lunedì 29 novembre 2021

PTERODACTYL WOMAN FROM BEVERLY HILLS

 (1995) 

Regia Philippe Mora 

Cast Beverly D’Angelo, Brad Wilson, Brion James 

Genere  Commedia, Fantastico 

Parla di “Moglie di paleontologo viene maledetta da stregone con nome da artista e si trasforma in uno pterodattilo” 

Realizzato attorno alla figura, ai tempi discretamente famosa, dell’attice Beverly D’Angelo, questo film demenziale prodotto dalla Troma Entertainment e diretto dall’australiano  Philippe Mora, rappresenta uno sforzo produttivo notevole per Lloyd Kaufman e Michael Herz, forti della presenza di un’attrice di punta, conosciuta più che per le sue doti artistiche, per la sua partecipazione alla serie comica del National Lampoon's Vacation e per la sua relazione con Al Pacino a cui diede due figli. Il risultato è la dimostrazione pratica che non basta un’attrice di grido e qualche dinosauro buttato nella mischia (siamo nel periodo di coda dell'exploit di Jurassic Park) a generare un successo, soprattutto se ci si trova a combattere con uno script imbarazzante e completamente spogliato dell’umorismo di grana grossa che ha segnato le produzioni della casa distributrice nuovayorkese. 


Il tentativo di Kaufman e soci di fare il saltone di qualità epura totalmente sangue e frattaglie, violenza e cattivo gusto dal copione generando una commediola stupidotta e senza senso incentrata su un paleontolo  di nome Dick (che trova un uovo di dinosauro all’interno di una zona proibita (ispirandosi qui al classicone Valley of Gwangi con tanto di combattimenti tra dinosauri gommosi animati a passo uno) e viene maledetto da un assurdo stregone che si fa chiamare Salvador Dalì. La maledizione però non colpisce il ricercatore direttamente (interpretato da Brad Wilson) ma la moglie Pixie (Beverly D’Angelo) che nel frattempo se la spassa nella sua villa a Beverly Hills con i figli. Gradualmente la donna rifiuta le uova, si terrorizza davanti a pietanze a base di pollame e si ciba esclusivamente di pesce crudo mangiato direttamente alla fonte, inizia a starnazzare come una gallina finchè il marito non la ritrova all’alba appesa ad un albero. 

 


Dick (il cui nome genera la solita sequela di doppi sensi) non tarderà a scoprire che la moglie, di notte, si trasforma in un ibrido umano/pterodattilo il cui trucco (a metà tra un pollo e un vampiro) è probabilmente la cosa più costosa di tutto il film. Pixie arriva a generare pure un figlio, o meglio un ovetto da cui uscirà un piccolo pterodattilo, da qui la decisione di rivolgersi ad un santone (interpretato da Brion James che fa anche la parte dello stregone Dalì) ma senza risultato. L’unica soluzione al problema è quella di tornare nella zona desertica e chiedere scusa a Salvador Dalì. Con una trama infarcita di dialoghi senza senso per oltre 100 minuti, con effetti che oscillano tra un make-up decente a mutazioni  che neanche negli anni cinquanta erano così brutte, non si poteva certo sperare di fare il saltone di qualità. L’unica a saltare infatti  è la  D’Angelo che zompetta a gambe aperte e oscilla la testa tentando di imitare una gallina, ma per Kaufman e tutta la Troma non c’è neanche la speranza che questa faccia le uova d’oro.

lunedì 22 novembre 2021

THE GARBAGE PAIL KIDS MOVIE

 (1987) 

Regia Rod Amateau 

Cast: Mackenzie Astin, Anthony Newley, Katie Barberi 

Genere: Demenziale, Fantascienza, Commedia 

Parla di “mostriciattoli schifosi usciti da carte da gioco per bambini nerd, si trasformano in sarti per aiutare ragazzino nelle sue conquiste amorose” 

