lunedì 30 dicembre 2019

ROBOGEISHA


(2009)

Regia: Noboru Iguchi

Cast: Asami, Naoto Takenaka, Takumi Saitoh

Genere: Horror, Splatter, Fantascienza, Demenziale

Parla di: “Diatriba tra sorelle che diventano robot assassini in un tripudio di trovate estreme” 

Nel cinema giapponese la parola "trash" ha trovato una connotazione diversa dall'accezione negativa con cui si è soliti identificarla. Mentre in Europa e in America il trash è sinonimo di grettezza, rozzaggine e povertà di mezzi e di capacità espressive, in Oriente è la strada che porta le arti ad una visione più estrema, colorata, folle ed anarchica, soprattutto per quanto riguarda il cinema. Questo anche grazie al lavoro di registi come il folle e geniale Noburu Iguchi, autore di perle assolute come "Zombie Ass Toilet of the dead", "The machine girl", “Dead Sushi” e questo Robo-Geisha, uno dei suoi capolavori più rappresentativi. La storia ci narra di due sorelle, la maggiore Kikue è una bellissima geisha, contesa da molti pretendenti mentre la sorellina Yoshie è timida e riservata. 

Quando l’avvenente industriale Hikaru si accorge delle potenzialità di Yoshie la introduce nel suo team di geishe assassine, indottrinandola all'omicidio politico e grazie a progressivi interventi, vengono assemblati in lei parti robotiche. Altrettanto viene fatto per la sorella, anch'essa trasformata in un terribile robot killer.  Quando Yoshie scopre la malvagità di Hikaru e i progetti di distruzione di massa della multinazionale di suo padre, la Kageno Corporation, decide di ribellarsi, a quel punto Hikaru scatena contro di lei sua sorella. Impossibile descrivere tutte le folli trovate che percorrono questi 90 e passa minuti di cinema estremo, Iguchi mescola al live action un digitale alquanto primordiale (in sintonia con il cinema della Asylum) ma il ritmo è talmente serrato e le situazioni così assurde che questa commistione diventa perfetta e il film si trasforma in un felice connubio tra cinema, Manga e cartone animato. 

Ecco quindi mitragliatrici che escono dai seni, spade che spuntano dal sedere, cannoncini dalle acconciature, spaghetti che escono dai corpi martoriati, seghe circolari che spuntano dalla bocca, gamberetti infilati negli occhi e alla fine anche uno splendido Robot-pagoda gigante manovrato grottescamente dal cattivo di turno con cavi di carne attaccati ai polsi e Robogeisha che, come un Transformer, muta la sua forma, dalla vita in giù, diventando un carro armato. In tutto questo Helzapoppin' di splatter coloratissimo, armi che spuntano da tutte le parti, combattimenti e massacri senza tregua, Iguchi non rinuncia a defenestrare lo spettatore con zuccherosi buoni sentimenti d’ amore tra sorelle che si scoprono un pò Cenerentole e un pò principesse, si amano, si odiano, tentano di distruggersi e poi si ritrovano, il tutto attraverso il ben noto immaginario visivo che caratterizza da sempre una certa branca di cinema del sol levante, quella che, onestamente, ci piace di più. 

lunedì 23 dicembre 2019

BLOOD FEAST 2 ALL U CAN EAT

(2002) 

Regia Hershell Gordon Lewis 

Cast Trey Bosworth, Lavelle Higgins, Mark McLachlan 

Genere: Horror, Splatter, Commedia 

Parla di “Discendente cuoco assassino, ripristina azienda di famiglia con rituali a base di carne umana” 

A trent’anni di distanza dal suo ultimo capolavoro The Gore Gore Girls l’indiscusso inventore del cinema Splatter, Hershell Gordon Lewis, torna dietro la macchina da presa dando vita al sequel del suo celebre Blood Feast con cui ufficialmente venne dato nelle sale il genere più marcio e disgustoso che abbia mai percorso la settima arte, il tutto grazie a interiora di animali prelevati direttamente in macelleria ed ettolitri di vernice rossa. Lo stile del nostro non ha sicuramente perso il suo leggendario smalto e gli sbudellamenti gratuiti, sgozzamenti, decapitazioni e asportazioni di fegato e milza non mancano, forse la confezione, ma soprattutto la fotografia, risentono della fine del periodo d’oro del cinema in pellicola ma il padrino del gore non è secondo a nessuno ed in questa seconda puntata delle gesta di Fuad Ramses, lo dimostra ampiamente. 

Protagonista è il discendente diretto del cuoco egiziano assassino, Fuad Ramses III, il quale, ignaro delle gesta del nonno, decide di riaprire il servizio di catering a conduzione familiare. Il suo incontro con la malefica statua della sanguinaria dea Ishtar lo convincerà che è meglio organizzare sacrifici umani piuttosto che stuzzichini o aperitivi per ricevimenti. Del resto la ghiotta occasione viene proprio dalla celebrazione nuziale della figlia di Ms. Lampley, dispotica Milf con la puzza sotto il naso ma il portafoglio grasso. Il nostro cuoco macellaio aprirà quindi le danze di un nuovo massacro organizzando un truce banchetto cannibale sotto il naso di due poliziotti dementi: un ciccione senza fondo ed un detective idiota che vomita come un ossesso davanti alle scene di sangue, quest’ultimo oltretutto è anche promesso sposo della figlia dei Lampley. Stavolta Lewis accompagna il sangue e le frattaglie con un umorismo nero marcatamente trash dove si sente soprattutto l’influenza del genio irriverente John Waters che partecipa al cast nei panni di un prete dalla dubbia moralità. 

Ma la comicità di grana grossa, concentrata nel prendere in giro la Middle-Class americana e l’ossessione per il Junk Food tipicamente USA, non convince a fondo. Troppe le gag non comprese (inspiegabile e surreale la presenza di un cadavere misterioso nelle ultime scene del film) in contrasto con l’ostentata esposizione del sangue per la quale il Buon Hershell non si risparmia decisamente. Nonostante l’amore viscerale che ho per il cinema del grande Lewis, questo seguito risulta una bieca banalizzazione del suo lavoro, una piccola quanto inutile operazione di marketing per sfruttare la recente riscoperta delle sue opere, senza peraltro aggiungere nulla di nuovo alla sua splendida filmografia. Pur essendo, in fin dei conti, questo Blood Feast 2 un’opera leggera e gradevole, se volete divertirvi con cuochi splatter meglio riscoprire quel piccolo gioiellino di Jackie Kong del 1987 intitolato Il Ristorante all’angolo (Blood Diner), remake non dichiarato del primo indiscusso capolavoro del maestro. 

martedì 17 dicembre 2019

LA VENGANZA DE LAS MUJERES VAMPIRO

(1970) 

Regia: Federico Curiel 

Cast: Santo, Norma Lazareno, Gina Romand 

Genere: Horror, Avventura 

Parla di ”ennesima battaglia del lottatore Santo contro donne vampiro che oscillano tra le bare”  

Una mano nerboruta affonda un paletto di frassino nel petto di una donna vampiro addormentata nella sua bara, comincia così il seguito delle avventure dell'enmascarado de plata contro le donne vampiro, ennesima incursione nell'horror da parte del wrestler messicano, cinematograficamente parlando, più prolifico di tutti i tempi.  
Otto anni dopo il film di Alfonso Corona Blake "Santo contra le Mujeres Vampiro" (giunto anche in Italia con il titolo "Argos alla riscossa"),  la regia viene affidata al veterano Federico Curiel che ci regala subito i titoli di coda più pallosi del mondo in cui tre brutti ceffi vestiti con pastrani oscuri attraversano con molta calma delle polverose cripte. 

