giovedì 1 giugno 2023

SLUGS - VORTICE D'ORRORE

(Slugs, 1988) 

Regia Juan Piquer Simon 

Cast Michael Garfield, Kim Terry, Philip MacHale 

Parla di “lumaconi senza guscio ma forniti di zanne dichiarano come loro dispensa personale una piccola cittadina Americana” 

Il mondo degli insetti, è risaputo, ha sempre avuto un ruolo principe nei film di genere eco-vengeance, basti pensare alle formiche di Fase IV distruzione Terra, gli scarafaggi incendiari di Bug insetto di fuoco e i vermi antropofagi di Squirm – I carnivori venuti dalla Savana. Complice un aspetto non propriamente eccelso agli occhi dell’essere umano e la sua capacità di riunirsi in una moltitudine avvolgente, questa specie vivente ha sempre avuto la capacità di terrorizzarci e disgustarci sul grande schermo. Pur non essendo propriamente un insetto (è difatti un mollusco) la lumaca è sempre stata associata ad un’immagine simpatica e tranquillizzante, basta però toglierle il guscio casetta, rifornirla di due zanne poco rassicuranti e darla in mano al regista spagnolo Juan Piquer Simon (conosciuto anche per altri due filmacci quali La cosa degli Abissi e The Chtulu Mansion) per dare vita ad uno dei film più schifosi mai usciti sullo schermo. 

Slugs è una produzione ispano-americana, realizzata con quattro soldi di cui oltre la metà per gli effetti speciali (per i quali Gonzalo Gonzalo, Basilio Cortijo e Carlo De Marchis vinsero il premio Goya nel 1989) dove però lo splatter risulta bello abbondante e non mancano due o tre sequenze degne di nota. L’ambientazione è la solita località rurale americana dove uno studente seduto su una zattera in mezzo al fiume viene risucchiato in acqua manco fosse stato assalito dallo squalo in persona, poi c’è un barbone che si sdraia su un vecchio divano e viene divorato e fin qui non si vede nulla, poi di colpo assistiamo ad una coppia di ragazzini che fornica in casa dei genitori assenti e si ritrovano sotto i piedi un letto di schifosissimi lumaconi viscidi che si mangiano la ragazza in un mare di sangue. Il clou è però il manager rampante che, dopo aver mangiato a casa un’insalata con dentro i mollusconi, si ritrova la faccia piena di vermi al ristorante. 

Il protagonista, un impiegato dell’ufficio di igiene di nome Mike (Michael Garfield) viene morso ad un dito da una di queste bestiacce e inizia a indagare, ma, sia il sindaco che lo sceriffo, lo prendono per matto. Mike però scopre che sotto le fogne c’è una zona dove venivano versate sostanze tossiche ed è proprio lì che trova la massa di lumaconi in grado di riprodursi autonomamente. Per sconfiggerle fa esplodere mezza città, nonostante questo lo sceriffo che lo odiava a morte, gli chiede pure scusa per non avergli creduto e lui se ne va via a braccetto con la sua ragazza come se nulla fosse. In ogni caso per molti, Slugs è diventato un cult, in realtà è un filmetto modesto seppur scorrevole, con due o tre effettacci degni di nota. Da recuperare il romanzo originale di Shaun Hutson, autore tra l’altro dell’ottimo Relics da cui è stato tratto l’omonimo film.  

mercoledì 24 maggio 2023

MEN BEHIND THE SUN

(Hai Tai Yeung 731, 1988) 

Regia Tun Fei Mou 

Cast Gang Wang, Runshen Wang, Dai Yao Wu 

Parla di “Divisione giapponese in Cina utilizza prigionieri per terribili esperimenti batteriologici” 

Non ho una gran passione per il cinema estremo, in particolare quello dove morte, violenza e sangue restano comunque fini a sè stessi, pur magari scagliando allo spettatore un deciso pugno allo stomaco. Altro discorso per quei film dove il pugno nello stomaco viene lanciato con un preciso scopo di denuncia sociale come ad esempio fu il bellissimo Soldato Blu di Ralph Nelson che, in un turbine finale di ultra violenza ricordava agli americani le loro colpe sui nativi e in particolare il raccapricciante massacro di Sand Creek. Ed è proprio la denuncia storica a giustificare le efferatezze di Men Behind the Sun, fortunato film di guerra che rivelava al mondo, pur se in chiave exploitation, gli orrori perpetrati, alla fine della seconda guerra mondiale, dall’Unità 731, famigerata divisione militare giapponese dislocata in Manciuria allo scopo di sperimentare nuove forme di guerra batteriologica. 

