarsi per assurdi cunicuoli tappezzati di catene, televisori, teschi e altre amenità del genere. 

Qui Bartalos mette a frutto la sua esperienza maturata in Texas Chainsaw Massacre part 2, divertendosi un mondo ad arredare in maniera estrema le location, arrivando a far vomitare la ragazza direttamente sulla macchina da presa. C’è anche spazio per il surrealismo bunuelliano quando Tina scarnifica il cervello di Brain da cui fuoriescono dei cubotti con la parola Love che la ragazza trasforma schiacciandoli nella parola Hate (citando probabilmente Night of the Hunter di Charles Laughton). Arrivato allo zenith della demenzialità, il film si scatena nel finale con l’apparizione del Creatore, un assurdo body builder senza testa da qui fuoriesce un viscido mostriciattolo stile Gremlins. Siccome poi al peggio non c’è limite, il film si chiude con l’arrivo di una serie di bikers anziani che vogliono vendicare un loro amico ucciso, la vecchia della tavola calda appiccica sulle loro fronti il simbolo della pace mentre Surgeon li fa esplodere in un tripudio di effetti digitali (l’unico momento in cui siamo consapevoli che il film è girato nel nuovo millennio) e di teste esplose. Superati gli evidenti limiti imposti dall’estrema povertà nella realizzazione (le scene d’azione sono veramente ridicole) il film risulta piuttosto divertente e ricco di idee malsane, ideale ricostituente per cinefili nostalgici del glorioso horror in vhs degli anni ottanta.  

giovedì 28 settembre 2023

THE MAD DOCTOR OF BLOOD ISLAND

(1969) 

Regia Gerardo De Leon e Eddie Romero 

Cast John Ashley, Ronald Remy, Angelique Pettyjohn 

Parla di “Isola esotica piena di mostracci verdi arricchiti da abbondanti dosi di clorofilla” 

Se non ne avete abbastanza dopo aver visto “Terrore sull’isola dell’amore” (Brides of blood) potete sempre integrare con il suo seguito ideale, ovvero questo Mad Doctor of blood island che insieme al successivo Beast of blood compone una trilogia perfetta sull’isola del sangue dove sono ambientate le tre pellicole, tutte e tre dirette da Eddie Romero coadiuvato nei primi due episodi da Gerardo De Leon. Ma soprattutto le tre pellicole sono contraddistinte dalla presenza costante del faccione di un Elvis Presley più rotondetto che corrisponde all’attore John Ashley, protagonista dell’intera trilogia. Il connubio tra creature deformi, ambientazioni esotiche e abbondanti dosi di nudità e gore  evidentemente funzionava, del resto i film stessi, pur entrando di diritto nella cerchia dell’exploitation più sordido, non sono neanche malaccio. 

Mad Doctor parte subito minaccioso imponendoci un prologo in purissimo “William Castle Style” in cui, oltre ad una serie di sequenze estrapolate a casaccio dal film, assistiamo a gruppi di giovani che bevono da fialette uno schifosissimo liquido verdastro a base di clorofilla (The green blood!!!), praticamente un super spoiler iniziale!. I protagonisti sono un medico patologo (John Ashley) che accompagna sull’isola la giovane e avvenente Sheila (Angelique Pettyjohn) in cerca del padre alcolizzato che non ha mai visto oltre ad un altro tizio che vuole portare via la madre dall’isola. La cosa divertente è che quel lembo di terra avvolto dalle acque sembra essere uno stato a sé in cui il Government Building viene ricavato da una sorta di palafitta in legno con tanto di sceriffo indigeno e guerrieri in costumino da bagno e lance. Qui facciamo la conoscenza del dottor Lorca (Ronald Remy) che cammina comicamente tutto piegato in avanti perchè il costumista, evidentemente, gli ha fornito un bastone troppo piccolo per la sua statura. Sull’isola assistiamo a brutali omicidi perpetrati da un orrendo mostro umanoide verdastro che sembra un assemblamento di vecchi stracci putridi messi su una maschera non ben definita. 

