giovedì 25 luglio 2024

AMERICA COSI’ NUDA, COSI’ VIOLENTA (1970)

Regia Sergio Martino 

Cast Giorgio Albertazzi (voce), Guido Gerosa (voce), Gianfranco Vene (voce) 

Parla di “indagine mondo su usi e costumi bizzarri della società americana tanto per mostrare qualche sequenza shock e soprattutto tanta carnazza a stelle e strisce” 

Come per tutti i registi di genere italiani (ma anche all’estero) la filmografia di Sergio Martino è costellata di piccoli capolavori e grandi monnezze, tra commedie sexy, fantascienza, horror e thriller. Ma agli inizi degli anni ’70, quando ancora il genere era gettonatissimo nelle sale, Martino ha esordito alla regia di tre mondo movies, una trilogia di cui questo “America così nuda, così violenta”, rappresenta la conclusione del suo excursus nel genere documentaristico shock. Il leit motiv in questo caso è la scoperta di usi e costumi del popolo americano con particolare attenzione a quelli più bizzarri e scottanti. 

Il risultato è un collage alquanto dozzinale di sequenze, tra verità e finzione, di situazioni pruriginose che rappresentano casi al limite, spesso di minoranze bizzarre e non sicuramente rappresentativi dell’apparato sociale degli Stati Uniti d’America. Si perché nonostante i pippottoni moralistici elargiti dal narratore Giorgio Albertazzi, l’unico intento del film è mostrarci abbondanti nudità e inquadrature shock, meglio se condite da sangue e frattaglie sparse qua e là. L’appeal è decisamente reazionario e moralistico, con particolare accanimento sui poveri hippies che vengono sbeffeggiati e ridicolizzati sin dalle prime sequenze, del resto siamo ad appena un anno dalla strage di Cielo Drive che costò la vita alla povera Sharon Tate e amici vari nella villa di Bel Air, inquadrata clandestinamente dall’esterno e montaggio abbinato di un rituale pseudo-satanico in cui un gruppo di freak decapita una povera gallina facendo colare il sangue sul corpo ignudo di una vittima sacrificale su cui gli officianti si avventano a bere avidamente. 

A seguire balli e canti di una comunità hare krishna con neonati che gattonano in mezzo ai fedeli danzanti e un pasto a base di blatte registrato con dovizia di effetti sonori croccanti per alimentarne il disgusto visivo. La macchina da presa indaga poi su comunità di pellerossa dislocati nel carcere abbandonato di Alcatraz, corse in moto e auto impennate, massacri di conigli appesi per le zampe e capelloni che si tranciano le dita in diretta per evitare di finire in Vietnam. Da sanguinose circoncisioni di origine africana operate clandestinamente attraverso riti tribali si viaggia nella coloratissima Las Vegas alla ricerca di ludopatici rovinati per sempre che vanno a suicidarsi nel deserto passando per anziani abbandonati negli ospizi e barboni accasciati per le strade di New York e improvvisati pittori che si dedicano al body painting a spese di giovani modelle ignude.

E poi raduni modello Woodstock dove si indaga sul consumo di sostanze stupefacenti, battute di caccia razziali, bambole gonfiabili, ristoranti in cui a  servire ci sono cameriere nude, empori dove si acquista sangue (blood bank) e altre amenità dove, tra sequenze palesemente ricostruite e indagini opportunistiche, si sviluppano 90 minuti di montaggio serrato a opera di Michele Massimo Tarantini e una splendida colonna sonora di Bruno Nicolai, unica vera nota d’interesse per un film dozzinale dove si mostra tanto per non dire nulla di nuovo. 

mercoledì 17 luglio 2024

TARZOON, LA VERGOGNA DELLA GIUNGLA

(Tarzoon, la honte de la jungle, 1975) 

Regia Picha, Boris Szulzinger 

Parla di “ peni alieni rapiscono Jane della Giungla per rifare il parrucchino alla regina Bazonga ma Tarzoon non ci sta e comincia a fare casino nella Savana”  

Quello dell’animazione per adulti è sempre stato un genere cinematografico piuttosto complesso con cui era difficile ottenere grandi consensi nell’immediato. Opere come il Signore degli anelli o Fritz il Gatto di Ralph Bakshi sono state considerate dei Cult solo dopo che la loro fama era cresciuta nel tempo, questo perché ancor oggi il pubblico generalista tende a identificare il genere animato come un prodotto per bambini mentre questi film creano un punto di rottura utilizzando l’animazione per fuoriuscire dai canoni della settima arte e definire un qualcosa di unico e spesso incompreso. 