Ok, d’accordo che realizzare un film tratto da una serie di figurine non è cosa facile ma con un budget, tutto sommato cospicuo, di un milione di dollari si poteva pensare almeno di spremersi di più le meningi e tentare di scrivere una storia meno cretina di questa. The Garbage Pail Kids (lett. I ragazzi del bidone dell’immondizia) è una serie di figurine realizzate nel 1985 dalla Società americana Topps Company basate su personaggi mostruosi e demenziali che da noi arrivarono negli anni novanta con il nome di Sgorbions, fregiati da nomignoli come Donata Avariata, Riccardo Superlardo o Gustava la Sbava. Insomma il paradiso dei ragazzini in cerca di sensazioni trash, cosa potevamo dunque aspettarci da un film ispirato a cotanta bruttezza? Ecco quindi che il regista televisivo Rod Amateau (deceduto nel 2003), che da noi era conosciuto per la commedia “Dimmi dove ti fa male?” con Peter Sellers, ci confeziona una commedia fantascientifica tipicamente anni ottanta che sembra uscita dalla fucina della Full Moon Entertainment di Charles Band. 

Mostriciattoli realizzati con attori nani che indossano orribili mascheroni rotondi le cui misere espressioni facciali sono date da piccoli congegni meccanici sottopelle. La trama è incentrata sul folle amore del quattordicenne Dodger (Mackenzie Astin) per la bionda Tangerine (Katie Barberi) e per questo viene bullizzato dal suo fidanzato Juice e la sua combriccola di teppisti in tutina da aerobica colorata. Lavorando nel negozietto di cianfrusaglie del Capitano Manzini (Anthony Newley ovvero il dottor doolittle del 1967), scopre uno strano bidone che, analogalmente al vaso di Pandora, non deve essere mai scoperchiato. Purtroppo l’intervento dei bulletti rovescerà il bidone travasando fuori una specie di slime verdastro che libererà i sette mostriciattoli ovvero Greaser Greg (interpretato da uno dei “nani” più famosi dello schermo, Phil Fondacaro conosciuto per le sue interpretazioni di Willow e il primo Troll), Valerie Vomit, lo scureggione Windy Winston, Ali Gator (goloso delle dita dei piedi umane), l’orrendo bebè Phil Foul, il ciccione brufoloso Nat Nerd che si piscia sempre addosso e la bavosa Messy Tessie. 


A questo immaginerete una serie di situazioni al limite del buon gusto e del politically uncorrect, invece i mostriciattoli si rivelano essere dei grandissimi…sarti! E per aiutare il piccolo Dodger a conquistare Tangerine confezionano sbarluscenti abitini per organizzarle una sfilata di moda. Peccato che Tangerine, in combutta con Juice, ordisca alle spalle del ragazzino, lo fa sbattere in un cassonetto e fa rinchiudere i mostri in un assurdo Istituto per brutti in compagnia di nani, pagliacci e addirittura Babbo Natale. Tra battute penose, ambientazioni trash anni ottanta e un compendio narrativo che si snoda come un compitino da prima elementare, il film assume nella sua povertà creativa un’aura sfigata che lo rende un prodottino di culto (si paventava addirittura un reboot nel 2012 fortunatamente cancellato) soprattutto nel suo momento di topica bruttezza in cui il gruppo dei ragazzi del bidone canta in coro un’assurda canzoncina che sembra fuoriuscita da un musical organizzato in oratorio. A metà tra un prodotto “ricco” della Troma e la demenzialità assoluta del Troll 2 di Claudio Fragasso, The Garbage Pail Kids ha tutte le carte in regola per farvi innamorare, ma solo se siete puri e duri estimatori del brutto tout court. 

lunedì 15 novembre 2021

LA CASA DEL MALE

 (The House Where Evil Dwells, 1982)

Regia Kevin Connor

Cast Edward Albert, Doug McClure, Susan George

Genere: Horror

 Parla di “Famigliola Americana deve vedersela con ridicoli fantasmi dell’antico Giappone”