Nelle scene più cruente vediamo intestini e visceri buttati  a casaccio sopra i corpi degli attori tanto per generare sensazioni di disgusto ad un pubblico probabilmente più annoiato che divertito. Non mancano le classiche scene di nudo ambientate in splendidi scorci naturalistici delle Filippine, tra pozze d’acque immerse tra le rocce e suggestive cascate, e poi ovviamente le immancabili danze tribali con sacrificio di capre e maialini il tutto contornato da musichette e ritmi caraibici. Inoltre, in questo film Romero ci regala una nuova tecnica di inquadratura mandando costantemente avanti e indietro lo zoom della macchina da presa nelle scene più drammatiche, in questo modo si crea un effetto ondeggiante che sembra rivelare al mondo il dramma dell’alcolismo di cui soffre il cineoperatore. Meno interessante di Brides of Blood ma tutto sommato godibile, Mad doctor è sicuramente un titolo che oggi ha il suo fascino vintage e va recuperato assolutamente, a patto che non soffriate di mal di mare. 

giovedì 21 settembre 2023

SPACEMAN CONTRO I VAMPIRI DELLO SPAZIO

(Sûpâ jaiantsu - Kaiseijin no majô, 1957) 

Regia Teruo Ishii 

Cast Ken Utsui, Minoru Takada, Junko Ikeuchi 

Parla di “supereroe in tutina dello spazio contro alieni ranocchia, mostri zannuti e astronavi per scolare la pasta” 

Fisico da mangiatore di porchetta, tutina aderente da primo ballerino dell’opera, cuffia da piscina, antennina da fata di carnevale e mantellino ascellare della prima comunione sono i tratti caratteristici del costume di Spaceman (nell’originale Sûpâ jaiantsu), supereroe per bambini giapponese interpretato da Ken Utsui che ebbe un buon successo tra la fine degli anni cinquanta e gli anni sessanta grazie ad una serie televisiva giunta a noi attraverso il rimontaggio dei vari episodi incollati tra loro. Il risultato sono tre film con  titoli come “Gli Invasori della base spaziale”(conosciuto anche come “L’invincibile Spaceman”), “I satelliti contro la Terra” e ” I vampiri dello spazio”. 

In quest’ultimo titolo i distributori italiani e francesi cucirono insieme il terzo e quarto episodio della serie dedicata al super nipponico (che in America fu lanciato con il nome Supergiant) che, in questo frangente, deve affrontare l’invasione degli alieni Kapia, ovvero uno sparuto gruppetto di umanoidi in tutina nera con una ridicola maschera da batrace. Dapprima i Kapia si mettono in combutta con un professore pazzo per generare un mostro zannuto che ricorda le fattezze delle maschere Oni (i demoni giapponesi) ma fa il verso del gabbiano, indossa una tutina dorata con tanto di cerniera in bella vista e saltella da tutte le parti fendendo l’aria con artigli esagerati. Spaceman passa dal completo giacca/cravatta al costumino semplicemente abbassandosi rispetto all’inquadratura della macchina da presa (il che fa un baffo a Nembo Kid che invece deve ogni volta entrare in una cabina telefonica), produce zompi vertiginosi e mena schiaffoni a destra e a manca, il tutto però menandocela con il suo pomposo senso di giustizia per tutto il film. 

Nella seconda parte, sconfitto il mostro, Spaceman affronta direttamente i Kapia a cui basta alzare la mano e fare versacci per lanciare un temibile virus in grado di ammosciare l’umanità. Gli effetti speciali sono quelli che sono, il volo dell’eroe sul fondo del cielo o dello spazio stellato, il modellino dell’astronave che sembra uno scolapiatti luminoso, alieni che sfoderano un inquietante sorrisone alla Joker e sparano raggi dalla bocca. Per fortuna gli scienziati giapponesi (e chi altro poteva?) riescono a salvare il mondo trovando per caso un gas mortale per gli extraterrestri ma assolutamente innocuo per la razza umana, il tutto narrato a tratti da una pomposa voce narrante. Classico finale con bambini che salutano l’eroe mentre vola verso lo spazio e noi qui a continuare a chiederci dove cazzo sono finiti i vampiri citati nel titolo del film! 

giovedì 14 settembre 2023

MANDINGA

(1976) 

Regia Mario Pinzauti 

Cast Antonio Gismondo, Paola D’Egidio, Maria Rosaria Riuzzi

Parla di “fattoria schiavista della Louisiana dove bianchi e neri copulano senza alcuna distinzione di razza e religione” 

Nonostante il grande successo di pubblico, in parte dovuto alle numerose polemiche emerse all’epoca, il film Mandingo ce lo siamo dimenticati un po' tutti, cosa può esserci di meglio, allora, che rievocarne la memoria con la risposta italiana diretta da Mario Pinzauti? Ovviamente l’erotismo appena accennato nella pellicola di Richard Fleischer, qui trova spazio in abbondanza per potersi esprimere al meglio, senza scadere nel porno ma andandoci mooolto vicino. Contraddistinto da una fotografia piatta e televisiva che richiama “La schiava Isaura”, Mandinga è un polpettone imbarazzante dove si narrano amori e intrecci di famiglia all’interno di una piantagione della Louisiana in cui la bella e spregiudicata Rhonda (Paola D’Egidio) tenta un escalation con Hunter (Serafino Profumo) il padrone della fattoria, si sdruscia su un mandingo legato alle travi. 

