martedì 26 gennaio 2021

INVASION OF THE STAR CREATURES

(1962)

Regia Bruno VeSota

Cast Frank Ray Perilli, Robert Ball, Dolores Reed

Genere: Fantascienza, Commedia, Demenziale

Parla di “alieni carota, amazzoni poppute, indiani ubriachi e due marmittoni che cercano inutilmente di fare i comici”

Prodotto da Samuel Z. Arkoff e diretto da quel Bruno VeSota che ci aveva già deliziati con quel filmaccio di The Brain Eaters, quest’assurdo “hellzapoppin’ del brutto senza mezze misure” mescola fantascienza tipica degli anni cinquanta con siparietti comico-demenziali nel tentativo di lanciare sullo schermo l’improbabile duo comico di Frankie Ray (Frank Ray Perilli) e Bob Ball (Robert Ball) che cerca senza successo di copiare il demenziale dei Fratelli Marx e l’idiozia calcolata di Jerry Lewis. Il risultato, ovviamente, non fa ridere nessuno, ma la pellicola offre notevoli momenti weirdo che gli estimatori del brutto hanno, negli anni a venire, rivalutato con ardore nostalgico.  
 
Trattandosi di un film comico demenziale non ci si stupisce più di tanto delle situazioni assurde a cui è costretto ad assistere lo spettatore. I due protagonisti sono dei marmittoni all’interno di un campo militare, la cui prima gag, scontatissima, vede la coppia caracollare davanti alla forza propulsiva di un manicotto antincendio, bruciarsi le chiappe con un sigaro e incastrarsi all’interno di un bidone metallico. L’ufficiale del campo è poi ancora più demenziale a pari merito con la sua segretaria che si mette la maschera antigas quando sente puzza di bruciato all’entrata dei due marmittoni. E così avanti, con questa qualità comica che fa letteralmente cadere i coglioni, si arriva ad una grotta di cartapesta dove i nostri eroi incontrano assurdi uomini carota, letteralmente due comparse vestite con tutine nere attillate, un sacco di juta malridotto in testa e filamenti di mais sparsi per tutto il corpo.  
 
A capo degli alieni due notevoli amazzoni chiamate Puna (Gloria Victor) e Tanga (Dolores Reed), entrambe vestite con improbabili completoni argentati e immancabili reggiseni a punta, all’interno di una ridicola astronave aliena piena di inutili pulsanti ed enormi lampade che fungono da caschi per il controllo mentale. A rincarare la dose vediamo anche una ridicola serra dove vengono coltivati gli uomini carota con vasetti pieni di zampe pelose e artigli minacciosi. Come se non bastasse ad un certo punto spunta anche un gruppo di indiani con cui i nostri due si ubriacano durante il rito del calumet. Alla fine l’amore vince sempre e dona elettricità, quindi ecco l’effetto sonoro della scossa elettrica mentre i marmittoni sbaciucchiano le prosperose aliene. Inutile cercare un senso alla trama, quando si assiste a lanci di pietroni di polistirolo, sgambettate nei boschi e battute comiche senza alcuna logica, ci si può solo prostrare ammaliati di fronte alla bruttezza in pellicola di questo assurdo Z movie che, probabilmente senza conoscerne il reale valore artistico, la MGM ebbe pure il coraggio di distribuire.





giovedì 14 gennaio 2021

LA GUERRA DI STRYKER

(Thou shalt not kill... except, 1985)

Regia Josh Becker

Cast Robert Rickman, John Manfredi, Sam Raimi

Genere: Guerra, Horror, Azione

Parla di “Veterani del Vietnam organizzano una rimpatriata ma si scontrano con satanisti assassini”

Nel periodo d’oro della Namsploitation, accanto al supercapolavoro Apocalypse Now o al pur blasonato Platoon, si inseriscono una serie di pellicole dedicate alla sporca guerra, tutte più o meno decorose, pur se spesso inutili. Tra queste, come un folletto malvagio, si insinua questo filmaccio casalingo, realizzato dalla crew di Sam Raimi, ancora fresco di Evil Dead ma non ancora arricchitosi come negli anni successivi. Scritta nientemeno che da Bruce Campbell (che stranamente non fa neanche un cameo), questa pellicola, ai limiti dell’amatoriale, mescola al suo interno guerra, vendetta privata e horror, il tutto condito da una buona dose di violenza grottesca e qualche spruzzata di splatter rudimentale. Il risultato, manco a dirlo, è decisamente spassoso, merito di una confezione rustica ma scorrevole e quell’attitudine scanzonata che solo un film fatto tra amici, senza pressioni produttive e tanta demenzialità, può dare. 

Basta la presenza di un giovane Sam Raimi nella parte dello psicopatico leader di una setta di satanisti, truccato con una ridicola parrucca semi rasta e denti marci, a meritare da sola la visione del film, la cui produzione è affidata all’amico Scott Spiegel che nel 1989 esordirà alla regia con un piccolo cattivissimo slasher intitolato “Intruder – Terrore senza volto” . L’inizio è ambientato nelle foreste del Vietnam del sud (più verosimilmente nello stesso boschetto dove si svolgerà il resto della storia) dove un gruppo di Marines deve affrontare una missione pericolosa, malamente orchestrata da un sottotenentino senza grandi attitudini strategiche. Nel corso dell’azione, che finirà disastrosamente, il sergente Stryker viene ferito. Lo vediamo l’anno successivo, in panni civili, zoppicante con cagnolino al seguito, mentre tenta di ricostruire i suoi rapporti con l’ex fidanzata.