Se poi ci si mette anche il sesso esplicito le cose tendono a complicarsi ulteriormente e infatti, negli anni settanta, con la liberazione dei costumi sessuali e una certa curiosità verso prodotti di nicchia, meglio se sperimentali e anarchici, gli adult animation destavano un certo interesse che ha permesso il proliferarsi di pazzie come questo Tarzoon, opera prima del belga Picha, pseudonimo di Jean-Paul Walravens, che all’estero è un po’ il comprimario di Bakshi per quanto riguarda il genere ma ovviamente in Italia non lo conosce quasi nessuno (e Tarzoon rimane l’unica sua opera distribuita qui da noi). Tra scene di sesso esplicito, sbudellamenti e una robusta dose di humor nero, Tarzoon riprende in chiave parodistica le avventure del personaggio creato di Edgar Rice Burroughs, i cui eredi fecero causa due volte alla produzione  per l’uso illegittimo e degradante del personaggio, al punto che, in America la produzione fece uscire il film con il titolo Shame of the Jungle, omettendo anche dai manifesti qualsiasi riferimento a Tarzan e Jane. 
Del resto non si può certo biasimare chi trova il film un tantinello folle e dissacratorio: elefanti che vengono trapanati analmente, zanzare che si fottono mosche, scimmiette che si masturbano e si chiavano Jane ma soprattutto un esercito di peni giganti che scorrazzano allegramente nella Jungla zompettando sui propri scroti e sparando in giro liquido seminale esplosivo. Tutto parte da un’astronave aliena che atterra in Africa per catturare Jane, il cui scalpo verrà usato dalla
perfida regina extraterrestre Bazonga per ricoprire la sua testa calva, con l’aiuto di due scienziati siamesi. La regina invia così i suoi peni soldato a catturare la donna, nel frattempo delusa delle fiacche prestazioni sessuali di Tarzoon (per fortuna c’era anche Cheeta a dare manforte). 

Dopo aver coinvolto Jane in un threesome, i tre cazzoni portano la donna in questa specie di ridicola astronave (che sembra un mix tra l’astronave trapano di I-zenborg e il dirigibile Hindenburg) dove viene legata ad un tavolo operatorio. Scoperto il rapimento, l’uomo della Jungla si lancia all’inseguimento tra fiori carnivori, esploratori e cannibali rosicchiatutto, c’è persino l’apparizione fugace di Tin Tin che mena crocefissi agli indigeni. Nel doppiaggio americano compaiono nel cast di voci anche Bill Murray e Cristopher Guest.  

venerdì 12 luglio 2024

PIECES

(Mil gritos tiene la noche, 1982) 

Regia Juan Piquer Simón 

Cast Cristopher George, Linda Day, Edmund Purdom 

Parla di ”ragazzino amante dei puzzle cresce e decide di costruirne uno con I corpi di ragazze smembrate a colpi di motosega”  

Nel corso della presentazione di Thanksgiving, la nuova fatica di Eli Roth (Cabin Fever, Hostel, The Green Inferno) tenutasi alla Fondazione Prada di Milano, il regista, parlando di Pieces, si è rivolto al pubblico chiedendo quanti di loro lo stessero per vedere la prima volta. “Quanto vi invidio, è un’esperienza incredibile!” – Ha affermato il regista, e a questo punto, appertenendo io stesso alla categoria dei neofiti, mi sono convinto, nonostante l’ora tarda (il film, come è giusto che sia, iniziava a mezzanotte) a rimanere per la visione. E il buon Eli aveva ragione, cazzo, se aveva ragione! Pieces è davvero un’esperienza unica nel suo genere, uno slasher dove il tasso di ignoranza supera i livelli di guardia e le assurdità (vedete il finale e poi mi fate sapere) mescolate allo splatter estremo e rintuzzate a casaccio lungo il breve corso della pellicola trasformano la visione in un’esperienza al limite del surreale. 

