Regia Bruno VeSota
Cast Frank Ray Perilli, Robert Ball, Dolores Reed
Genere: Fantascienza, Commedia, Demenziale
Parla di “alieni carota, amazzoni poppute, indiani ubriachi e due marmittoni che cercano inutilmente di fare i comici”
Nel periodo d’oro della Namsploitation, accanto al supercapolavoro Apocalypse Now o al pur blasonato Platoon, si inseriscono una serie di pellicole dedicate alla sporca guerra, tutte più o meno decorose, pur se spesso inutili. Tra queste, come un folletto malvagio, si insinua questo filmaccio casalingo, realizzato dalla crew di Sam Raimi, ancora fresco di Evil Dead ma non ancora arricchitosi come negli anni successivi. Scritta nientemeno che da Bruce Campbell (che stranamente non fa neanche un cameo), questa pellicola, ai limiti dell’amatoriale, mescola al suo interno guerra, vendetta privata e horror, il tutto condito da una buona dose di violenza grottesca e qualche spruzzata di splatter rudimentale. Il risultato, manco a dirlo, è decisamente spassoso, merito di una confezione rustica ma scorrevole e quell’attitudine scanzonata che solo un film fatto tra amici, senza pressioni produttive e tanta demenzialità, può dare.
Basta la presenza di un giovane Sam Raimi nella parte dello psicopatico leader di una setta di satanisti, truccato con una ridicola parrucca semi rasta e denti marci, a meritare da sola la visione del film, la cui produzione è affidata all’amico Scott Spiegel che nel 1989 esordirà alla regia con un piccolo cattivissimo slasher intitolato “Intruder – Terrore senza volto” . L’inizio è ambientato nelle foreste del Vietnam del sud (più verosimilmente nello stesso boschetto dove si svolgerà il resto della storia) dove un gruppo di Marines deve affrontare una missione pericolosa, malamente orchestrata da un sottotenentino senza grandi attitudini strategiche. Nel corso dell’azione, che finirà disastrosamente, il sergente Stryker viene ferito. Lo vediamo l’anno successivo, in panni civili, zoppicante con cagnolino al seguito, mentre tenta di ricostruire i suoi rapporti con l’ex fidanzata.Fino all’avvento del nuovo millennio il cinema dei supereroi della Marvel era relegato ad una certa produzione a basso costo che conobbe il suo picco più squallido nel pessimo “The amazing Spider-Man” di E. W. Swackhamer. Questo almeno fino al 1990 quando quel matto di Menahem Golan, chiamò Stan Lee e gli disse “Sai che c’è? Voglio fare un film su Capitan America ma non ci ho una lira per realizzarlo per cui come viene viene, eh!” – Inizialmente si doveva assumere il bravo Michael Winner, autore di almeno due capolavori come “The Sentinel” e “Il giustiziere della notte”, ma dopo un travagliato periodo di scrittura, questi abbandonò il campo, anche perché la Cannon, in quel periodo, fallì. I diritti del film furono ceduti alla 21st Century Film Corporation, venne assoldato il povero Albert Pyun, regista da quattro soldi e piccolo maghetto del b-movie d’azione (ricordiamo sempre il suo terribile Arcade del 1993) ed ecco qui, purtroppo, il film. Girato in location della ex-jugoslavia spacciata per Italia, con un cast assurdo dove Ronny Cox (il cattivissimo di Robocop) coabita con Francesca Neri e Michael Nouri (il bello di Flashdance) si affianca a Carla Cassola (una grandissima attrice che ha lavorato molto anche con Lucio Fulci), ma soprattutto abbiamo un protagonista fra i meno appropriati per quel ruolo che si potesse mai scegliere in un casting, ovvero Matt Salinger, figlio del ben più famoso scrittore e totalmente oscuro e mediocre come attore, al punto che questo film rimane, forse, la sua interpretazione più importante.
La sceneggiatura poi è un vero e proprio scrigno di idee, dal trucchetto di Capitan America di fingere il mal d’auto per fregare la macchina a qualcuno (trucchetto che usa per ben due, dico due, volte) fino all’espediente della registrazione sonora in bobina del massacro in casa del Teschio rosso al fine di ricordargli chi è veramente. Fotografia piattamente televisiva, scene action imbarazzanti tra le quali una sequenza di lotta nelle cantine dove non si vede un tubo, comprimari credibili come lo spazzolone per il water usato per i denti e quel senso di pochezza mirabilmente espresso dal costume del supereroe, il quale pur restando in un certo qual modo, fedele all’originale, sembra uscito da una sartoria per festini carnevaleschi. L’unica cosa che merita è lo scudo, si poteva inquadrare questo per tutto il tempo e il film sarebbe senz’altro riuscito meglio.