A far risorgere la contessa Mayra, uccisa nel prologo, è il mad doctor di turno che le trasferisce il sangue di una ballerina. Si scopre poi che il braccio nerboruto era quello dello stesso Santo , la contessa quindi per vendicarsi si reca all'arena dove il lottatore sta sfidando un altro mascherato. Grazie ai suoi poteri mentali la vampiressa induce il lottatore avversario a uccidere il Santo e giù pestoni come se non ci fosse un domani. Come previsto Santo avrà la meglio sempre e comunque. 
Paty, la fidanzata di un giornalista amico del lottatore si veste come una figlia dei fiori e si reca sotto copertura nel locale dove è sparita la ballerina, qui incontra un tipo assurdo con un colletto che sembra un bavaglio per bambini, il quale la ipnotizzerà per portarla al castello della contessa. Meno male che il buon Santo le aveva messo un rivelatore di posizione (un preistorico GPS o roba del genere), riesce ad arrivare al castello, mena fendenti a tutti gli sgherri della vampira e dà fuoco a tutte le bare che ci sono, la vampira fugge ma essendoci l'alba si vede costretta a tornare nel suo loculo dove il nostro eroe la attende con un bel paletto appuntito. 

Essendo entrati negli anni settanta il tema sex & love è ricorrente, soprattutto se si possono mostrare con una certa ripetuta ossessività, quattro ballerine in bikini che ballano un beat psichedelico nel locale dove tutte le altre comparse sembrano avere dei grossi problemi di movimento.  Per la scena "SCULT" assoluta si deve aspettare il finale (se si riesce a stare svegli) quando vediamo il wrestler di Hidalgo combattere i suoi nemici in mezzo a casse da morto dove uno stuolo di vampiresse oscilla in maniera assurda le sottovesti. Per il resto "La venganza" ci regala due soliti combattimenti “accellerati” in pellicola, tante protesi dentarie, recitazioni al limite della denuncia e l'immancabile maschera d'argento che il Santo non si leva manco quando dorme. 

lunedì 9 dicembre 2019

THARZAN - LA VERA STORIA DEL FIGLIO DELLA GIUNGLA

(1991)

Regia Joe D’Amato

Cast Rocco Siffredi, Rosa Caracciolo, Nikita Gross

Genere: Porno, Avventura, Commedia

Parla di “Versione a luci rosse del celebre selvaggio della giungla che si tromba mezza Savana”

E qui siamo dalle parti di un classico, una di quelle pellicole che, per quanto riguarda il mondo del cinema a luci rosse, ha fatto la storia. Del resto Joe D’Amato non solo era un grandissimo regista ma aveva il pregio di rendere oro quello che altri avrebbero trasformato in merda. A questo poi aggiungiamo la presenza come protagonista di una vera e propria rockstar del porno come Rocco Siffredi e dulcis in fundo la presenza come co-protagonista di Rosa Caracciolo, attrice pornografica dalla bellezza intensa nonché moglie dell’attore. L’intento è quello di rilasciare una versione hard del film “Greystoke – La leggenda di Tarzan, signore delle scimmie” che anni prima ottenne un grande successo sia di pubblico che di critica e collaborò a lanciare la carriera di Cristopher Lambert, aggiungendo però quell’elemento sessuale finora negato al personaggio ideato da Edgar Rice Burroughs. 

Il tutto in una versione casareccia e ruspante dove la giungla è un parchetto romano con tanto di antiche rovine imperiali allargato grazie ad un continuo montaggio di panorami della Savana africana con tanto di scimmiette che zompano da un albero all’altro, tra queste anche una bruttissima versione di Cheeta che non è più uno scimpanzè ma una qualche scimmietta a metà tra il babbuino e il macaco. Siffredi apre la bocca e scatta la registrazione del vero urlo di Tarzan, rubato da qualche vecchio telefilm in bianco e nero. Indossa dei ridicoli stivaletti con il pelo e fa divertentissimi mugugni da scimmione quando giunge all’orgasmo. Dopo una serie di zompate con l’esploratrice Jane, questa scopre, in una cassettina in mezzo alle carabattole dell’uomo scimmia, le sue nobili origini e lo convince a tornare nella civiltà. Finiscono quindi nei ricchi possedimenti di un bellimbusto innamorato di Jane, il quale insiste perché la donna lo sposi al più presto. 

Dopo aver scoperto questa passione segreta tra l’amata e il proprietario della villa, il povero Tarzan non può far altro che consolarsi sbattendosi tutte le ospiti femminili della magione, cameriera compresa. In tutto questo l’inconsolabile Jane passa il tempo dietro porte e finestre ad ammirare le gesta amorose dell’instancabile selvaggio, fino a quando le diatribe tra innamorati verranno risolte in una liberatoria scopata finale. Quello che salta agli occhi in quest’ennesimo titolo alimentare del buon Aristide è la sorprendente cura nella fotografia e in particolare nell’illuminazione delle scene. Mentre le sequenze di sesso proseguono praticamente come un copione a scala industriale (pompino, candela, pecora e ops…eiaculazione facciale obbligatoria), ci troviamo, in certi momenti, ad ammirare scene quasi vittoriane. La professionalità e il mestiere di uno dei più grandi artigiani della storia del cinema italiano sono gli elementi che fanno la differenza, anche in un porno becero e scontato come questo. All’estero è conosciuto come Tarzan X: Shame of Jane.

lunedì 2 dicembre 2019

LOST WORLD – PREDATORI DAL MONDO PERDUTO

(Raptor Island, 2004)

Regia: Stanley Isaacs

Cast: Lorenzo Lamas, Steven Bauer, Hayley DuMond

Genere: Fantascienza, Horror, Monster Movie

Parla di “Cazzuti Navy Seals in missione di recupero su Isola infestata da Velociraptor e T-Rex “ 

Steven Spielberg ci avrebbe pensato due volte prima di trasferire su pellicola il romanzo di Michael Crichton Jurassic Park, se avesse potuto prevedere questa ondata di filmacci per la televisione ordinati dalle varie case di produzione low buget americane. Filmacci incentrati su modellini di dinosauri in 3D acquistabili con quattro dollari su Turbosquid e altri siti simili per poi essere buttati sullo schermo senza curarsi troppo della differenza tra sequenze girate e personaggi animati. Tutto merito (o colpa, vedete voi) del temibile SYFY CHANNEL, canale televisivo di genere nato nel nuovo millennio nonchè produttore di centinaia di filmacci come questo Raptor Island interpretato da Lorenzo Lamas, ex stella dei telefilm americani ed oggi riciclatosi in queste produzioni di basso profilo, imbarazzanti ma anche tanto spassose, al punto da rappresentare un “guilty pleasure” per molti appassionati di cinema di genere. L'inizio del film ci rivela subito di che pasta è fatto il carrozzone, vediamo un modellino d'aereo certamente mosso da fili di nylon, che viene colpito da un dardo fiammeggiante pyroclusterizzato alla cazzo. All'interno del velivolo c'è una cassa...ma chissà cosa mai ci troveremo dentro? 