Dopotutto parliamo di un film che parte in tromba con un ragazzino che sta giocando con il puzzle di una ragazza nuda, la madre lo becca e minaccia di buttare via tutto e il ragazzino non trova niente di meglio da fare che spaccare il cranio del genitore e farne a pezzi il corpo. Anni dopo la scena si sposta in un campus di Boston dove, senza neanche darci il tempo di respirare, il regista Juan Piquer Simón ci regala una bella decapitazione con motosega ai danni di una studentella sdraiata sul prato. Come si evince immediatamente, il misterioso assassino in tenuta Baviana (vestito cioè come il killer di 6 donne per l’assassino quindi con cappottaccio e cappellaccio) ma armato di una hooperiana “chainsaw”, si dedica a sua volta al gioco del puzzle ma con corpi umani appartenuti, manco ci fosse bisogno di dirlo, a giovani e bellissime ragazze. 

Le assurdità si sprecano, a cominciare dal fatto che l’intera indagine viene affidata dall’ispettore Frank (Cristopher George) ad uno studentello secchione ma particolarmente capace con le ragazze (già questo stravolge il clichè del nerd da campus) e nonostante il ragazzino sia pure sospettato, viene invitato ad analizzare documenti importantissimi della Polizia. Ad un certo punto irrompe anche Mary (interpretata da Linda Day che era pure la moglie di Cristopher George), una ex campionessa di tennis sotto copertura, la vediamo passeggiare di notte nel parco della scuola e, ad un tratto viene assalita da un cinese che si esibisce in una serie di arti marziali ed altri non è che Bruce Le, controfigura storica del celebre attore. 

Nel cast troviamo anche quella vecchia gloria di Paul L. Smith, celebre (vabbè insomma) per essere stato un po' il clone di Bud Spencer in certi western italiani di bassa caratura. Irresistibile il suo sguardo strabico e le smorfie da maniaco incazzoso che tiene per tutto il film. Nonostante l’ambientazione americana, il film è girato per la maggior parte a Valencia in Spagna, le nudità si sprecano (anche maschili) e le scene gore abbondano, omaggiando in più momenti il cinema di Hershell Gordon Lewis, in particolare l’ultimo omicidio risulta particolarmente ben fatto (soprattutto in termini di prostetica) ma è soprattutto il finale che lascia a bocca aperta, un’ultima sequenza che ti fa uscire dal cinema con quella domanda ormai classica tra gli estimatori: “Ma cosa cazzo ho visto?”. 

giovedì 4 luglio 2024

DIARIO PROIBITO DI UN COLLEGIO FEMMINILE (Horror Hospital, 1973)


Regia Antony Balch 

Cast Michael Gough, Robin Askwith, Vanessa Shaw 

Parla di “nonostante il titolo, non si parla di sesso ma di un mad doctor che riduce in schiavitù giovani capelloni e affetta teste con machete attaccato all’auto” 

Già me li immagino i bavosi pipparoli italiani attratti in massa da un titolo che evoca libidinosi incontri saffici, addensati in un cinemino di provincia col patello in mano, sconvolti dalla delusione dopo i primi minuti del film. Non assisteranno infatti alle pratiche erotiche di dolci teenager in calore, in compenso si godono quel mascellone diabolico di Michael Gough che insegue sulla sua limousine attrezzata con machete attaccato ad una portiera (a guisa di biga romana) due ragazze bendate e intrise di sangue. Sfrecciando accanto, l’auto stacca di netto la testa alle due poverelle, che vengono raccolte in un cestino attaccato anch’esso al veicolo (full optional!!!!). Insomma a stò giro i distributori italiani hanno ordito una colossale truffa al pubblico nazionale, trasformando questo horror inglese, condito da robuste dosi di humor e soprattutto di trash, in una sorta di porcellonaggine falsata. 

Titolato in originale più appropriatamente come “Horror Hospital”, il film di Antony Balch è una stranezza cinematografica che non lascia indifferenti, soprattutto gli amanti del weirdo, perché qui c’è ne in abbondanza. Si parte con un esibizione rock a metà tra The Rocky Horror Picture Show e Il fantasma del palcoscenico, con un tipo vestito da donna che fa il morto. Tra il pubblico il sosia di Mick Jagger, Jason (Robin Askwith), autore del brano, si lamenta per come viene trattata la sua musica, ma il lamento giunge alle orecchie del morto sul palco che risorge e lo prende a pugni. Stressato da questa vicenda Jason decide di prendersi una vacanza e si affida all’agenzia Hairy Holidays (vacanze per capelloni!) gestita da un viscido ometto (Dennis Price) che lo invia ad una magione gestita dal dottor Storm, sul treno incontra Judy (Vanessa Shaw) che si reca anch’essa alla clinica per raggiungere sua zia. 