Guidata dal generale Shiro Ishii e da uno stuolo di soldati e medici, l’Unità 731 portò alla morte, tra sperimentazione, torture ed esecuzioni sommarie, la bellezza di 3000 vittime di nazionalità cinese e russa, chiamati Marut (lett. Tronchi). Il regista cinese T. F. Mou Tun-Fei si sbizzarrisce in una serie di morti grottesche, frutto di una crudeltà scientifica aberrante che ricalca le efferatezze compiute dagli alleati teutonici nei campi di concentramento, ma con una fantasia ancora più malata, se possibile. Vediamo quindi una madre con figlia che vengono avvelenate con il gas assieme ad una colomba, un uomo rinchiuso in una stanza iperbarica e sottoposto ad una pressione talmente forte da fargli espellere gli intestini, una donna a cui vengono congelate le mani e successivamente immerse nell’acqua calda finchè la pelle e la carne non si sfilano come guanti lasciando in bella mostra le ossa, fino alle scene più estreme divenute ben presto famose nell’immaginario collettivo. 

Parliamo del gatto divorato progressivamente da un nugolo di topi affamati (scena che fu per presa per reale anche se il regista dichiarò di non aver ucciso nessun felino utilizzando dieci gatti in una progressione di montaggio) e la tremenda operazione ai danni di un ragazzino muto a cui vengono asportati gli organi, sequenza per la quale fu accertato l’utilizzo di un vero cadavere (con l’approvazione dei parenti). In realtà di questa tremenda autopsia, a scioccare non è la dissezione delle interiora che rasenta la bassa macelleria, ma la straordinaria quanto inquietante dolcezza del ragazzino che si presta a sedersi, ignaro, sul tavolo operatorio, sorridente con un acerbo pene puntato verso il cielo mentre i medici lo sollecitano con una diabolica gentilezza. 

Il resto del film mescola crudeltà e propaganda, denigrando l’ottusità dei nipponici e l’eroismo dei prigionieri che tentano di fuggire nei campi inseguiti dalle camionette giapponesi, ci mostra un gruppo di giovani soldati che rimane sconcertato dagli orrori del campo, il generale Ishii che scopre, da un fortuito incidente, il sistema per diffondere le sue armi batteriologiche attraverso proiettili di ceramica (scena che si conclude con un maestosamente grottesco applauso globale), poi la disfatta, il massacro finale dei prigionieri gassati, l’ultimo marut che riesce miracolosamente a nascondersi in mezzo ai giapponesi in ritirata e viene scovato e ucciso a colpi di bandiera nipponica, il neonato soffocato nella neve con un semplice spostamento del piede di un soldato. La cosa più terrificante del film è forse la percezione che il regista non si è inventato nulla, anche se degli orrori del 731 non esistono documenti ufficiali, complice anche un colpevole occultamento da parte degli alleati al termine dei conflitti. Men Behind the Sun è diventato un cult anche da noi, per pochi, non essendo mai stato distribuito. Un titolo al quale seguirono altre tre pellicole, una serie quindi affine, per certi versi a quella giapponese di Guinea Pig, ma dotata di un sottotesto didattico che illustrava anche troppo dettagliatamente una delle tante vergogne nascoste del più tremendo conflitto bellico che ha segnato la storia dell’umanità.   

mercoledì 17 maggio 2023

FATHER’S DAY

(2011) 

Regia Astron-6 

Cast Adam Brooks, Amy Groening, Kevin Anderson 

Parla di “Assassino di padri di famiglia deve vedersela con la vendetta dei figli incazzati” 