Le scene ci riportano ai tempi nostri dove un gruppo di Navy Seals capitanati da un rigido Lamas devono salvare un agente della CIA sotto copertura, rapito dai terroristi su una chiatta in mezzo al mare. Vistosi assaliti, i terroristi fuggono con l'ostaggio (che guarda caso è una donna!) e vengono inseguiti dal gruppo di salvataggio su un'isola deserta dove i nostri scopriranno ben presto di non essere soli. L'isola infatti è abitata da ferocissimi raptor digitali, che faranno a pezzi la maggioranza di buoni e cattivi. Come se non bastasse, c'è anche la presenza di un T-Rex cornuto che cazzeggia avanti e indietro per l'isola senza meta e sinceramente se lo potevano anche evitare. Si scoprirà in seguito che la causa di tutte queste mutazioni giurassiche è un recipiente di piombo radioattivo che ha inquinato il terreno dell'isola... si perchè ovviamente, tutti sanno che i Raptor spuntano come funghi dal suolo e se non vengono innaffiati a dovere poi si incazzano e ti sbranano!  Ben presto i nostri eroi scopriranno che i temibili Raptor vivono in una gigantesca grotta sotto il vulcano che, sfiga vuole, inizia a eruttare proprio quando i soldati entrano nella grotta, scatenando fiumi di lava digitale e aperture del terreno disegnate su pellicola con il pennarello. Il tutto mentre l'elicottero di salvataggio gironzola per l'isola consumando carburante salvo andarsene giusto quando i nostri riescono finalmente a raggiungere il punto di recupero. 

A quel punto lo sceneggiatore ci ripensa e fa tornare indietro l'elicottero per il salvataggio, entra in scena l'ultimo terrorista rimasto ma viene divorato dal T-Rex, tanto perchè altrimenti non si poteva giustificare la presenza del mostruoso carnosauro. Nel finale vediamo anche i Raptor fuggire dall'isola nuotando in attesa del sequel. A parte gli effetti digitali veramente osceni, anche i dialoghi rasentano il ridicolo, sembrano infatti un compendio di frasi ad effetto tipiche del cinema d'azione americano buttate una sull'altra in modo casuale. Fotografia piatta e televisiva che fa sembrare rimpiangere le telenovelas brasiliane, musiche anonime e una storia di quattro pagine tirata per le lunghe giusto per raggiungere i canonici 90 minuti necessari alla messa in onda. Dirige per la prima (e fortunatamente ultima) volta Stanley Isaacs il cui unico merito è quello di aver capito subito dopo che questo non era il suo mestiere. 

lunedì 25 novembre 2019

THE ROOM

(2003) 

Regia Tommy Wiseau 

Cast Tommy Wiseau, Greg Sestero, Juliette Danielle 

Genere: Drammatico, Romantico, Commedia 

Parla di “Giovane romantico e benefattore tradito dalla fidanzata con il suo miglior amico” 

Prima di approcciarsi a questo capolavoro assoluto del brutto, consiglio di dare un’occhiata al bellissimo The Disaster Artist, puro atto d’amore realizzato da James Franco nei confronti di Tommy Wiseau, personaggio enigmatico ed allo stesso tempo carismatico, sempre in bilico tra l’egocentrismo puro e il sospetto farlocchismo di un personaggio che, in quanto ad amore per il cinema ed incapacità di farne, riesce ad eguagliare il compianto Ed Wood, con la sola differenza che al primo è bastato un solo film per entrare nell’olimpo dei peggiori registi del mondo: il tanto vituperato ma altrettanto adorato The Room. La pellicola nasce da un progetto realizzato assieme all’attore Greg Sestero, coprotagonista del film e complice di Wiseau di quel tipo d’amicizia nata per un incontro fortuito e destinata a finire male proprio per la sua natura travagliata ed estemporanea, un progetto che già sulla carta non trova grandi motivi di interesse se non quello di narrare una storia d’amore banale con un finale telefonato, ma che proprio nella sua realizzazione raggiunge il nirvana del brutto inossidabile e dell’imbarazzo assoluto. 

Talmente estremi sono i concetti rappresentati (amore, tradimento, amicizia), talmente cagnesca la recitazione generale (Wiseau in questo è una spanna sopra gli altri) e talmente scritta male da rasentare il sublime. Wiseau gira in due ambienti principali, un terrazzo e un paio di stanze dai riflessi rossastri, con tendine di seta bianca sul letto e valanghe di petali di rosa che manco in un film bollywoodiano. Ogni tanto riprende qualche esterno con strade semideserte (il film è stato girato in estate sotto un caldo terrificante) percorse pigramente da caratteristici tram, giusto per far capire che siamo a Los Angeles. In questo bell’ambientino borghese entrano ed escono tutta una serie di personaggi più o meno credibili, c’è il giovane Danny, un orfano adolescente che il protagonista Johnny ha “adottato” pagandogli casa e studi, Lisa (Juliette Danielle) la fidanzata viziata e volubile e ovviamente Mark, l’amico del cuore di Johnny di cui Lisa è segretamente innamorata, interpretato da Greg Sestero. Le prime scene rasentano la telenovela più zuccherosa e vomitevole che esista, il buon Johnny torna a casa con un vestito rosso e tante rose per Lisa, i due vanno in camera e, con sottofondo un rock romantico da far sciogliere un vinile al polo nord, scatta l’amplesso in un vortice di sentimentalismo degno di Uccelli di Rovo. Peccato che nella scena successiva, senza alcun nesso temporale, cambi tutto. Lisa rivela a sua madre che non vuole più sposare Johnny perché lo trova noioso e successivamente avvia una tresca con Mark, irretendolo a colpi di tetta. Lo stucchevole menage si protrae stancamente per un’ora e mezza fino al prevedibile quanto goffo finale tragicomico. Wiseau cerca di buttarci dentro qualche sotto trama, Denny inguaiato con uno spacciatore, la madre di Lisa con un cancro al seno che sembra debba morire di lì a poco ma ogni volta che la vediamo sta sempre meglio, il tutto senza alcuna continuità nella storia, così come le ridicole effusioni amichevoli a colpi di football nel cortile in cui gli stessi attori sembrano non aver alcuna voglia di giocare. 

Ma il grande anfitrione Tommy Wiseau, con uno script realizzato appositamente per renderlo una specie di super Sex Symbol (ricco e virtuoso benefattore, vittima fragile degli eventi, grande amicone di tutti, ipermuscoloso e capellone come Jim Morrison), ci regala perle su perle di non recitazione, con espressioni che passano dalla statua di sale alla statua di cera fino alla statua di marmo (passando ogni tanto nel settore “statue di m….”) il cui zenith assoluto è la sua pacatissma reazione quando scopre il tremendo adulterio dei suoi due migliori amici. Eppure, a giudicare semplicemente dall’intensissima colonna sonora di Mladen Milicevic, qualche soldino Tommy Wiseau ce lo deve aver messo, peccato che a combattere la possibilità di realizzare, non dico un buon film, ma almeno un prodotto accettabile, si sia intromesso l’abnorme ego del regista stesso che ha curato, oltre alla produzione, anche la scrittura e la regia. Comunque The Room è il classico esempio di quanto sia strano il destino di certe opere, se fosse diventato, in mano a veri professionisti, un film decente, oggi non se lo cagherebbe nessuno, e invece come “Worst Movie” si è ritagliato un posto d’onore nell’olimpo delle chiaviche in pellicola, con stuoli di fan (gentaglia tipo James Franco, eh!) adoranti che lo venerano come una preziosa reliquia di inizio millennio, un’onore che pochi altri film (tra cui il “nostro” Troll 2 di Claudio Fragasso) possono vantare.

lunedì 18 novembre 2019

LA NOTTE DELLA COMETA

(Night of the Comet, 1984)

Regia Thom Eberhardt

Cast Catherine Mary Stewart, Kelli Maroney, Robert Beltran

Genere: Fantascienza, Post Apocalittico, Horror, Commedia

Parla di “Cometa passa sulla Terra, incenerisce tutti e trasforma in zombie i superstiti

Come girare un post apocalittico senza soldi dove ci sono zombi antropofagi dappertutto ma nel film se ne vedono solo due o tre? Cari filmmakers da quattro soldi, prendete esempio dagli anni ottanta e in particolare da questo cult datato 1984 scritto e diretto da Thom Eberhart, regista non particolarmente brillante e poco attivo nel corso della sua carriera (probabilmente questo è l'unico film degno di nota, il che la dice lunga!). Il film ci introduce al passaggio della cometa di Halley sulla Terra, attesa come un vero e proprio evento da una comunità cittadina (il commesso del cinema che vende cerchietti per capelli con palline filanti che riproducono la cometa), solo la giovane Regina (una splendida Catherine Mary Stewart poco sfruttata nel mondo del cinema, la ritroveremo infatti solo in Weekend con il morto nel 1989) sembra più interessata a fare punti in un arcaico videogame da sala che all'evento, tant'è che preferisce passare la notte in una sala proiezione con un avvenente giovanotto. Meglio per lei, dal momento che al mattino dopo, l'intera città sembra deserta, disseminata di abiti usati pieni di polvere rossa. 