Dopo una serie di dialoghi assurdi i due raggiungono una stazione ferroviaria deserta in cui l’unica presenza umana è un capotreno dagli occhi spiritati che chiede il biglietto due ore dopo che sono scesi dal treno. Raggiunta la clinica la coppia non tarda a scoprire le stranezze del luogo, anzi gliele si sbatte in faccia subito senza preamboli. Una vecchia ipertruccata (la zia di Judy interpretata da Hellen Pollock), un nano bistrattato, un gruppo di guardie del corpo vestite come motociclisti ed il volto perennemente nascosto nel casco, una serie di giovani pazienti lobotomizzati e, dulcis in fundo, l’uomo merda, ovvero uno strano mostro che sembra proprio ricoperto di una bella spalmata di cacca marroncino chiaro. Sfuggito alle maglie del comunismo sovietico ed accanito sostenitore delle teorie pavloniane (come ci viene gentilmente spiegato in un inutile flashback dove non si vede un cazzo), il dottor Storm (interpretato da un Gough decisamente mefistofelico) si diverte a trasformare giovanotti e signorine in zombie obbedienti ai suoi voleri che, scopriremo sul finale, sono puramente sessuali. 

Decisamente ilare la scena degli schiavi che fanno palestra, ridicoli i corpo a corpo tra Jason, Abraham (il fidanzato di una vittima venuto a cercarla) e i motociclisti, che vengono comicamente lanciati giù dalle balaustre come se fossero stracci vecchi. Non manca anche un bel pantano ribollente di sabbie mobili miste ad acido che ingoieranno i cattivi nel finale. Tra l’altro il film si chiude con una scena enigmatica (che non vi rivelo) che sinceramente non avrà compreso neanche il regista. Scorrevole, adorabilmente camp e assurdo nel suo insieme Horror Hospital è comunque un film che si lascia guardare a occhi e bocca aperti dallo stupore, probabilmente gli spettatori italiani, visto il titolo, si aspettavano di guardarlo anche a patta aperta, pazienza! 

giovedì 30 maggio 2024

CATTIVE RAGAZZE (1992)

Regia Marina Ripa di Meana 

Cast Florence Guerin, Eva Grimaldi, Brando Giorgi 

Parla di “Donna criminale contro donna in carriera per contendersi maschio oggetto in tenuta da cowboy metropolitano”  

Pur trovando riprovevole, in senso generale, il finanziamento di opere cinematografiche con soldi pubblici (tranne nel caso di “vere” opere d’arte), trovo ingiusto l’accanimento perpetrato nei confronti dell’opera prima (e unica) di Marina Ripa di Meana, una sorta di grottesco thriller che oscilla tra il serio e il faceto con tematiche a sfondo iperfemminista. Pur parlando di 2 miliardi e passa di budget speso per realizzarlo, il film non è poi peggio di molte altre opere uscite al cinema, soprattutto in tempi successivi, ma si sa che in Italia non si punisce chi fa il crimine ma chi lo nasconde peggio. Le protagoniste principali sono Florence Guerin nel ruolo di Marilyn che indossa una ridicola parruccona da rockstar e si dedica a rapinare un gioielliere asiatico per poi lasciarlo legato nella camera d’albergo vestito in tenuta sado-maso, e poi c’è Eva Grimaldi nella sua migliore (o forse andrebbe detto, la meno peggiore) interpretazione cinematografica, qui nel ruolo di Alma, donna d’affari stalkerizzata dall’assurda madre del suo ex marito (una grottesca Anita Ekberg al tramonto sia fisico che professionale) e dal suo capo (interpretato da quel Burt Young rimasto famoso in Rocky ma poi nulla di fatto). 