Fondato nel 2007 da Adam Brooks e Jeremy Gillespie, il collettivo di film-makers americano Astron-6 si è sviluppato nel nuovo millennio con una sua impronta cinematografica ben definita. Nel tempo la compagnia ha inglobato al suo interno anche Matt Kennedy, Conor Sweeney e Steven Kostanski dando vita a titoli molto interessanti come il pluri-acclamato The Void e il divertente quanto dissacratorio Psycho Goreman. Dall’incontro con la Troma in veste di produttore, nasce un folle progetto che mescola fumettone pulp, anarchia trash e gore estremo, ovvero Father’s day che la società di Lloyd Kaufman e Michael Herz sembra voler contrapporre al precedente Mother’s day con oltre trent’anni di ritardo. Ma la contrapposizione è solo di facciata perché i due film sono assolutamente diversi l’uno dall’altro ed anche in termini qualitativi la proposta di Astron-6 è decisamente vincente. 

Si parla di Chris Fuchman, un serial killer che ha il pessimo vizietto di uccidere padri di famiglia dopo averli stuprati, generando però un manipolo di orfani decisi a vendicare il proprio genitore. Il più fico è Ahab (Adam Brooks) dotato di giaccona in pelle, benda nera sull’occhio (che omaggia la vendicatrice di Thriller: a cruel story) e pistolona facile. Ritiratosi nelle foreste canadesi ad estrarre sciroppo d’acero da alberi che non sono aceri, Ahab viene richiamato da Padre O’Flynn (Kevin Anderson) per uccidere Fuchman. Già dieci anni prima Ahab pensava di averlo ucciso ma la vittima si rivelò innocente e Ahab venne incarcerato. Stavolta il vendicatore monocolo deve salvare la sorella spogliarellista Chelsea (Amy Groening) rapita dal serial killer; ad aiutarlo oltre al prete, c’è anche il giovane Twink, anche lui orfano di padre assassinato da Fuchman, che di professione si dedica a far pompini per strada. 

Tra inquadrature frenetiche, fotografia ultra-satura e montaggio ipercinetico, Father’s day passa da un’idea all’altra fregandosene delle convenzioni e purtroppo anche della coerenza narrativa che sballa spesso e volentieri spiazzando lo spettatore. Si passa dalla commedia al thriller attraverso il cinema estremo con una sequenza decisamente insostenibile (almeno per noi maschietti) fino all’action frenetica con duelli in pickup, sparatorie e ambientazioni degradate che passano da fetide cantine a locali per striptease di quart’ordine. Alla fine il trio di vendicatori si reca anche all’inferno per chiudere la faccenda con un grottesco e viscido demone che possiede la sorella di Ahab e qui appare il sempiterno Lloyd Kaufman che interpreta nientemeno che il Divin Creatore, vestito di bianco come il megadirettore galattico fantozziano. 

Le creature a passo uno realizzate da Steven Kostanski sono spassose (il diavolone panzuto in particolare), gli effetti di make-up convincenti, ma la troppa carne sul fuoco, soprattutto nella prima parte, finisce per annoiare ed il trash volontario, quando è troppo forzato, manca di centrare il bersaglio, ovvero divertire lo spettatore. Nella seconda parte le cose procedono meglio ed il finale fantastico riesce ad appagare la nostra sete di follia. Rimane comunque un fiore all’occhiello della Troma, che quando vuole, riesce anche ad investire nella qualità e non solo nel delirio della cinematografia più underground.   

giovedì 11 maggio 2023

PSYCHOS IN LOVE

(1987) 

Regia Gorman Bechard 

Cast Debi Thibeault, Carmine Capobianco, Patti Chambers 

Parla di “coppia di serial killers si incontra, si ama e continua ad uccidere” 

Regista di culto per molti ma non per tutti, Gorman Bechard ha esordito nel 1984 con il Thriller Horror Disconnected, salvo poi lanciarsi nella commedia di genere, mescolata con richiami horror e fantascientifici, il tutto rigorosamente a budget zero o quasi. Psychos in love rappresenta il suo canto del cigno, una black comedy di matrice demenziale incentrata sul rapporto d’amore tra due serial killer. Joe (Carmine Capobianco) è un barman all’interno di un stripclub di quart’ordine dove un grosso cinese viene a chiedere birra ogni dieci secondi. Nelle prime scene del film descrive la sua vita in bianco e nero mentre sullo schermo si alternano (brutte) sequenze dei suoi omicidi, incentrati soprattutto alla ricerca dell’anima gemella. Il regista, in questo frangente, tenta a modo suo di omaggiare la scena della doccia di Psycho, cercando di clonare le celebri inquadrature della morte di Marion Crane. Dopo svariati tentativi incontra Kate (Debi Thibeault) di professione manicure, anche lei serial killer. 