Dall'incontro con un clochard zombie la nostra protagonista scopre che il mondo è un pò cambiato dalla notte precedente. Regina raggiunge la sorella Samantha, unica sopravvissuta in casa e insieme si rifugiano in una stazione radio dove incontrano un altro sopravvissuto di nome Hector. Il giovane passa la notte con loro ma poi decide di andare a casa a vedere come stanno i familiari, nell'attesa che ritorni, le due sorelle si gettano a fare shopping selvaggio in un centro commerciale accompagnati da una brutta cover di Girls just wanna have fun di Cindy Lauper (evidentemente non c'erano i soldi per la canzone originale) e si scontreranno con un gruppo di commessi zombie prima e un gruppo di scienziati, dopo, alla ricerca del sangue di sopravvissuti per trovare un siero in grado di contrastare il processo di trasformazione in mostri che li sta divorando. 

Filtrato da colori rossi ipersaturi il mondo post-apocalittico di Eberhart inquadra due o tre vie giusto per dare il senso (risicato) della desertificazione metropolitana, mette in piedi un make-up piuttosto dozzinale dei mostri (in pratica allarga le orbite degli occhi per deformarne i lineamenti) e punta la cinepresa sulle due sorelle, inaspettatamente toste e combattive alla faccia di chi vedeva, in quegli anni, il sesso debole accaparrarsi solo ruoli da vittima. Regina tira calci e pugni, si tromba chi vuole, smitraglia a destra e a manca e indossa all'inizio dei calzini sotto i tacchi da vomito. Il film butta praticamente in caciara la fine del mondo rendendola improbabile e ridicola come le scene del bambino zombie che insegue Hector ("Sei fortunato che mi piacciono i ragazzini!") o il doppio sogno di Samantha e lo zombie poliziotto, il tutto  arricchito con humor di grana grossa tipico degli eighties pregno di battute di dubbio gusto e situazioni sull'orlo del ridicolo.  

lunedì 11 novembre 2019

SEXANDROIDE

(Les SexAndroides, 1987)

Regia Michel Ricaud

Cast Denis Dubois, Compagnia del piccolo Mescal

Genere: Estremo, Splatter, Horror, Commedia

Parla di “Tre episodi pretestuosi per mostrare un po' di carnazza e qualche budella

Una cosa è certa! Qualora mi trovassi a corto di spazio nello scrivere questa recensione, saprei cosa omettere: il nome del regista! Grande assente di questa ridicola pagliacciata semiamatoriale girata in 8 mm ai bei tempi della VHS Generation. Per girare come il francese Michel Ricaud è sufficiente piazzare una cinepresa in mezzo alla stanza, mettere due faretti, qualche tendina come scenografia e lasciare che gli attori (a questo punto però meglio lo stesso attore a interpretare più ruoli così si risparmia) facciano un po come cazzo gli pare! Il risultato? Un goffo tentativo di riesumare il Grand Guignol con tre mini episodi assolutamente privi di trama e di sceneggiatura dove l’attore Denis Dubois interpreta di volta in volta il ruolo da protagonista. Nel primo episodio c’è un mago voodoo che si diletta a strappare i vestiti ad una bambolina e farne cose indicibili, il tutto ai danni di una avventrice di un locale impegnata a rifarsi il trucco nella toilette. In un tripudio di vomito e sangue si compirà l’insano destino della poveretta, il tutto senza alcun dialogo ma la scenetta in cui gli si strappano i vestiti da sola (in realtà si vede che c’è qualcuno dietro ad un angolo che gli tira i lembi) è la cosa più divertente del film.


Il secondo episodio è decisamente il più malato con una specie di orco con una ridicola maschera da Fantasma dell’opera con la mascella a becco d’aquila che si diverte a infilzare con lunghissimi aghi i seni di una poveretta legata alla sedia all’interno di una cantina talmente squallida da mettere realmente angoscia. Ma non solo, gli mette in bocca un ragno schifoso (di plasticaccia malfatta peraltro) e alla fine gli strappa un occhio con due mani in un tripudio di sangue e una dovizia di particolari da far invidia al miglior Lucio Fulci. La lentezza dei movimenti, l’assenza, anche qui, di dialoghi (se si esclude un’inutile voce fuori campo a inizio scena) e l’efferatezza delle torture rendono la visione decisamente estrema e disturbante. Di tutt’altro respiro il terzo episodio dove il ridicolo ammanta completamente l’atmosfera. Siamo anche qui in una specie di cantina dove una tizia vestita a lutto prega davanti ad una bara di cartone. Ad un certo punto si avvicina troppo e il cadavere risorge mordendola sul collo con zanne oscenamente ricoperte di bava biancastra.

Da qui in poi, la donna, seminuda, in un completo da sexy Morticia Addams, inizia a ballare in maniera assolutamente ridicola e scoordinata al suono di What’s love (got to do it) e I might have been queen di Tina Turner, alla quale dubito fortemente sia pervenuto un centesimo di diritti d’autore da questa assurda pantomima danzereccia. Oltre a Dubois, il regista mette in mostra una serie di donzelle quasi tutte seminude con un intento più teatrale che cinematografico con una spiccata predilezione per il macabro e l’orrido che si mescolano alla comicità involontaria (o volontaria?) e al cattivo gusto. Cult assoluto per gli amanti del cinema estremo, la cui visione viene decisamente alleggerita dalla sua brevissima durata e dal continuo impatto shock con il gore che rende quantomeno divertente e doveroso dargli un’occhiata.

lunedì 4 novembre 2019

GRIDA DI ESTASI

(Cries of Ecstasy, Blows of Death, 1978)

Regia Antony Weber

Cast Sandy Carey, Michael Abbott, Uschi Digard

Genere: PostAtomico, Fantascienza, Erotico

Parla di “Sopravvissuti catastrofe nucleare in bolle di ossigeno, danno sfogo a turpetudini varie in vista dell’apocalisse

Alla prima visione di questo soft-core fantascientifico di Antony Weber pensavo ad un difetto della videocassetta, tutto questo per il viziaccio brutto che ho di non leggere mai di un film per il quale mi accingo alla visione, onde evitare spoiler e manomissioni del mio libero arbitrio nel giudicare. Solo dopo aver attinto le dovute informazioni ho compreso di avere tra le mani l’edizione italiana, dove, per qualche misterioso fine a noi sconosciuto, è stato aggiunto un prologo di 10 minuti rubato senza alcuna vergogna da La Città verrà distrutta all’alba di George A. Romero, oltretutto montato alla cazzo. Il tutto per giustificare le esplosioni atomiche che susseguono prima dei secondi titoli di testa (quelli veri) e che danno l’avvio al film effettivo. A parte il fatto che sulle prime sequenze del capolavoro romeriano viene appiccicato il titolo originale (Cries of Ecstasy, Blows of Death) con la peggior grafica di video della prima comunione all’epoca del VHS-C, nei frame successivi spunta anche un primo allucinante titolo italiano (Sesso Delirio) e quello seguente che traduce pedissequamente la prima parte di quello originale (Grida di estasi).  

