giovedì 26 novembre 2020

CLOWNADO

 (2019)

Regia: Todd Sheets

Cast: John O'Hara, Rachel Lagen, Bobby Westrick

Genere: Horror

Parla di: “Pagliacci sgangherati vengono colpiti da maledizione e fluttuano inutilmente tra gli uragani della bruttezza assoluta”

Come ormai risaputo, il mercato delle Pay-Tv sta inevitabilmente condizionando la fruizione dell’intrattenimento cinematografico presentando al pubblico enormi mestoloni carichi di film e serie Tv un tanto al chilo dove, forse, in mezzo a tanta robaccia fuoriesce ogni tanto qualche perla. Questa situazione ha condizionato anche il modo di porsi del cinema stesso, specialmente quello di serie B e serie Zeta dove più che la qualità del prodotto, conta l’idea attrattiva che intrighi il pubblico invogliandolo a scegliere quel dato titolo a prescindere dal film che andrà poi a sorbirsi. Con queste premesse si è probabilmente dato vita al progetto Clownado, partito con un crowdfunding su Indiegogo che ha permesso di raccogliere la misera cifra di 17.000 dollari, quasi insufficiente per un normale prodotto indipendente ma anche troppi visto il risultato finale. 

Appare ovvio già dal titolo che il film di Todd Sheets ha giocato molto semplicemente su due opere di assoluto richiamo degli ultimi anni, ovvero la saga trash di Sharknado mescolato con i pagliacci assassini in puro stile IT, una miscellanea quindi tra serie zeta e mainstream che purtroppo non ha portato la qualità dell’opera verso il secondo ma neanche si è avvicinata minimamente alla dignità produttiva del primo. In buona sostanza, Clownado è uno di quei film che visivamente non si discosta molto da puro amatoriale, con un cast che sembra estrapolato dalla bettola sottocasa, effetti digitali presi in saldo ad una svendita di Commodore 64 ed effetti di makeup che ravanano verosimilmente nel bidone dell’organico lasciato macerare sei mesi. La storia parte con un triangolo amoroso improbabile tra un belloccio barbuto, una giovane dark che sembra aver esagerato con il McDonald e un delirante proprietario circense interpretato da un “attore” (John O’Hara) che crede di essere il nuovo Jim Carrey ma non si avvicina neanche a Jerry Lewis con quelle risatine alla Joker in debito d’ossigeno ed espressioni facciali degne di un cammello con l’alzheimer. 

Per farla breve il circense uccide il belloccio e umilia la ragazza in pubblico spogliandola a colpi di freccette. Quest’ultima, si rivolge ad una specie di maga uscita senza successo dalla clinica del dottor Nowzaradan per lanciare una maledizione contro il circense e la sua gang di pagliacci. Il maleficio li colpisce mentre smembrano il cadavere del belloccio (con dettagli di pura macelleria ma anche tanta strana poltiglia marrone che non voglio sapere cosa sia) e li trasforma in pagliacci assassini e cannibali che si spostano in cerca di vendetta grazie ad un tornado. Sorvolando sull’estetica da ipermercato alle tre del pomeriggio, sulla prestanza fisica da abitudinari del fast food degli attori e sul continuo abuso di primi piani per mascherare il campo di cicoria sul set, il film si dilunga in ridondanti dialoghi da operetta, dettagli splatter con viscerame prelevato in macelleria (comprese le fettuccine al posto dell’intestino che piacciono tanti all’indie americano moderno) e ostentato fino al parossismo mentre l’idea di base, che poteva essere carina se sviluppata meglio, ondeggia inutilmente fra le correnti impetuose di un uragano di nullità assoluta.

martedì 17 novembre 2020

THE VELOCIPASTOR

 (2017) 

Regia: Brendan Steere 

Cast: Gregory James Cohan, Alyssa Kempinski, Daniel Steere 

Genere: Horror, Commedia,Trash 

Parla di: “Giovane pastore si ferisce con dente di dinosauro e si trasforma in un giustiziere giurassico” 

Rispetto al passato le nuove leve del trash internazionale hanno piena coscienza dei propri limiti economici e una tutt’altro che disprezzabile competenza cinematografica, il che porta opere come questo The Velocipastor a far vezzo dei propri deficit trasformandoli in una serie di trovate geniali che mitigano in parte gli evidenti limiti tecnici. Non a caso il film di Brendan Steere comincia con un’esplosione di auto che non esiste, il protagonista, il giovane pastore Doug (interpretato ottimamente da Gregory James Cohan) termina la sua funzione quotidiana, esce dal sagrato e saluta i genitori appoggiati alla propria autovettura, si sente un’esplosione e la cinepresa inquadra il parcheggio vuoto con la didascalia VFX: Car on fire, stacco e inquadratura di Doug che si dispera per la morte dei genitori. Ecco in questo incipit a dir poco spiazzante, c’è tutta la filosofia del trash moderno, ovvero quella di trasformare la mancanza di effetti in una gag comica. 

