martedì 27 settembre 2022

TURKISH JAWS - ÇÖL

(1983)

Regia Çetin Inanç
 

Cast Cüneyt Arkin, Emel Tümer, Salih Kirmizi

Parla di “Bellimbusto combatte la mala organizzata e finisce addentato da squalo di polistirolo”

Qualche buontempone sul web lo ha rinominato Turkish Jaws nella speranza di destare un seppur minimo interesse, in realtà il film del regista turco Çetin Inanç è un thriller d’azione che non ha nulla a che spartire con il film di Steven Spielberg se non per un paio di deliranti minuti alla fine, dove il protagonista Kemal (interpretato dal noto attore ottomano Cüneyt Arkin che invece interpretò le vere Turkish Star Wars) legato su una trave di legno e abbandonato nelle acque del mediterraneo come un novello Gesù Cristo acquatico, viene assalito da un assurdo pescecane di gomma piuma lucida con triangoloni di polistirolo a guisa di denti. Lo squalo gli azzanna un braccio ma invece di staccarglielo lo libera dalle corde e gli permette di afferrare da chissà dove, una punta di legno con cui infilza il mostro marino. 

In effetti se si guarda al trash la scena in questione vale tutto il film ma se ci si spinge a seguirne la trama scopriremo che sono ben altri i plagi di cui è colpevole questo Col (che in turco significa Deserto come gli occhi del protagonista). Inizialmente sembra una brutta copia di Cobra che già non è menzionato tra i migliori film di Stallone, figuriamoci un film (turco) che lo scimmiotta mettendo su pellicola un bellimbusto con capelloni semi grigi e occhi verdi, mascella irreprensibile ed espressione da mattone perculato. Già i titoli di testa sono sfiancanti, il protagonista corre in moto con sottofondo di un plagio di Whole Lotta Love dei Led Zeppelin arricchita con il flauto che si interrompe ogni volta che compare una didascalia (praticamente ogni 5 secondi). Sembra poi che a Kemal tutti vogliano far la festa, prima un autoarticolato cerca di buttarlo fuori strada, poi una tizia che guida un auto da rally che cambia misteriosamente fisionomia quando si rovescia in un fossato. Entrato in un bar, Kemal viene aggredito dai clienti e qui assistiamo ad un eccesso di fast motion nelle scene di scazzottamento che vengono accellerate al punto da trasformare la rissa in un film di Ridolini. 

C’è poi la tecnica tutta turca di gestire la lotta cinematografica in soggettiva, in pratica il protagonista picchia l’obbiettivo, poi c’è lo stacco e vediamo il malmenato che vola da una finestra, rotola dalle scale o si infrange su un tavolo. Ad accompagnare molte sequenze c’è poi un secondo plagio musicale che riproduce Eye of the Tiger, rubata paro paro da Rocky III (ma anche Rocky IV). Segnaliamo poi una scena di tentato stupro ai danni della protagonista femminile Emel Tümer veramente allucinata, partendo dal fatto che la donna, tre quarti di film  li passa su un’orrenda spiaggia rocciosa a guardare l’orizzonte, la vediamo percorrere un declivio erboso ed essere aggredita da due tipacci che iniziano a leccarla tutta. Fortunatamente Kemal interviene a fermare questa oscenità facendo fuggire i due violentatori semplicemente col suo sguardo magnetico.  Alla fine il protagonista rivelerà il suo passato difficile (viene cresciuto in orfanotrofio perché la madre non poteva occuparsi di lui, poi la donna muore e gli portano via pure il cane) e scopre che tutti quelli che ha attorno lo tradiscono, il suo amicone comandante di una nave, la donna (che si becca una coltellata alla schiena ma non si sa da chi) e il suo figlioccio a cui ha salvato la vita per ben tre volte salvo poi morire per sua mano. Finale con annesso pippone su quanto è bella e potente la legge e inquadratura dell’allora presidente della repubblica turca. 

venerdì 16 settembre 2022

SCHOOL OF THE HOLY BEAST

(Seijû gakuen, 1974) 

Regia Norifumi Suzuki 

Cast Yumi Takigawa, Fumio Watanabe, Emiko Yamauchi 

Parla di “ragazza si fa suora per indagare morte madre e scopre che in convento si fa di tutto tranne che pregare” 

Nelle prime sequenze urbane che accompagnano i titoli di testa vediamo un manifesto cinematografico in versione nippo di “Niente di grave suo marito è incinto” e subito dopo troviamo la protagonista Maya (interpretata dalla splendida Yumi Takigawa) all’interno di una sala ad assistere a “Tony Arzenta” di Duccio Tessari di cui però sentiamo solo la voce. Con questo incipit il regista Norifumi Suzuki mette subito in chiaro la sua passione per il cinema italiano e decide di dire la sua su di un genere tipicamente nostrano come il nunsploitation. Suzuki mescola tematiche affini al giallo con umori sado-maso tipicamente nipponici, alzando l’asticella in tema di blasfemia estrema. Il tutto però in un contesto visivo raffinato, dai colori accesi ispirati a Mario Bava e la ricerca del dettaglio visivo alla Fulci/Argento. 