Insomma se le premesse sono queste c’è poco da stare allegri, per fortuna c’è una tranquillizzante voce fuori campo che ci spiega quello che è successo dopo. Praticamente la terra è diventata un deserto sterile dove l’aria è completamente avvelenata, al punto che i superstiti devono andare in giro con le maschere antigas. Ma c’è poco da gironzolare, vista anche la presenza di bande di motociclisti assassini e stupratori. I sopravvissuti sono confinati in bolle di plastica trasparente almeno fino a quando anche quest’ultimo scampolo di ossigeno presente nelle tende non si esaurirà e con esso la completa estinzione del genere umano. Una situazione pessimistica che però dà modo ai pochi rimasti di sfogare le proprie perversità sessuali, in vista dell’olocausto finale. Ma soprattutto da modo al regista di puntare l’obiettivo su un tripudio di corpi nudi che si agitano, fremono e copulano in queste bolle ad ossigeno arredate con design tipicamente anni settanta. 

Protagonista (per quanto non sia proprio necessario un protagonista in questa vicenda) è un militare vestito come un capo villaggio africano, armato di arco che gironzola con una tizia incontrata fuori dalla tenda, mentre la sua convivente, una Milf bionda e isterica che si strugge nel terrore di una morte imminente e chiede insistentemente al militare di ucciderla. Poi c’è un maniaco sessuale che continua a sollevare in alto una sgarzellina nuda che si agita e squittisce come una lontra arrapata e, dulcis in fundo, una coppietta giovane che affronterà i teppisti in motocicletta a colpi di Kung Fu imparato per corrispondenza. Alla fine, com’era prevedibile, l’apocalisse avrà la meglio, si salverà solo la voce narrante, giusto per dare una degna conclusione a questo pastrocchio post-atomico. Nel cast una breve parte per Uschi Digard, nordica popputa aficionadas del cinema di Russ Meyer. 

lunedì 28 ottobre 2019

THE RAGE

(2007)

Regia: Robert Kurzman

Cast: Andrew Divoff, Erin Brown, Ryan Hooks

Genere: Horror, Splatter

Parla di “Scienziato russo infetta con siero della rabbia stormo di avvoltoi che si trasformano in creature mostruose

Quella di Robert Kurzman è decisamente una carriera singolare, la si potrebbe riassumere con il detto  "dalle stelle alle stalle" ma forse sarebbe più appropriato citare uno dei film in cui ha lavorato, ovvero From Dusk ‘Till Dawn (It. Dal Tramonto all'alba). Il nostro eroe, esperto di make-up ed effetti speciali, faceva infatti parte della cricca della K.N.B. EFX Group insieme a Gregory Nicotero e Howard Berger con il quale ha praticamente segnato tutto il cinema horror americano della seconda metà degli anni ottanta fino a raggiungere la nomination per gli Oscar con The Chronicles of Narnia: The Lion, the Witch and the Wardrobe  (It. Le Cronache di Narnia -Il leone - La strega - L'armadio). Ebbene nel 2002 il buon Kurzman decide insieme alla moglie di mettersi in proprio e fonda la Precint 13 Entertainment con la quale produce e dirige nel 2007 questo The Rage. Ora, guardando il primo film di questa sfigatissima casa di produzione, viene da pensare con tristezza a quanto si può cadere in basso alle volte. 

Intendiamoci, il film non è così terribile, ma la confezione, unita a alla rozzeria degli effetti speciali, è veramente imbarazzante. Il film inizia con un laboratorio nascosto nei boschi dove un mad doctor russo di nome Viktor Vasilienko (Andrew Divoff) esplora i confini del cervello umano scoperchiando scatole craniche e sperimentando il siero della rabbia nel ridicolo tentativo di trovare una cura per il cancro. Nel marasma di budella e sangue viene morso da una delle sue cavie che riesce a fuggire e durante un rave party, fa a pezzi una coppietta appartata in auto. Il mattino dopo il mostro tutto bubbe e incazzatura cade a terra morto, ma non finisce qui perchè un gruppo di avvoltoi realizzati con una CGI cagnesca (ma poi gli avvoltoi nei boschi? Mah!) pasteggia con le carni infette e diventano anch'essi delle bestiacce rabbiose e contagiose. Ne fa le spese uno zio pescatore che, morso da uno degli uccellacci, diventa anche lui tutto bubbe e sangue e fa a pezzi il nipotino a bastonate. Ma i protagonisti veri del film, sono un gruppo di ragazzetti idioti che scorrazzano con un camper di ritorno dal rave party, i quali dopo aver investito lo zio mostro devono affrontare i pennuti che spuntano dai finestrini dell'automezzo e vomitano in faccia al guidatore. 

Nel tentativo di fuga, i sopravvissuti, manco a dirlo, finisco proprio nel laboratorio di Vasilienko e qui saranno proprio cazzi amari. Nonostante la storia proceda speditamente e l'abbondanza di Gore crei una situazione di grande intrattenimento, l'uso mixato di make-up e effetti computerizzati rende il film straniante, perché, se da un lato non si può non ammirare la bravura di Kurzman nel creare protesi e maschere grondanti di mostruosità sanguinolenta, dall'altro si rimane disgustati dalla bruttezza dei pennuti e da certe spruzzate di sangue digitale miste a varie esplosioni digitali malamente amalgamate alla sequenza. La trama e i dialoghi profumano di genuino Trash con reminescenze del grande periodo anni ottanta quando Kurzman curava opere come Night of the Creeps (It. Dimensione Terrore), Evil Dead II (It. La Casa 2) o Army of Darkness (It. L'armata delle tenebre). Sugli attori è meglio sorvolare vista la cagneria generale, rimane comunque un divertente trashone che si guarda con piacere ed ha comunque il non disprezzabile merito di non prendersi troppo sul serio.   

lunedì 21 ottobre 2019

TROPICAL INFERNO

(Frauen fur zellenblock 9, 1978)

Regia Jesus Franco

Cast Howard Vernon, Karine Gambier, 
Susan Hemingway

Genere: Woman in prison, Drammatico, Erotico


Parla di: “tre prigioniere legate alla catena e una studentessa torturata in un carcere nella foresta”

Tra le ambientazioni utilizzate nel genere WIP (Women in Prison) quella sudamericana è stata la più gettonata, vuoi perché all’epoca le dittature panamericane erano all’ordine del giorno, soprattutto con il loro carico di orrori e oppressione (si pensi al Cile o all’Argentina), vuoi perché le location con edifici spesso vecchi e malmessi, risultavano molto economiche e ovviamente per la presenza, quasi sempre, di una fitta foresta simil/ammazzonica dove poter far sgambettare le protagoniste, meglio se nude come mamma le ha fatte, come nel caso di questa milionesima pellicola del prolifico Jesus Franco, in cui, tanto per cambiare si mescola l’eros più pruriginoso con il torture porn e l’avventura esotica. In prima battuta, vediamo un vecchio camioncino, che trasporta frutta e verdura, correre in una strada sterrata ai margini della foresta. Ad attenderli c’è un drappello di soldati capitanati da un Howard Vernon imbolsito e sudaticcio che fuma come un ossesso, insieme ad una milf in divisa e capelli corti che si chiama Loba (Dora Doll) ed è la crudele direttrice della prigione protagonista della vicenda. All’interno del camion i soldati scoprono un gruppo di ragazze fuggiasche ma di queste solo due vengono portate via. 