Quando Marilyn esce di galera rivede Amy, la nana (o meglio diversamente alta) con cui aveva fatto il colpo e medita di vendicarsi del suo ex Brian, oggi divenuto una specie di gigolo che, guardacaso, si presenta come regalo di compleanno per Alma, la quale, dapprima lo rifiuta ma poi si vede costretta a fuggire insieme, inseguita dalla ex suocera armata di mannaia. Da qui in poi la storia prende una piega da road movie in cui Marilyn insegue Brian e Alma mentre Amy passa il tempo a piagnucolare perché l’amica non ricambia le sue effusioni saffiche. Se l’intento della Ripa di Meana era quello di elogiare l’indipendenza femminile realizzando un film dove le donne sono cazzute e completamente slegate dall’elemento maschile, dobbiamo purtroppo dichiarare il fallimento, visto che il risultato sembra piuttosto parodiare un certo atteggiamento femminista, estremizzandone situazioni e atteggiamenti. Quello che si può imputare al risultato finale, è un’estetica trash che richiama al cinema di John Waters, con personaggi fuori dalle righe, ma anche costumi assurdi e dialoghi imbarazzanti. 


Sulla recitazione e soprattutto sulla caratterizzazione dei personaggi stendiamo un velo pietoso, tuttavia il film risulta scorrevole e a tratti divertente, la Grimaldi è sempre un bel vedere e risulta se non altro simpatica, stessa cosa non si può dire del finto cowboy interpretato da Brando Giorgi credibile come una moneta da tre euro con i suoi jeans attillati e un atteggiamento da seduttore della nonna. Certo, di schifezze cinematografiche bisogna averne viste tante per poter apprezzare questo film, ma noi scafati cultori dell’orrido in celluloide non abbiamo limiti al nostro masochismo e ci facciamo piacere qualsiasi cosa ci tenga sveglio per più di mezz’ora. 

giovedì 16 maggio 2024

FUNNY FRANKENSTEIN aka AGNESE E…(1982)

Regia Alan W. Cools (Mario Bianchi) 

Cast Mark Shannon, Aldo Sambrell, Laura Levi 

Parla di “impiegati allupati rispondono ad un annuncio e si ritrovano in mezzo a satanisti ancora più allupati di loro” 

Gola profonda meets Rocky horror picture show? Senza andare a scomodare due classiconi nel loro genere, possiamo senz’altro definire questa fatica di Mario Bianchi come un fulgido esempio di monnezza risorta dalle pieghe del tempo. Realizzato dal regista nel suo breve periodo sexy-horror (quindi subito dopo “La bimba di Satana”) con lo pseudonimo Alan W. Cools (anche se pare che il film lo realizzò per intero Luigi Petrini), il film conteneva numerose scene pornografiche ad oggi irreperibili nella versione integrale, per cui bisogna accontentarsi di una versione edulcorata, mutilata di tutti i peni in vista (fortunatamente la mutilazione riguarda solo l’ambito visivo!) ad eccezione del finale dove i due protagonisti Mark Shannon (Al secolo Manlio Cersosimo) e Aldo Sambrell, dopo ore di sesso sfrenato, possono lasciare a riposo i loro membri sfiniti. 

Nonostante la realizzazione risalga ai primi anni ottanta, il film fu distribuito solo dieci anni dopo sfruttando il visto censura de “La dottoressa di campagna” uscendo, per l’appunto, con il titolo “Agnese e…la dottoressa di campagna” che, se si guarda l’opera, non c’entra un beneamato cazzo di niente. La storia parte all’interno di un normale condominio dove lo spagnolo Sambrell (qui in un ruolo inedito essendo l’attore specializzato nel genere western) si reca in una specie di casa d’appuntamenti dove una bionda lo costringe a fare sesso indossando indumenti femminili. Lo segue Mark Shannon, invidioso della sfrenata attività sessuale del collega. Qui il Bianchi ci piazza a tradimento alcune scene saffiche che non hanno alcun senso se non quello di implementare il carico sessuale dell’opera. Shannon e Sambrell lavorano entrambi in uno studio di pubblicità dove bullizzano Agnese, una collega dai modi rigidi e casti. Mentre Shannon e un altro collega un pò hippy si dedicano ad attività voyeuristiche, il prode Sambrell si fa una bella sveltina nella sala oscura con una collega ninfomane che, dopo la scopata si concede, non ancora appagata, un po' di sano autoerotismo sia prima che dopo essersi fatta il bagno. 