Nei primi minuti Maya sembra tutto tranne che una suora, esce, va al cinema e rimorchia un bellimbusto in motocicletta con cui trascorre una notte infuocata, lui vuole rivederla ma lei dichiara che questa è la sua ultima notte da donna libera e infatti il giorno dopo entra in convento dove non tardiamo ad assistere a scene del tutto estranee alla sacralità del luogo. Le suore bevono whisky, si fumano canne, amoreggiano safficamente e si scambiano fotografie porno, il tutto nonostante le autoflagellazioni punitive o le frustate in tandem. Ben presto scopriamo che l’intento di Maya non è la ricerca del divino ma una vera e propria indagine su sua madre, una suora morta in maniera misteriosa dopo averla data alla luce. Attraverso la confessione di una vecchia morente scoprirà che a uccidere la madre è stata la direttrice che dopo averla frustata a sangue, gli ha pure schiacciato la pancia con un piede prima di impiccarla. A questo punto Maya organizza uno stupro programmato della colpevole ma viene scoperta e punita con legacci irti di spine e una sorta di lapidazione collettiva con mazzi di rose. 

Intanto anche un’altra suora rimane incinta dal reverendo padre del convento che ha il vizietto di organizzare messe private con le consorelle. Anche questa sarà punita sadicamente obbligandola a orinare direttamente su un’icona di Gesù Cristo. Alla fine la direttrice finirà in una botola piena di acido, la vicedirettrice verrà impalata in un cancello mentre il reverendo finirà accoltellato con un crocefisso in un tripudio pop-psichedelico misto ad atmosfere gotiche che ricordano il periodo Edgar Allan Poe di Roger Corman con tanto di scogliere minacciose immerse sotto cupi temporali. Narrativamente coeso, ricco di colpi di scena e violenza grafica in puro pinky-style, il nunsploitation di Suzuki è un piccolo raffinato gioiellino che sferza nerbate pesanti sull’ipocrisia ecclesiastica che stigmatizza l’atto sessuale come bestia immonda, che poi rappresenta uno dei motivi principali dell’esistenza ( e del successo) dell’intero genere. 

mercoledì 7 settembre 2022

THE JAR

(1984) 

Regia Bruce Toscano 

Cast Gary Wallace, Karin Sjöberg, Robert Gerald Witt 

Parla di “insegnante porta a casa vecchietto accidentato e ci guadagna un barattolo che lo tortura a botte di incubi” 

Il surrealismo nel cinema è un’arma a doppio taglio, perché, se da una parte ti da la possibilità di esprimere tutta l’urgenza visionaria, dall’altra devi essere in grado di farlo anche con pochi mezzi, ma soprattutto ci deve essere un significato, appariscente o celato che sia, alla base di tutti i deliri visivi che vuoi perpetrare al povero spettatore. Ecco, dopo esserci sorbiti questi 85 minuti di pura follia anarchica realizzata da Bruce Toscano nel 1984,  possiamo tranquillamente dire che il fallimento di The Jar è da attribuirsi senza ombra di dubbio alla mancanza di un significato. Se poi a questo ci aggiungi una fotografia carente al punto da rendere oscuro (“buio” come dice la voce narrante iniziale) tutto quello che fai, il disastro è completo. La storia è alquanto pretestuosa: un barbuto insegnante  di nome Paul (Gary Wallace) fa un incidente di notte con un vecchietto che non vuole assolutamente andare in ospedale. Non trovando di meglio da fare, Paul se lo porta a casa ma questi, dopo pochi minuti scompare, lasciando una specie di barattolone contenente un liquido che si rivela essere una specie di brutto gnomo verdastro liquoroso. 

Dopo un risveglio con urlo a tutta mascella, Paul diventa preda di incubi, deliri, e chi più ne ha ne metta. Girovaga nella notte incontrando strane facce, ha allucinazioni di ragazzini morti nella vasca da bagno, vaga per un parco giochi e da la mano ad una ragazzina che ha lasciato volare via il palloncino e, per ben due volte, cerca di frantumare l’odioso barattolone, il quale, nonostante vada in mille pezzi, pare si ricomponga e ritorni a casa di Paul. C’è pure una vicina di casa, piuttosto carina, a cui Paul da una mano portandogli una sedia a dondolo dall’ascensore al suo appartamento (sai che sforzo!) e da quel momento la tipa continua a tampinarlo con il complesso dell’infermierina. Nonostante Paul le urli contro, non se la caga di striscio e ad un certo punto si estranea mentalmente pur di non ascoltarla, questa non lo molla ed alla fine ne pagherà le conseguenze. Toscano però non si limita ai deliri casalinghi, ci regala anche una sequenza dove Paul, piuttosto sudaticcio, segue una strana processione di incappucciati urlandogli dietro “Chi sei???” e un’altra in cui tenta di farci addentrare in una scenetta da guerra del Vietnam dove c’è gente (mal) vestita da soldato che corre da tutte le parti e si getta negli acquitrini falciata da cecchini inesistenti. 

Insomma siamo di fronte al delirio fine a sé stesso, senza una logica e senza neanche un’estetica, solo un pallido tentativo di dare sfogo a movimenti di macchina articolati, con illuminazioni basse, fioche che si alternano a esterni notturni virati al bianco e nero, una brutta copia di Lynch e Jodorowski dove l’unica cosa che si salva è la colonna sonora di inquietanti synth anni ottanta in stile John Carpenter, realizzata da un sedicente gruppo chiamato Obscure Sighs che in realtà sono il regista Bruce Toscano e il direttore della fotografia Cameron McLeod, i quali, non avendo più realizzato nient’altro dopo The Jar (stesso destino per quasi tutto il cast, del resto) probabilmente hanno capito che era meglio continuare a fare musica piuttosto che cinema.