Le altre vengono violentate fra le foglie e probabilmente uccise. Insieme alle fuggiasche viene prelevata anche Karine (Karine Gambier) membro della ribellione alla guida del camion. Le tre prigioniere sono appese con una catena al collo in una lercia cella, quella che da il titolo al film dal momento che il numerino stampato su cartone pressato viene inquadrato con una certa insistenza. Altra protagonista è una giovane studentessa colpevole di distribuire volantini sovversivi e per questo viene lasciata morire di sete fino a quando non sarà costretta da Loba ad infilare la sua lingua tra le cosce dell’aguzzina, salvo poi ricevere dal crudele Vernon un bicchiere di champagne salato. Il film è sostanzialmente diviso in due parti, i primi quaranta minuti sono incentrati sulle terribili torture ai danni delle tre prigioniere, una dovrà salire su una panca di legno a cui vengono applicati dei coni di metallo dolorosissimi per la regione pubale della poveretta. La seconda si becca invece delle scariche elettriche mediante elettrodi applicati sul seno e sulla pancia ma è la povera Karine a subire le peggiori torture. Dapprima verrà deflorata con un corno e poi, attraverso un tubo, riceverà nella vagina la sgradita visita di un criceto affamato (Tortura ripresa anche nell’ottimo Morituris del nostro Raffaele Picchio).

Nella seconda metà il film procede con la fuga delle nostre eroine, assai poco rocambolesca e contrassegnata soprattutto dalle nudità ostentate in mezzo al fogliame, con un pasticciato montaggio di coccodrilli che dovrebbero minacciare le nostre durante la traversata di un fiumiciattolo ma di fatto non succede niente. Prodotto in Svizzera con un cast ormai di famiglia per il prolifico Franco (Sia Vernon che la Gambier hanno lavorato parecchio col regista madrileno) il film presenta numerose scene disturbanti ma vale sicuramente la pena di vederlo per il connubio di bellezze presenti in tutto il loro splendore naturelle, in particolare per Susan Hemingway (al secolo Maria Rosalia Coutinho) che è di una bellezza folgorante, peccato abbia lavorato pochissimo nel cinema e in titoli non propriamente edificanti.

lunedì 14 ottobre 2019

CENERENTOLA ASSASSINA

(2004) 

Regia: Enrico Bernard 

Cast: Emanuela D'Alterio, Fausto Lombardi, Letizia Letza 

Genere: Thriller, Drammatico, Erotico 

Parla di: “Sottospecie di Fight Club al femminile dove il gioco al massacro è riuscire a capire qualcosa della trama” 

Non si capisce bene l'intento del regista Enrico Bernard nel voler realizzare questo "film" (vabbè! Per comodità lo chiamiamo così...), parte come un erotico con pruriti saffici per poi deviare verso una piece teatrale sopra le righe e approdare al cinema sado-maso con sprazzi visionari. L'assenza di una sceneggiatura compiuta, la sensazione che gli attori recitino improvvisando, i testi prolissi che sembrano usciti da un canovaccio del 1400 e il montaggio ossessivo di dettagli anatomici femminili fanno pensare al tentativo da parte del regista e (guardacaso) drammaturgo di realizzare un film artistico e intellettuale. Purtroppo per noi il risultato finale è invece chiarissimo, siamo di fronte ad un altro delirante e assolutamente imbarazzante filmaccio Trash senza capo ne coda. 

Bypassando le inquadrature dei titoli di testa che indugiano su un primissimo piano di un pube bello fiorito titillato da una catena, vediamo subito un imbarazzante servizio televisivo dove la giornalista non sembra neanche lei cosa deve dire. Poi c'è una tizia ricciolona che riceve la telefonata di una ragazza che vuole diventare una campionessa. Ed infatti la riccia, in combutta con un altra racchiona che ha un accento straniero e fa lunghi discorsi ipnotici manco avesse assunto LSD al mattino presto, gestiscono una specie di palestra per sole donne che fanno pugilato a tette di fuori. Se si legge la sinossi dovrebbe trattarsi di una specie di fight club dove si ammazzano di pugni gli uomini ma nel film non si vede una beata fava a parte continui montaggi di vagine prigioniere di cordami e il solito abbozzo lesbo in sauna dopo un ridicolo allenamento . Poi la scena cambia e siamo di fronte ad un interrogatorio di una tizia (che dovrebbe essere la novizia del fight club ma non si capisce bene) che sembra essere stata violentata. La poliziotta che la interroga si crede invece di essere in una puntata di Squadra Antimafia visto che il livello recitativo è quello. Fa veramente ridere vedere la sbirra che si sbatte per tirare fuori la verità dalla tizia con la sbavatura di rossetto e un' aria s
cazzata, snocciolando dialoghi del tipo

"non fumo", "allora perchè hai le dita gialle?", "perchè magari fumavo ma ho smesso o magari fumavo e non mi ricordo se fumavo", e poi, "me ne vado", "mi lasci sola", "no, non voglio lasciarti sola", "voglio la verità", "ma sei lesbica?". 

Se esiste, sarebbe divertente avere una copia dei dialoghi, si potrebbero organizzare feste a tema con questa scenetta bucolica che si alterna a quello che potremmo definire un flashback in cui la tizia cerca di suicidarsi, un uomo la ferma, lei lo invita in una specie di magazzino dove comincia a praticare su di lui un pò di sado-maso fino ad indossare i guantoni e sfidarlo a boxe. Nel finale il regista si concede anche un divertissement inserendo gli errori di scena, più che altro per allungare il brodo di un filmaccio sconclusionato e pretenzioso dove tutto è brutto: brutte inquadrature (facce e teste tagliate sono la norma), brutta musica (imbarazzante la canzone!), brutti (e cani) gli attori, brutte le luci, brutto il montaggio, i dialoghi e la sceneggiatura. Più brutto di Fatal Frames e Il Bosco1 messi assieme, talmente brutto che non compare neanche su IMDB e con questo ho detto tutto.

lunedì 7 ottobre 2019

TROG IL TERRORE DI LONDRA

(Trog, 1970)

Regia: Freddie Francis

Cast: Michael Gough, Joe Cornelius, Joan Crawford

Genere: Horror, Fantascienza

Parla di: “Troglodita delle caverne viene riesumato da speleologi ma non la prende bene e fa un macello

Giuro che non avrei mai pensato, un giorno, di includere nel mio bagaglio recensioni anche un film diretto da Freddie Francis, una delle perle delle più importanti case di produzione inglesi del dopoguerra, la Hammer e la Amicus, direttore della fotografia superlativo (ha lavorato molto con David Lynch) e direttore di alcuni cult horror quali Il Giardino delle Torture, Le Cinque chiavi del Terrore, Il terrore viene dalla pioggia, tanto per citare i più conosciuti in Italia. Con un curricula così, Joan Crawford protagonista e John Gilling (La lunga notte dell’orrore) tra gli sceneggiatori non potevo che aspettarmi un gran film. In effetti l’inizio è incoraggiante, con un trio di giovani speleologi che scopre una caverna nascosta dietro un canale sotterraneo, peccato che quando la creatura, il Trog, esce dall’ombra, crolli il miraggio di trovarsi di fronte all’ennesimo ottimo horror britannico. Il costume del troglodita ripescato nelle grotte è un qualcosa di abominevole, roba che andrebbe perfettamente a nozze con l’Aborym de La Croce dalle Sette Pietre, anche se quest’ultimo, forse, è fatto anche meglio. 