L’ambiente rurale circostante viene sconvolto dall’irruzione di una setta assassina che segue pedissequamente le gesta della Manson Family, con massacri in case private, contraddistinti da scritte con il sangue inneggianti a mistici bagni di sangue. Nel frattempo gli ex commilitoni di Stryker giungono in loco per un’allegra rimpatriata. Quando la setta rapisce la ragazza del sergente e ne uccide il cane, il gruppo di reduci si arma e inizia la mattanza. Tra sforbiciate negli occhi, impalamenti negli alberi, infilzamenti multipli e scazzottamenti vari, il film non lesina in momenti di puro trash, come il topo morto visibilmente fatto di pezza, gente che cade prima ancora di essere colpita, manichini che esplodono e amenità varie. Pur nella sua fattura low budget, rozza e primordiale, resta comunque un’opera divertente che estremizza il machismo allo stato puro e ci ride sopra senza mezzi termini. Alla regia viene accreditato Josh Becker, altro membro fisso della troupe del primo rutilante Raimi.

mercoledì 6 gennaio 2021

CAPITAN AMERICA

(1990)

Regia Albert Pyun

Cast Matt Salinger, Ronny Cox, Carla Cassola

Genere: Azione, Fantascienza, Avventura

Parla di “Dalle origini al mito di Capitan America fino alla sua disastrosa disfatta, ovvero la realizzazione di questo film”

Fino all’avvento del nuovo millennio il cinema dei supereroi della Marvel era relegato ad una certa produzione a basso costo che conobbe il suo picco più squallido nel pessimo “The amazing Spider-Man” di E. W. Swackhamer. Questo almeno fino al 1990 quando quel matto di Menahem Golan, chiamò Stan Lee e gli disse “Sai che c’è? Voglio fare un film su Capitan America ma non ci ho una lira per realizzarlo per cui come viene viene, eh!” – Inizialmente si doveva assumere il bravo Michael Winner, autore di almeno due capolavori come “The Sentinel” e “Il giustiziere della notte”, ma dopo un travagliato periodo di scrittura, questi abbandonò il campo, anche perché la Cannon, in quel periodo, fallì. I diritti del film furono ceduti alla 21st Century Film Corporation, venne assoldato il povero Albert Pyun, regista da quattro soldi e piccolo maghetto del b-movie d’azione (ricordiamo sempre il suo terribile Arcade del 1993) ed ecco qui, purtroppo, il film. Girato in location della ex-jugoslavia spacciata per Italia, con un cast assurdo dove Ronny Cox (il cattivissimo di Robocop) coabita con Francesca Neri e Michael Nouri (il bello di Flashdance) si affianca a Carla Cassola (una grandissima attrice che ha lavorato molto anche con Lucio Fulci), ma soprattutto abbiamo un protagonista fra i meno appropriati per quel ruolo che si potesse mai scegliere in un casting, ovvero Matt Salinger, figlio del ben più famoso scrittore e totalmente oscuro e mediocre come attore, al punto che questo film rimane, forse, la sua interpretazione più importante. 

Già nelle prime apparizioni si nota subito che il costume non sembra adatto alla sua misura (forse lo avevano cucito per Dolph Lundgren che all’ultimo ha declinato la parte) e i fori per gli occhi sembrano cadere in avanti, poi anche la psicologia del personaggio viene miseramente degradata ad un’americano stupidotto che sembra avere il cervello in un centimetro cubo di formaggio. Non parliamo poi del villain storico di Cap, il teschio rosso, del quale vengono narrate le origini italiane in una notte di Natale della Seconda Guerra Mondiale, quando i fascisti irrompono nella casa paterna e massacrano tutti per poterlo rapire ed adibire a super esperimento segreto mal riuscito. Peccato che, se all’inizio il make-up del teschio sembra ricordare vagamente quello del fumetto originale (va beh, almeno è rosso!), per il resto del film sembra una brutta copia dei gangster usciti da quell’orribile filmaccio su Dick Tracy uscito nello stesso anno. 

La sceneggiatura poi è un vero e proprio scrigno di idee, dal trucchetto di Capitan America di fingere il mal d’auto per fregare la macchina a qualcuno (trucchetto che usa per ben due, dico due, volte) fino all’espediente della registrazione sonora in bobina del massacro in casa del Teschio rosso al fine di ricordargli chi è veramente. Fotografia piattamente televisiva, scene action imbarazzanti tra le quali una sequenza di lotta nelle cantine dove non si vede un tubo, comprimari credibili come lo spazzolone per il water usato per i denti e quel senso di pochezza mirabilmente espresso dal costume del supereroe, il quale pur restando in un certo qual modo, fedele all’originale, sembra uscito da una sartoria per festini carnevaleschi. L’unica cosa che merita è lo scudo, si poteva inquadrare questo per tutto il tempo e il film sarebbe senz’altro riuscito meglio.