Ad un certo punto, però, dopo aver preso una manica di frustate il mandingo non deve aver sicuramente provato un grande piacere a sentirsi le unghie della cavallona sulle ferite alla schiena. Poi entra in scena la schiava Mandinga, una mulatta con le treccine da villaggio turistico, che viene violentata da Hunter e muore dopo aver partorito Mary (Maria Rosaria Riuzzi) che, stranamente è bianchissima e a sua volta cresce come figlia del pastore Foster, il quale cela al mondo la provenienza materna. Ma il mescolamento di razza si rivelerà anni dopo quando Mary si sposa con Clarence (Antonio Gismondo), figlio di Hunter e quindi fratello a sua insaputa, e partorisce un maschietto nero (gulp!). Alla fine la vediamo correre inseguita dal marito incazzato con il piccolo in braccio, si becca una fucilata e muore, quindi il vecchio Hunter, dopo aver scoperto che Mary è in realtà sua figlia, si china sul cadavere di Mary e, sofferente, stringe al petto il bimbetto in un tripudio di buoni sentimenti a basso costo. 

Insomma se la trama è un po' incasinata, la recitazione marmorea dei protagonisti non aiuta di certo, le scene erotiche sono costituite per lo più da sdrusciamenti e schiave/i legate/i al palo che sembrano accettare di buon grado le avances dei padroni, avances che si concludono ovviamente con la coppia di schiavisti che fa sesso davanti agli sconsolati prigionieri. Il tutto viene poi incorniciato da una musichetta ossessiva, composta dallo specialista Marcello Giombini, che oscilla tra il beat caraibico, l’elettronica minimalista e il romanticismo struggente. Siamo di fronte alla classica operazione di exploitation italiana, costruita in fretta e furia per sfruttare la scia del successo del blockbusterone americano di turno, buttandola sul sesso che va sempre bene al cinema.  

mercoledì 6 settembre 2023

MARINA E LA SUA BESTIA

(1984) 

Regia Arduino Sacco 

Cast Marina Lotar, Cecilia Paloma, lo stallone Principe 

Parla di “attrice porno a fine carriera vuole realizzare il suo ultimo capolavoro con un cavallo come protagonista” 

Parlare di un film come questo può scatenare, in chi scrive, una ridda di contraddizioni. Se da un lato, infatti, prevale il senso di colpa morale nell’assistere a spettacoli beceri e avvilenti nei confronti di animali e uomini dall’altro non si può far finta che questo non sia uno dei maggiori successi del cinema porno italiano come non si può nascondere che la sua protagonista, Marina Hadman Bellis ma conosciuta più propriamente come Marina Lotar o Marina Frajese (oppure come Marina Lotar Frajese), sia un’attrice con quasi 20 anni di carriera dove alternava film pornografici (ma con nomi d’elitè come John Holmes o Rocco Siffredi) diretti da Joe D’Amato o Alfonso Brescia a collaborazioni decisamente più altolocate con Federico Fellini, Dino Risi e Bruno Corbucci. Detto questo appare quanto meno bizzarro assistere alle turpi performance dell’ex moglie del giornalista Paolo Frajese, impegnata per tutto il film a sbavare dietro le corse dello stallone Principe per poi praticargli alla fine una brodosa fellatio che non era manco vera in quanto, si scoprì di seguito, fu utilizzata una verga di legno come protesi dell’infelice destriero. 

Ma questo non è che il culmine di una pellicola decisamente estrema nel suo genere che la vede nei panni di una famosa attrice di porno in odore di pensione con l’intento di lasciare ai suoi fan un ultimo capolavoro. Marina e La sua bestia (conosciuto anche come Mordida…Marina e la sua Bestia) è quindi un film sulla realizzazione di un film la cui realizzazione farebbe piacere a molti operatori dello spettacolo. Non a caso Marina passa subito all’azione spompinando sulla riva di un laghetto il suo sceneggiatore Giuliano (Giuliano Rosati), il quale, dopo questo tributo si mette subito al lavoro con Cecilia (Cecilia Paloma) la sua bella segretaria con la quale prova in maniera tangibile tutte le scene. Non contenta di dattilografare, Cecilia viene coinvolta in una ridicola sequenza di stupro con due tizi che se la sbattono direttamente in strada. Cecilia dapprima tenta una timida resistenza ma poi cede al piacere pensando, a fine scenetta, quanto “è piacevole la violenza carnale” (no comment). 