Di sicuro Marco Antonio Andolfi vi si è ispirato parecchio per la sua trasformazione in uomo lupo, stessa pelliccetta pelosa su corpo seminudo, stessi ciuffetti di pelo sul dorso della mano. A completamento del Trog c’è poi una ridicola maschera da scimmione verdastra che stona in maniera vistosa con il color carne di Joe Cornelius, l’attore che si nasconde sotto il costume (?), talmente deformata in fronte che viene da pensare sia uno scarto di fabbrica riciclato direttamente dal set de Il Pianeta delle Scimmie. Il dettaglio più trash rimangono, in ogni caso, le calzature. Ora capisco che un troglodita, ibernatosi durante l’ultima glaciazione e scongelato nelle oscure grotte della campagna inglese, possa anche vestirsi con una pelliccia di capra pulciosa (presa non si sa dove visto che la fauna della grotta era costituita unicamente da rettili) ma che riesca poi, con abilità sartoriale, a realizzarsi due stivaletti di pelo perfettamente calzanti e degni di Harrod’s, questo rimane un mistero. Il mostro, in ogni caso, viene catturato dalla solerte dottoressa Brockton (interpretata da un’imbarazzatissima Crawford) dopo che ha fatto un vero e proprio massacro, tirando macigni contro la troupe televisiva intervenuta a documentare l’evento. 

Viene messo in una gabbia dove la scienziata lo trastulla con bambole a molla, trenini elettrici e palle colorate. Viene anche operato per farlo parlare e ad un certo punto, non si capisce bene perché, dalla sua fronte appare un vortice verdastro che simula un flashback dove la produzione si cimenta in una sorta di omaggio a Ray Harryhausen con modellini di T.Rex e triceratopi che soccombono all’esplosione di un vulcano. Intanto Michael Gough fa l’accanito osteggiatore di questo esperimento, anche se non si capisce bene chi cazzo sia (Un politico? Un Prete? Boh!), sappiamo solo che, dai suoi discorsi, è contrario all’emancipazione femminile ed è un fervente religioso oscurantista, al punto da intrufolarsi nel laboratorio di notte e liberare il primitivo. Da lì in poi sarà un massacro per le strade di una cittadina ai sobborghi londinesi, con un anticipo di Non aprite quella porta in cui il mostro appende un macellaio ad un uncino per la carne. Il messaggio finale che viene trasmesso è che non si può guardare al futuro se non si è in grado di conoscere il proprio passato e, almeno di questi tempi, risulta essere un monito attualissimo. 

lunedì 30 settembre 2019

BABY LOVE

(1979)

Regia Rino Di Silvestro

Cast Paola Maiolini, Violette Lafont, Oliver Kris

Genere: Drammatico, Sexy, Surreale

Parla di “Figlia di una ricca vedova viene venduta a quattro faccendieri ma si ribella e fugge”

Quando si gira un film dove il fulcro dell'attenzione è rappresentato dal pelo non è che si possa pretendere chissà quale struttura narrativa, nemmeno chiedere a gran voce dei dialoghi coerenti e una recitazione di spessore ma questa pellicola scritta e diretta da Rino di Silvestro non solo riesce a negare totalmente questi tre elementi ma ha pure due pretese assurde nei confronti dello spettatore: 1) far ridere 2) fondere surrealismo favolistico con un'aberrazione autoriale decisamente incomprensibile. Il regista, che ci aveva deliziato con quel piccolo cult che era "La lupa mannara", sembra sciogliere lo script narrativo nell'acido mescolandolo con il trash della commediaccia boccaccesca e l'idiozia demenziale più gretta.  Il film sconfina poi in una supposta satira dell'intellighenzia teatrale ma alla fine converge tutti i suoi sforzi nell'unica destinazione possibile: mostrare quanta più fica possibile. 

Baby Love è una ragazzina simpatica come le zecche attaccate ai coglioni di un cane, la interpreta una certa Violette La Font la quale, viste le prodezze interpretative dimostrate in questo film, non lavorerà mai più nel cinema. Figlia di una ricca vedova che parla solo un linguaggio da mediatore finanziario con l'aggravante di un assurdo accento bolognese, viene venduta a quattro faccendieri di varie nazionalità, c'è il cinese che ovviamente mette la L al posto della R ed ha un fiuto infallibile di cui continuerà a vantarsi per tutto il film facendo smorfie da capra sgozzata. Abbiamo poi il russo che parla esclusivamente citando proverbi cosacchi, ucraini, siberiani ecc. ecc., un americano biondo tinto con la voce uguale a Stan Laurel doppiato in italiano e dulcis in fundo il signor Cannamozza, arricchito voyeur siciliano, forse l'unico che riesce a strappare un sorriso all'interno di questa orrenda gazzarra. Il film prosegue con le vicissitudini di Baby Love che scappa insieme ad un giovane aitante e finisce con un demente che si crede genio del teatro e non fa che urlare citando canovacci sconnessi per più di un'ora. 

Fra scene lesbo arrapanti come una martellata sugli infradito, frustate sado maso senza senso, masturbazioni psichedeliche e un incomprensibile impalamento su un fallo di legno, il film si spegne nella demenzialità più atroce nel finale dove i quattro idioti iniziano a saltare da tutte le parti strappandosi i vestiti di dosso mentre la macchina da prese si appanna, probabilmente esausta da tali porcherie. Di Silvestro insiste non appena possibile su dettagli anatomici femminili sia coperti da esili cinture di castità sia allacciati da divise da dominatrici in latex, c'è pure una scena di body piercing estremo con un ago che trapassa il capezzolo di un fabbro vestito da una toga finto romana mentre un trio di donne dal volto colorato di verde mima su di lui un imbarazzante movimento sessuale. Ciliegina sulla torta, il nostro regista ci rifila ad un certo punto anche una danza giapponese con maschere kabuki la cui lentezza rappresenta sicuramente il colpo di grazia all'interno di un'opera che, oltre ad una fastidiosa irritazione psico-cutanea non può fornire altri contributi allo sventurato spettatore. 

martedì 24 settembre 2019

NOTTI DI TERRORE

(The Devil Bat, 1940)

Regia: Jean Yarbrough
Cast: Bela Lugosi, Suzanne Kaaren, Dave O’Brien

Genere: Horror, Fantascienza

Parla di: “Chimico frustrato si vendica su propri nemici utilizzando profumo che attira pipistrelli giganti” 

Il termine Poverty, inserito all’interno del nome di una casa produttrice cinematografica, la dice lunga sulla qualità dei prodotti confezionati dalla stessa, ed infatti la PRC (Producing Release Company conosciuta anche come Poverty Row) si presentò per la prima volta sul mercato delle pellicole Horror con questo film a bassissimo budget di Jean Yarbrough che, sei anni dopo, girerà She Wolf of London, Thriller non memorabile ma se non altro pregno di una discreta dose di originalità. Stessa cosa non si può dire di questo Devil Bat (uscito da noi con il titolo Notti di terrore) in cui la mediocrità dell’impianto realizzativo fa a pugni con un’idea che, tutto sommato, poteva anche essere interessante. 

Il Dr. Paul Carruthers, impiegato in una ditta cosmetica, si sente frustrato perchè Heath, il padrone dell’azienda si è arricchito con i suoi profumi; medita così di vendicarsi e attraverso la stimolazione elettrica ingigantisce dei pipistrelli addestrati ad attaccare le persone alle quali viene applicato un determinato profumo di sua invenzione. Spacciandolo come nuova lozione da Barba, Carruthers offre il profumo ai figli di Heath che uno ad uno, vengono assaliti e sgozzati dal pipistrellone. Due giornalisti furbetti indagano sul caso, inizialmente tentando con l’inganno di arricchirsi pubblicando foto false del mostro salvo poi, alla fine, dipanare inaspettatamente, il bandolo della matassa. Pur dotato di qualche momento divertente, The Devil Bat presenta grossi limiti nello sviluppo narrativo, ripetendo spesso le stesse sequenze (ovvero quando i pipistrelli escono dall’abbaino per uccidere).