Entrambi oltre alla passione per l’omicidio, hanno una profonda avversione per l’uva in tutte le salse e derivazioni. Il loro è un colpo di fulmine quasi istantaneo che darà vita ad un rapporto dove l’ammazzamento si alterna ad un romanticismo quasi surreale, almeno fino a quando la loro voglia di uccidere non subirà una forte crisi confluendo nell’incontro con un terzo serial killer, un viscido idraulico con tendenze antropofaghe, il quale metterà a posto ogni cosa. La verve surreale del film si sposa perfettamente con una confezione scialba e semi amatoriale che permea ogni fotogramma, ma Bechard riesce comunque a tirare fuori qualcosa di decente grazie ad un montaggio vivace e soprattutto grazie alla spontanea recitazione dei due protagonisti, in particolare la Thibeault che, con il suo visetto d’angelo, rende decisamente più gradevole la visione. 

Peccato che la grossolanità delle battute sparse qua e là non strappi una risata manco a morire, persino i personaggi più strani (la tizia logorroica del bar che preferirebbe essere smembrata piuttosto di vivere nella noia) risultano grotteschi e privi di mordente, così come l’espediente del metacinema che si infratta ogni tanto tra le scene (con membri della troupe che compaiono e scompaiono) e qualche scenetta demente (la spogliarellista che non muore mai), sebbene cerchino di tirar su il morale, non fanno altro che peggiorare la situazione. Tuttavia, se si amano le trashate in stile Troma, Psychos in Love risulta godibile a patto di essere dell’umore adatto per sopportare le trovate imbarazzanti snocciolate da Bechard ma soprattutto l’orrenda canzoncina cantata dai due protagonisti con una tastierina in sottofondo . 

Il sangue e le frattaglie abbondano, la narrazione si sviluppa senza particolari impacci e qualche sorriso non particolarmente forzato lo riesce anche a strappare. Certo una volta basta e avanza, ed infatti nel seguente tentativo di riproporci l’horror demenziale a colpi di psicopatici, Berchard cadrà miseramente nella bruttezza assoluta in “Cemetery High”, sua ultima prova  con cui chiuderà provvisoriamente la sua carriera anni ottanta. Berchard riprenderà in mano la macchina da presa solo nel 2002 realizzando cortometraggi, video e documentari musicali, tutta roba lontana anni luce da capolavori weirdo come questo. 

giovedì 4 maggio 2023

MAUSOLEUM

(1983) 

Regia Michael Dugan 

Cast Bobbie Bresee, Marjoe Gortner, Norman Burton 

Parla di “ragazzina che entra in un mausoleo e viene posseduta diventando una milf platinata ammazzatutti” 

L’inizio è una bomba weird di rara potenza, siamo ovviamente in un cimitero (con un titolo così non poteva andare diversamente) dove Susan, una ragazzina di dieci anni piange disperatamente per la perdita della madre. Quando la zia vuole riportarla a casa, Susan fugge fra le lapidi e davanti a sé appare un mausoleo immerso in una nuvola di nebbia grottescamente disegnata su pellicola. Entrata nell’edificio vede una tomba che comincia a produrre strani colori, arriva un tizio di cui non sapremo nulla ne riusciremo mai a vederlo in faccia, il quale chiede alla giovinetta cosa ci faccia in quel posto, viene subito attaccato da un terribile dolore alla testa, esce nel prato e il cervello gli esplode. Nonostante questo incipit deflagrante, il resto del film si manterrà su un’onesta linea da cinema di serie B tipico del periodo videocassettaro anni ottanta, arricchito da effettoni splatter e trucchi di make up del bravo Roger George (L’ululato, Terminator e Repo Man) che è poi l’unica nota di merito del film di Michael Dugan, estemporaneo artigiano del cinema con una filmografia che si conta sulle dita di una mano. 