Siccome poi, l’ambientazione rurale lo favorisce, il cast si cimenta con una specie di orgia contadina con un fattore vecchio e grasso che fatica visibilmente a farselo diventare duro. Segue un rapporto anal realizzato sul dorso del cavallo, il quale poveretto deve essere stato tenuto ben fermo per evitare che i due non cadessero dalla groppa. Dulcis in fundo, la scena di zooerastia finale non è neanche la  più scioccante del lotto, molto peggio il coito nel fienile dove gli attori si leccano vicendevolmente le parti intime intrise di materia fecale ai livelli di “2 girls 1 cup” ma senza le reaction a far da cornice comica alla situazione. Dirige lo specialista Arduino Sacco mentre per il sequel, realizzato con un collage di sequenze estratte da altri film, tanto per “cavalcare” (mi si perdoni il gioco di parole) l’onda del successo del primo, si fantastica, alla presenza dietro la macchina da presa, nientemeno che Renato Polselli. 


giovedì 20 luglio 2023

I MORTI VIVENTI SONO TRA NOI

(Revanche des Morts Vivants, 1987) 

Regia Pierre B. Reinhard 

Cast Veronique Catanzaro, Laurence Mercier, Anthea Wyler 

Parla di “latte scremato assassino, zombesse tiramorsi, segretarie ricattatrici e prostitute infilzate proprio lì in mezzo” 

Introdotto da una colonna sonora costituita da disperate urla femminili, il film del regista franco-svizzero Pierre B. Reinhard parte con il sabotaggio di un camion che trasporta latte. Un misterioso motociclista  versa un liquido rossastro nella cisterna del veicolo mentre il camionista viene distratto da un’autostoppista di facili costumi. Il latte contaminato arriva alla tavola di tre ragazze che muoiono istantaneamente. Nel frattempo il direttore della ditta di prodotti chimici OKF viene incastrato in uno scandalo orchestrato dalla segretaria Brigitte a scopo di ricatto. La OKF ha infatti incaricato un tizio senza scrupoli di sversare rifiuti tossici nel cimitero dove sono sepolte le tre ragazze che, guarda caso, ritornano in vita, tutte vestite di bianco con delle facce grigiastre e dentature in bella evidenza. 

La trama mescola complottismo, poliziesco e horror con una serie di eventi ad incastro che, se ben orchestrati potevano anche dar vita ad un buon film. Ma Reinhard, il quale giustamente proviene dal cinema porno, pensa più ad inquadrare cosce e tette che al povero spettatore, il quale rimane invischiato in un pasticcio confuso dove il montaggio contribuisce in modo negativo a destabilizzare il senso narrativo. Non disponendo quindi di una sceneggiatura sensata a opera di Jean Claude Roy (che si firma con l’anglopseudonimo John King) ci dà dentro con gli effettacci gore e, dal quel punto di vista, il film si rivela sorprendente, soprattutto per una sorta di crudeltà morbosa che ricorda il cinema di Fulci e Joe D’Amato. Le tre zombesse, oltre a muoversi con grande agilità, strappano a morsi il pene ad un tizio, la povera prostituta viene coinvolta in un amplesso a quattro lesbo-necrofilo e finisce infilzata come uno spiedo con uno spadone infilato nella vagina, il tutto con gran dovizia di particolari. 

A mio parere, tuttavia, la scena più assurda è quella dove uno degli impiegati della OKF, che si era ustionato la mano con il prodotto chimico incriminato, tocca la pancia della fidanzata incinta, quest’ultima, entrata in doccia, si accorge con orrore che la pancia comincia a sciogliersi, feto compreso, in un tripudio di sangue e budella veramente disgustoso. Il motociclista, mosso da sensi di colpa va a confessarsi in chiesa ma invece del prete si trova davanti le zombesse con tutto quel che ne consegue. Alla fine (posso spoilerarlo tanto trovate il finale anche su Wikipedia!) si scopre, in maniera piuttosto sempliciotta, che le tre morte viventi erano rapinatrici incallite con mascheroni di gomma, capaci per avidità, a quanto pare, di evirare a morsi le persone o ad eviscerarle a mani nude. In generale, comunque, il film è permeato di un certo fascino horror da cinema europeo anni settanta, tra un tardo Jean Rollin e un Amado De Ossorio con qualche reminiscenza dei fumettoni perversi che uscivano nelle nostre edicole, tipo Oltretomba o Satanik, per intenderci, il che, se siete degli incorreggibili nostalgici, vi permetterà di apprezzarlo comunque nonostante le evidenti lacune.