Detto questo il film è veramente terribile, dal punto di vista estetico ma allo stesso tempo spassoso. Vediamo Doug che gira per un boschetto che la didascalia ci avvisa essere la Cina, una donna viene infilzata da una freccia e nell’atto di morire consegna a Doug un dente di dinosauro con cui si ferisce la mano. Per il giovane prete inizia una mostruosa mutazione in una specie di tirannosauro gommoso, esageratamente finto, che si produce nell’uccidere uno stupratore e salvare la bella prostituta Carol (Alyssa Kempinski). Durante una confessione, Doug scopre che il peccatore (una specie di truzzissimo spacciatore con il riportino untuoso) è colpevole della morte dei suoi genitori, accecato dalla rabbia, il pastore si trasforma e sfodera due ridicoli guanti gommosi da dinosauro con cui uccide il criminale. Il suo collega prete Padre Stewart (Daniel Steere, sicuramente un parente del regista!) decide di portarlo da un esorcista che sembra la versione glitterata di Zé do Caixao ma il risultato sarà devastante. Nel frattempo Doug scopre l’amore con Carol e insieme devono combattere contro un gruppo di pastori Ninja che vogliono convertire la gente al cristianesimo a botte di cocaina. 

Se di mezzi The Velocipastor appare veramente scarso, di trovate deliranti invece è decisamente ricco. Membra e teste decapitate vengono rimpiazzati con manichini da boutique di moda con qualche baffo appiccicato alla meno peggio, ogni tanto Steere tenta di allungare il brodo (già esiguo visto che il film dura appena 70 minuti) con qualche collage di inquadrature e un riassunto in super fast motion di tutto il film, la scelta delle canzoni alternative rock risulta però azzeccata e i due protagonisti sono decisamente spassosi. Di memorabile qui però c’è solo l’idea principale del prete e soprattutto del titolo geniale che pare sia nato da un errore del correttore del cellulare che ha inteso Velociraptor come Velocipastor. Se si possa credere o meno a questa dichiarazione del regista non è ben chiaro ma se non altro il film non induce all’estinzione giurassica dello spettatore. 

martedì 10 novembre 2020

ROBOT NINJA

(1989) 

Regia: J.R. Bookwalter 

Cast: Michael Todd, Bogdan Pecic, Maria Markovic 

Genere: Horror, Action, Fantascienza 

Parla di “disegnatore di fumetti si immedesima troppo nel suo personaggio e prende un sacco di mazzate” 

Certi sodalizi sono fatti per creare opere da cui sai già cosa aspettarti, una volta compreso il grado di qualità prodotta in precedenza dai singoli personaggi. Ed infatti dall’unione di intenti profusa da David DeCoteau, produttore e regista di stampo cormaniano nonché autore di temibili “cult” (uno su tutti l’imbarazzante sci-fi Creepozoids) e il regista J.R. Bookwalter, fresco della produzione di uno zombie movie amatorialissimo come The Dead next door, non ci aspettavamo propriamente un’opera di raffinata impronta autoriale. Eppure Robot Ninja, se si supera l’imbruttimento iniziale e si raggiunge la fine, non è poi così male. La confezione è sicuramente terribile, a cominciare dai bruttissimi fumetti maldisegnati, veri leit motiv di questa storia, che per l’appunto vede protagonista Leonard Miller (Michael Todd) un disegnatore di comics, arrabbiato e deluso dall’ennesimo stupro artistico perpetratogli dal mondo televisivo colpevole di aver snaturato la sua creatura (per l’appunto l’eroico Robot Ninja del titolo), improvvisatosi giustiziere notturno dopo essersi fatto costruire dall’amico scienziato Hubert Goodknight, interpretato da Bogdan Pecic (da qui un pout pourri di battutine da asilo mariuccia del tipo “goodnight Goodknight”), un completo che riecheggia completamente il personaggio dei suoi fumetti. 

Divisa all black con tanto di spalline anni ottanta decorate con shuriken staccabili, fascia rossa in vita, guanto con lame stile Freddy Krueger e mascherone da saldatore dotato di correttore vocale robotico  (tanto per giustificare l’appellativo Robot prima di Ninja), il nostro eroe comincia a vagare nelle ore notturne strafatto di psicofarmaci e deve vedersela con una banda di disperati capitanata da una certa Gody Sanchez (Maria Markovic) che si diverte a stuprare e uccidere giovani coppiette dall’aspetto imbarazzante. Peccato che il nostro eroe sia tutto fuorchè un killer ed infatti, nonostante riesca a fare fuori un paio di sgherri, si prende un sacco di botte. Alterato dalle droghe comincia ad autoripararsi inserendo tubicini di gomma nelle vene e placche di metallo nelle ferite nel tentativo di diventare un vero super robot. La caparbietà e la sofferenza del buon Miller vengono esposte mirabilmente e difatti questa è la parte migliore del film. Per il resto siamo di fronte ad un prodotto che gronda dosi abbondanti di emoglobina con deorbitazioni, sbudellamenti e fracassamenti vari di cranio. 

Purtroppo gli addetti al make-up dimostrano qualche carenza conoscitiva nell’anatomia umana e scambiano le tagliatelle all’amatriciana per degli intestini per cui vediamo grotteschi zombie maltruccati intenti a rimescolarsi pasta fresca nelle viscere. A questo poi si aggiunge la dimensione casalinga delle ambientazioni, il surrealismo di certe situazioni (si veda la reazione delle due guardie quando Miller gli prende il televisore e lo sfascia a terra) e l’evidente incapacità degli attori. Non aiuta il ritmo narcolettico delle scene più action e l’incapacità del regista nell’orchestrare situazioni cinematografiche che vadano al di là del semplice dialogo. Da un certo punto di vista però non si può negare lo spessore caratteriale del protagonista, una maschera di sofferenza continua che riesce comunque a coinvolgere, aggiungiamo poi anche la voluta demenzialità dell’impianto narrativo che tende a buttare tutto in caciara strappando ogni tanto, oltre a qualche faccia, anche qualche sana risata.