Negli anni di gioventù, quando si scovavano vecchi film nelle Tv private al pomeriggio, il nome di Kevin Connor girava abbastanza frequentemente, grazie a quegli splendidi film d’avventura tratti dai romanzi di Edgar Rice Burroughs come La Terra dimenticata dal tempo (The Land That Time Forgot, 1975) o Centro della Terra: continente sconosciuto (At the Earth's Core, 1976) e Gli uomini della terra dimenticata dal tempo (The People That Time Forgot, 1977), una sorta di trilogia avventurosa che si ispirava anche a Il mondo perduto di Sir Conan Doyle, ottimi prodotti di intrattenimento con tanti bei dinosauri a passo uno che divertivano noi piccini amanti dei mostri. Dulcis in fundo, Connor ha girato uno degli horror a episodi più belli che la Amicus abbia mai sfornato. Parliamo de La Bottega che vendeva la morte (From beyond the grave, 1973) interpretato da un magnifico Peter Cushing. 

Con queste premesse risulta assai doloroso parlare di questo The House Where Evil Dwells, incursione asiatica del genere Haunted House, perché se da un lato va elogiato un buon cast e il coraggio di portare il genere british horror in Giappone, dall’altro l’operazione fallisce miseramente nella sua realizzazione scadendo senza pietà nel trash più assoluto. Si inizia con un delitto passionale ambientato nel Giappone del 1840 dove Otami, una giovane donna invita a casa l’amante ma il marito Samurai li scopre e li affetta a colpi di Katana per poi fare Hara-kiri. Fin qui niente di speciale, la scena è ben fatta e dimostra senza alcun dubbio che il vecchio Connor ancora ci sa fare. Poi si torna ai giorni nostri quando il giovane reporter Ted (Edward Albert) si stabilisce con la famigliola proprio nella casa dell’eccidio che l’amico console Alex (Doug McClure) gli ha procurato a basso costo. E anche fin qui tutto ok, niente di nuovo sotto il Sol Levante ma almeno il film sembra decoroso. 

I problemi iniziano quando cominciano ad apparire i fantasmi dei tre morti, che vediamo in trasparenza bluastra mentre confabulano animatamente tra di loro in giapponese, ogni tanto uno dei tre si infila nel corpo della moglie di Ted, Laura (Susan George) per innescare una tresca tra la donna e Alex, qualche piatto (addirittura una maschera) salta dalla parete e si giunge allo zenith più estremo quando la figlia Amy (Amy Barrett) vede uno dei fantasmi giapponesi che fa le smorfie nella zuppa per poi degenerare con l’avvento di mostruosi granchi che borbottano comicamente come lottatori di Sumo. Non si capisce se l’intento comico del film è voluto, di certo le scene che si vorrebbero più terrificanti diventano invece quelle più esilaranti, come la sequenza di Ted che va a fotografare delle pescatrici in apnea e cade nell’acqua dove viene spinto giù da una nuotatrice in topless. La George ci sollucchera con nudi più o meno espliciti ma fa delle smorfie veramente buffe quando deve invece esprimere rabbia e dolore. Anche la scena dell’esorcismo da parte di un monaco zen raggiunge livelli di ilarità assoluta quando spinge fuori di casa i tre fantasmi a botte di acqua santa (o roba simile). Finale alla Bud Spencer e Terence Hill con botte da orbi e pareti che si smontano da tutte le parti con qualche sequenza di sangue che non salva comunque l’opera dal disastro totale.

venerdì 5 novembre 2021

BIANCANEVE E I SETTE NANI

(1995) 

Regia Luca Damiano 

Cast Ludmilla Antonova, Vicca, John Walton 

Genere; Fantasy, Porno, Commedia 

Parla di “Biancaneve scopre il sesso grazie ai nanetti mentre la regina cattiva cerca di avvelenarla, ma ci penserà il principe azzurro a darle una svegliatina” 

Negli anni mi sono dovuto convincere del fatto che per trovare dei veri cult all’interno del cinema trash bisogna andare a ricercarli nel mercato del porno, dove spulciando attentamente si trovano delle vere e proprie chicche. E’ il caso di questo imbarazzante capolavoro di Luca Damiano (pseudonimo del regista Franco Lo Cascio), conosciuto anche con il geniale titolo “Biancaneve sotto i nani” che replica in versione a luci rosse l’omonimo cartone animato della Disney. Prodotto tra Italia e Ungheria, il film vede il giusto confronto tra due indimenticabili pornostar dell’est europa come l’ungherese Ludmilla Antonova (conosciuta anche come Camilla Astori o Julia Larot) nel ruolo di Biancaneve e la russa Vicca, al secolo Viktoria Kokorina nel ruolo della regina cattiva. 