Yarbrough oscilla tra il comico e l’horror mentre Bela Lugosi attinge solo due espressioni dal suo bagaglio recitativo, ghigno sardonico e imbronciamento marmoreo da incazzato perenne, riuscendo in qualche momento a sbagliare pure l’alternanza delle due espressioni con risultati involontariamente surreali. Per la riproduzione del pipistrellone, invece, ci si affida a pupazzi di peluche alati e movimentati attraverso fili invisibili che simulano lo sbattito d’ali. Ogni tanto, durante le sequenze degli esperimenti, l’inquadratura del mostro si alterna a primi piani di un vero pipistrello, probabilmente ripreso durante la visita ad uno Zoo. Completa il tutto un cast mediocre che si regge sull’unico pilastro di Lugosi e sulla bella Suzanne Kaaren che ci offre un gradevole diversivo al piattume generale.   

lunedì 16 settembre 2019

LE NOTTI DEL TERRORE

(1981) 

Regia Andrea Bianchi 

Cast Karin Well, Gianluigi Chirizzi, Peter Bark 

Sono film come questo che rendono crudeli e irriverenti certi critici, soprattutto quando nel cast è presente un attore affetto da nanismo come Peter Bark, all'anagrafe Pietro Barzocchini che al pari di Plinio Fernando (ovvero la Mariangela di Fantozzi) appartiene a quella categoria di attori definita "vecchi bambini", cioè coloro che per ragioni estetiche e fisiche, possono essere utilizzati per interpretare minori con indubbi risultati trash demenziali. Il problema è che, mentre Mariangela Fantozzi era un personaggio di una saga comica, in questo frangente il film avrebbe dovuto, almeno nelle intenzioni, fare paura. In realtà proprio nel momento in cui la macchina da presa inquadra il giovine Michael disteso sul letto addormentato che, all'improvviso, apre gli occhi, parte il culto trash assoluto in cui vi è d'obbligo la risata sociale. Non parliamo poi dei pruriti edipici del pargolo nei confronti della madre, in una scena dove il bimbo, abbracciato e coccolato dal procace genitore, scatena il proprio arrapamento cercando di pomiciarsi la madre (per poi ricevere in cambio un sonoro schiaffone). 

Tolto il personaggio di Peter Bark, giustamente entrato nell'olimpo del trash per questa sua interpretazione, il film di Andrea Bianchi, la cui fama di mestierante e pasticciatore di generi nel cinema bis italiano supera lungamente i suoi reali meriti artistici, è uno zombie movie senza alcuna trama apparente se non un improbabile incipit dove un vecchio barbuto rovista nelle tombe etrusche prima di essere mozzicato a morte da uno zombie. I morti viventi spuntano fuori dal praticello all'inglese di una villona aristocratica dove convergono un improbabile gruppetto di snob per un weekend all'insegna dello scazzo. I domestici assistono all'esplosione in sequenza di tutte le lampadine di casa mentre le varie coppiette, disperse nel giardino reale, vengono assalite da questi orrendi mascheroni da teschio ricoperti da lombrichi penzolanti e larve che sporgono dalle cavita oculari. Vestiti con vecchi sai stracciati da monaci, i claudicanti esseri mordono e strappano viscere come se non ci fosse un domani, sono abili tiratori di chiodi giganti con cui crocifiggono alla persiana una domestica prima di decapitarla lentamente con una falce, usano asce, forconi e si arrampicano sui balconi, tutto con rigorosa lentezza. 

Del resto non è che i viventi dimostrino molte capacità di comprendonio e sagacia, a parte correre come matti, strillare come galline sgozzate e chiudersi da una stanza all'altra per tutto il film, non fanno, con grande dispendio di noia per lo spettatore. Se da un lato l'utilizzo del gore tipicamente fulciano, può dare qualche disturbo di stomaco, per il resto il film è completamente privo di idee, la recitazione è ridicola (a partire dalle facce che fanno gli attori) e le situazioni risultano davvero assurde. Alla fine non stupisce che a conquistare il cuore dei cinefili di tutto il mondo sia stato il volto contrito del buon Barzocchini, sorta di Benjamin Bottom  sul suolo italico che, una volta zombificato, si avventa come un putto diabolico a divorare il capezzolo in lattice della madre. 

lunedì 9 settembre 2019

THRILLER: A CRUEL PICTURE

(Thriller - en grym film, 1973) 

Regia Bo Arne Vibenius 

Cast Christina Lindberg, Heinz Hopf, Despina Tomazani 

Avvolto in un silenzio devastante, rotto solo dal fruscio delle foglie autunnali, l’incipit sembra uscito direttamente da un film pasoliniano, ed è subito un pugno nello stomaco vedere in primo piano l’orgasmo di un vecchio bavoso pensando, immaginando cosa stia facendo a quella povera bambina. L’incipit di questo cult svedese diretto da Bo Arne Vibenius non fa sconti a nessuno e, nella sua narrazione lenta e oppressiva ci porta crudamente all’interno delle sfortunate vicende della giovane Frigga, diventata muta dopo il trauma della violenza infantile e nonostante questo dotata di una innocenza disarmante, al punto da farsi irretire nuovamente alla fermata dell’autobus da un losco faccendiere che la trascinerà giocoforza nel mondo della prostituzione e della tossicodipendenza. Un mondo di violenza dove l’unico risultato alla muta protesta della protagonista sarà una crudele deorbitazione a colpi di bisturi, mostrata esplicitamente (si vocifera anche che per girare la scena fu usato un vero cadavere ma queste sono leggende non provate) in primo piano. 

Il volto antiespressivo ma quanto mai efficace dell’attrice Christina Lindberg si trasforma in una maschera di vendetta contrassegnata da una benda piratesca di stoffa, una maschera che impara gradualmente l’arte della vendetta utilizzando i proventi del proprio mercimonio per imparare a sparare, a guidare spericolatamente e a combattere con l’ausilio delle arti marziali. Un viaggio sciamanico verso la catarsi finale che porterà la giovane a uccidere spietatamente il gruppo di clienti aficionados oltre ovviamente al suo aguzzino. Ambientazioni rurali, disagiate e fredde contribuiscono a dare un senso di straniamento a questo rape&revenge che ogni amante del cinema exploitation dovrebbe vedere almeno una volta nella vita, non tanto perché titolo di culto amato e citato da Quentin Tarantino nel suo secondo volume di Kill Bill (e in particolare nel personaggio di Elle Driver interpretato da Daryl Hanna) quanto per l’ostentazione di un cinema iperrealista che non ammette sbavature ne cede il passo ad emozioni. 

È un racconto, una cronaca vera di un massacro annunciato che non può, né deve essere intralciato da false cadute verso l’emozionalità ed il falso buonismo (una parola che oggi sembra avere una connotazione politica diversa da quella realmente intesa). Bandito, osteggiato, massacrato da tagli censorei che hanno portato ad una duplice versione con due differenti titoli, la prima del 2004 intitolata Thriller: A cruel picture pesantemente decurtata da scene di sesso e violenza e la seconda, l’anno successivo intitolata Thriller: They call Her One-Eye in cui vengono ripristinate anche le scene hard girate con controfigure e dettagli da autentico cinema porno. Collaboratore di Ingmar Bergman nella seconda metà degli anni sessanta, Vibenius, come regista non avrà una grande carriera, ma questa sua opera intrisa di grande cinema nascosto nei meandri della shockploitation, ci da pienamente il senso spettrale del degrado di una società ai margini, un film senza speranza, disturbante ma luminoso, come il sole accecante in cui si consuma la vendetta finale dell’eroica Frigga.