Queste atmosfere bucoliche però, prendono una piega inaspettata quando Sambrell decide di rispondere ad un annuncio pubblicato sulla rivista “Intimità”. Shannon insiste per seguirlo e i due si ritroveranno a Villa Lucifera in un guazzabuglio infernale dove si celebrano riti satanici accompagnati dalla musica di Shining e nel contempo teste di mostri decapitati rotolano dalle scale mentre un tizio vestito come un pellerossa sfodera un enorme fallo posticcio. Mentre cercano una via d’uscita, i due incontrano una sorta di cameriera mascherata, la quale reca sul sedere l’invito a seguirli per poi sfondarli a colpi di sesso senza interruzione. Sorpresa! Sorpresa! La cameriera non è altri che la loro collega Agnese che, dopotutto non è così casta come vuole apparire. Tra commedia, horror e pornografia, il film non riesce a funzionare in nessuno dei tre generi, troppo rozzo e malfatto, quasi peggio delle commedie pierinesche. Almeno si trovasse la versione integra potremmo consolarci con un porno vero e proprio e non con questa versione in cui l’unico Frankenstein citato nel titolo è proprio la pellicola, mutilata e ricucita senza alcun riguardo per lo spettatore. 

giovedì 9 maggio 2024

DRACULA (THE DIRTY OLD MAN) (1969)


Regia William Edwards 

Cast Vince Kelly, Ann Hollis, Billy Whitton 

Parla di “Vampiro ipnotizza licantropo per farsi portare la cena a casa mentre il doppiatore si fa I cazzi suoi allegramente” 





La sua disgrazia fu anche la sua fortuna, poiché se il sonoro del film non era così schifoso al punto da dover essere rifatto completamente in post produzione dal regista William Edwards, probabilmente nessuno, oggi annovererebbe tra i cult più esagerati questo Dracula (The dirty old man). Infatti, se nelle intenzioni della produzione il film doveva essere un horror a tinte erotiche, il doppiaggio raffazzonato e scazzatissimo inserito successivamente, lo trasformò in un film comico ed è questo l’unico motivo per cui ricordare questa assurdità sexploitation, un soft-core ridicolo reso ancor più ridicolo da un commento fuori campo di un unico doppiatore che cambia voce a seconda dell’attore da doppiare in scena al punto che tenta di imitare le voci femminili con suoni da cornacchia gracchiante. Ogni tanto sembra, poi, che vada per i cazzi suoi (ma non è solo una sensazione), divagando in pensieri totalmente estranei a quello che succede sullo schermo quando non è completamente fuori sincrono.

L’introduzione è memorabile, con una lunga inquadratura su un gruppo di colline al tramonto e una voce fuoricampo che ripete ossessivamente “behind the blue hills behind the blue hills behind the blue hills….”. Il weirdo prosegue con il conte Alucard (Dracula al contrario...che  cosa innovativa!!!!) che si alza da una bara il cui coperchio si solleva a comando grazie a cavi (mica tanto) invisibili, spuntano di seguito, dei pipistrelli fatti con cartone pressato ondeggiati sul soffitto di roccia e un viaggiatore di commercio chiamato Jeckyll che cerca una toilette (eh beh! Qui entriamo nel sublime!). Siccome ha bisogno di un servo che gli porti a domicilio le sue vittime, il conte ipnotizza l’uomo e lo trasforma in un orribile licantropo con capelli rasta, dei guanti di pelle a tre dita e un muso che sembra un incrocio tra un porco e una iena. Il licantropo inizia quindi a catturare le prede femminili per il suo padrone il quale le lega a pali di legno, le spoglia con dovizia e ne succhia il sangue, ovviamente mordendole alle tette. 

Intanto il licantropo, evidentemente stufo di fare il rider per il conte, assale una giovane direttamente in casa, ammazza il fidanzato e si trastulla con la donna dopo averla massacrata (l’effetto splatter è dato più che altro da generose manate di vernice rossa sulla faccia degli attori). Questa tecnica di ammazza e stupra evidentemente piace parecchio all’uomo lupo visto che ad un certo punto inizia a contendersi l’ultima vittima (che poi era la fidanzata di Jeckyll) fino alla catarsi finale. Non prima di aver ripreso una lunga fuga della ragazza tra le rocce, ovviamente completamente nuda. Ultimo baluardo del nudie cutie, questo film è divenuto negli anni un piccolo cult di mezzanotte, particolarmente interessante la colonna sonora, un prog rock costante e ossessivo che accompagna indiscriminatamente tutto il film, infischiandosene di quello che succede sullo schermo, il che dopotutto è coerente con il doppiaggio.