Il proseguo della trama vede Susan (interpretata da Bobbie Bresee) trasformatasi nell’età adulta in una seducente milfona che ogni tanto diventa una specie di demone dagli occhi verdastri e si diverte a far fuori tutti quelli che entrano in casa, a partire dalla zia antipatica che sfracassa a terra non prima di averla sbudellata, o il giardiniere sornione che passa il tempo a tentare di sedurla e quando alla fine ci riesce questa gli regala una rastrellata sulla faccia. Dopo circa un’ora di film, finalmente, quel tontolone riccioluto del marito Oliver (Marjoe Gortner) si accorge che la moglie ha qualcosa che non va, visto che ogni notte la trova seduta davanti alla finestra in trance. A questo punto Oliver si rivolge al medico di famiglia, il dottor Andrews (Norman Burton) che nel tempo libero è anche ipnotizzatore e riesce a portare in trance Susan semplicemente mettendogli davanti un pendolo senza neanche la fatica di farlo oscillare.

Dalla seduta ipnotica emerge quindi che la donna è posseduta e solo applicandogli la corona di spine contenuta nel mausoleo sarà possibile allontanare il demone. Insomma la storia cerca di ricalcare il tema delle possessioni in stile “Esorcista” ma senza i mezzi né lo spessore del capolavoro di Friedkin. Il ritmo è bislacco e la recitazione raggiunge punte di incompetenza tipiche del prodotto nato sotto l’egida del cestone delle offerte natalizie tutto pieno di filmacci in vhs a prezzo scontatissimo. La Bresse, nota anche per aver la sua presenza in Ghoulies (1985), tentava allora la carriera come scream queen platinata, purtroppo il non aver azzeccato un film che sia uno, fece naufragare miseramente la sua carriera. 

giovedì 27 aprile 2023

MALADOLESCENZA

 (1977)

Regia Pier Giuseppe Murgia

Cast Eva Ionesco, Lara Wendel, Martin Loeb

Parla di “una calda estate per tre adolescenti tra innocenti barbarie, sesso e morte”

Di recente i Social si sono infiammati per la causa perpetrata alla Paramount Pictures da parte di Olivia Hussey e Leonard Whiting, interpreti del Giulietta e Romeo (1968), a causa di una scena di nudo non autorizzata in quanto all’epoca minorenni. Sebbene faccia un po' ridere che due anziani attori producano una causa per un film dopo più di 50 anni, la querelle ha riportato a galla, in qualche commento letto qua e là, un altro film ben più scandaloso dello zuccherificio shakespeariano di Zeffirelli, un’opera controversa e a tratti disturbante dove il nudo pre-adolescenziale non solo è apertamente mostrato ma raggiunge vette oggi impensabili se non dietro immediato sequestro e carcerazione di tutta la troupe per reiterata pedofilia. Il film in questione è Maladolescenza, una produzione Tedesco/italiana diretto dall’allora esordiente Pier Giuseppe Murgia in cui si narra di un’estate molto particolare per Laura e Fabrizio, due ragazzetti che gironzolano per i boschi durante le vacanze estive, incontrano la bionda Silvia e inizia un menage a trois molto particolare, tra abitazioni apparentemente vuote, grotte e rovine immerse nella vegetazione. 

Il giovane Fabrizio è un dispotico schizzato che praticamente dorme nei boschi, si diverte a trattar male la giovane e ingenua Laura fino a sedurla carnalmente. L’incontro con Silvia fa scoppiare una passione che sfocerà purtroppo nella tragedia finale. Maladolescenza non lesina nel mostrare i corpi acerbi ed efebici dei tre giovani protagonisti e in particolare quello dell’undicenne Eva Ionesco che aveva già dato scandalo grazie a delle foto realizzate dalla madre Irina con cui offriva al pubblico la carnalità innocente della figlia senza alcun velo. Ed in effetti la macchina da presa indugia senza ritegno sulle parti intime della Ionesco dove invece la riproduzione dei movimenti sessuali da parte dei giovanissimi risulta alquanto grossolana, del resto anche la recitazione risulta spesso forzata generando spesso una sensazione surreale. 