Come nell’omonima favola dei fratelli Grimm anche qui la regina malvagia costringe la principessa Biancaneve a fare la servetta per evitare che la bellezza di quest’ultima oscuri la sua, per questo la monarca consulta lo specchio magico in cui appare un assurdo vecchietto vestito come un monaco che parla in napoletano stretto. Nel frattempo Biancaneve, tra una pulizia e l’altra, scopre le gioie della propria vagina. Da parte sua la regina si gode non meno di quattro stalloni alla volta, coadiuvata dalle due ancelle che ne preparano i falli a colpi di fellatio. Sempre più gelosa della principessina, la malvagia regnante la fa condurre nel bosco dal cacciatore assassino che si chiama LAIDS, e qui si produce una delle più aberranti battutacce del film: 

Biancaneve “Oh no! Che vuoi fare? Non mi vorrai uccidere? Abbi pietà.”  

LAIDS” Accidentaccio! Non posso ucciderti” Biancaneve. Tu mi conosci. Che disdetta! Ed io conosco te.”  

Biancaneve: “L'AIDS. Se lo conosci non ti uccide”.  

Una scena del genere neanche gli Squallor erano riusciti a immaginarla, ma il meglio (o il peggio) deve ancora venire. Arricchita da effetti grafici da filmino delle vacanze, la fuga di Biancaneve trova la sua nemesi in una baita nel bosco dove scopre gli ormai arcinoti lettini dei nanetti. Nel frattempo il cacciatore LAIDS riceve il giusto premio sessuale dalla regina per la missione conclusa, recando alla donna il cuore di Biancaneve che non è altro che un gommino rosso di quelli che compri in cartoleria. A questo punto il geniale Lo Cascio si cimenta in un montaggio sdoppiato che vede da una parte l’educazione sessuale di Biancaneve da parte dei laidi nanetti che sono veri attori nani tra cui una specie di sosia di Roberto Marotta, allora conosciuto per lo spot “Ciribiribi Kodak” che infatti viene citato a dismisura.; dall’altra invece vediamo l’amplesso prolungato tra regina e cacciatore che si concluderà tragicamente quando la donna scoprirà l’inganno. La regina a questo punto invoca la magia nera in un altro tripudio di effetti grafici da prima comunione e diventa un vecchietto vestito da donna con un nasone enorme e un gigantesco neo in faccia. 

Il resto della fiaba lo conosciamo a menadito, c’è il principe azzurro che, incitato dal padre a trovarsi una consorte e sfornare un erede, gira per i campi a zomparsi le contadine fino a giungere alla baita della principessa dormiente, e non sarà solo un bacio a svegliarla! Incredibilmente lungo (dura quasi due ore), arricchito da costumi di carnevale, spadoni di plastica e la musichetta ossessiva di Eduardo Alfieri che sembra una marcia medievale in salsa synth-pop, il film è comunque godibile dall’inizio fino alla fine. La Antonova sembra sempre drogata fino al midollo con quel suo sorrisino ebete con cui cerca di convincerci della sua innocenza, la Kokorina invece mantiene inalterata la sua marmorea espressività russa. I nanetti, i cui nomi resteranno per sempre celati al mondo del cinema, invece sono spassosissimi nella loro anarchica caciara da bar dello sport. Insomma la fiaba più famosa del mondo trova qui una diversa connotazione cinematografica che ci fa rimpiangere i vecchi cinemini porno dove si andava a vedere veri film e non squallide soggettive amatoriali buone solo per una pugnetta. Tra le maestranze tecniche del film, a sorpresa, appare il nome di Joe D’amato come direttore della seconda unità.