Il film non fu scevro dal generare scandali alla sua uscita e, difatti venne tagliato nelle prime edizioni Home Video. Oltre alla Ionesco recitano anche l’allora diciasettenne Martin Loeb e una Lara Wendel all’epoca undicenne che ritroveremo in molto cinema di genere successivo. Murgia mette in scena erotismo e crudeltà barbarica quasi fossero giochi adolescenziali, una sorta di stadio selvatico che accompagna i bambini verso l’età adulta e li rende capaci di una cattiveria che, per certi versi, ricorda Il signore delle Mosche. Nel mezzo della trama appare e scompare senza alcun senso, se non quello puramente metaforico, un cane lupo, probabilmente a simboleggiare il diavolo incarnato e tentatore o forse semplicemente la bestia nuda e cruda, quella che alberga dentro ognuno di noi ma soltanto nei boschi trova la sua strada per uscire allo scoperto.  


giovedì 20 aprile 2023

MERIDIAN

Regia Charles Band 

Cast Charlie Spradling, Malcolm Jamieson, Sherilyn Fenn 

Parla di “giovane castellana viene drogata e stuprata da bestia che si trasforma solo quando è innamorata” 

Nel proseguire la storia di quei film che “avrebbero potuto essere ma non sono stati” si deve necessariamente citare quest’adattamento in salsa horror romantico della celebre fiaba “La bella e la bestia” realizzata dalla Full Moon Entertainment. Un’opera che, dalle premesse, avrebbe dovuto rappresentare il canto del cigno di Charles Band, abituato a realizzare film a basso costo, con effetti artigianalmente splendidi ma di fattura alquanto grossolana. La produzione si sposta in Italia e gira in due splendide location che il regista sfrutta a dismisura già dalle prime inquadrature quando vediamo una sorta di eterea quanto lentissima processione di circensi che escono dalla bocca dell’orco del parco dei mostri di Bomarzo, nel viterbese. 

La storia prosegue con l’apparizione della giovane pittrice Gina (Charlie Spradling accreditata nei titoli solo come Charlie) che deve ristrutturare un quadro donato alla chiesa dalla famiglia Bomarzini. Prima di iniziare Gina va ad accogliere Catherine, ultima della casata dei Bomarzini e signora del castello (che è poi il castello di Giove a Terni). Le due ragazze si recano a vedere uno spettacolo circense in strada ed ammaliate da Lawrence (Malcolm Jamieson), il padrone del circo, decidono di invitare gli artisti per una cena al maniero che sembra uscito da qualche filmaccio medioevale. Il sempiterno Phil Fondacaro, forte della sua altezza limitata, passeggia sul tavolaccio e offre alle ragazze del vino drogato. A questo punto vediamo il nano lustrarsi la lingua mentre Gina appare confusa, ma non si saprà mai se l’ha stuprata o meno. Catherine invece viene sedotta dal e poi violentata da una bestia pelosa che si scoprirà essere Oliver, il fratello gemello di Lawrence il quale, se innamorato si trasforma in un mostro belluino con la faccia da idiota. La storia tende poi a incasinarsi inutilmente. Scopriamo che la governante di Catherine è un fantasma, che una sua antenata è stata uccisa a colpi di balestra dalla creatura (seppur non intenzionalmente). 

Poi c’è Lawrence che è cattivo ma ama il fratello, Oliver, il quale tenta di suicidarsi ma non può perchè solo chi lo ama lo può ferire e il fratello, sadicamente, si rifiuta di farlo. Il tutto in un’atmosfera soffusa, da telenovela sbiadita dove, a un certo punto, si tenta anche di mostrare la trasformazione belluina del mostro sullo stile di “Un lupo mannaro americano a Londra” ma si vede che poi, sono finiti i soldi, perché a metà mutazione la sequenza si interrompe. Band ingaggia l’allora pagatissima Sherilyn Fenn, reduce da Twin Peaks e Cuore Selvaggio di David Lynch, affinchè mostri più carnazza possibile davanti alla macchina da presa, musica con il maestro Pino Donaggio e si fa sceneggiare  il tutto dal bravo Dennis Paoli (Re-Animator, From Beyond) ma il risultato collassa proprio nell’eccesso di estetismo e romanticismo d’accatto che trasformano quello che doveva essere il film più mainstream di Band in una farsa grottesca senza né capo né coda.