mercoledì 24 aprile 2024

VENNI, VIDI E M’ARRAPAHO (1984)

Regia Vincenzo Salviani 

Cast Giziana Spatrisano, Alessandro Cerquetti, Athena Minglis 

Parla di “sfigatissimi musicisti in cerca di gnocca tentano di vincere un concorso mentre sullo schermo esplodono le note di soavi canzoncine che ci suggeriscono quanto è dolce la patata” 

Non è ben chiaro se il termine “M’arrapaho” inserito nel titolo sia uno stratagemma opportunistico per sfruttare il contemporaneo successo del film di Ciro Ippolito dedicato agli Squallor, se si riferisca al nome della band protagonista, ovvero gli Arrapathis, o meglio ancora alle pulsioni sessuali dei suoi membri, perennemente malati di figa, al punto che anche i testi delle canzoni che dominano la trashissima colonna sonora esprimono totalmente l’urgenza di una sana chiavata. In realtà assistendo alle vicissitudini di questi quattro sfigati, non si giungerà mai a null’altro oltre a qualche casto bacetto da parte delle loro pseudo fidanzate con cui, per tutta la durata del film, non faranno altro che scorrazzare per le vie cittadine, infrattarsi nei parchi o simulare coiti con la voce previo colazione pagata per tre mesi. 

Per il resto i giovanottoni passano il tempo a rubare il pesce che due pescivendoli concorrenti si lanciano sulla piazza cittadina, per poi utilizzarlo come pagamento del noleggio di un sassofono appartenente ad un vecchio bisbetico con la figlia perennemente sdraiata sul letto che i quattro si divertono a sbirciare nascosti dietro la porta. Approvvigionatisi del suddetto strumento li vediamo esibirsi poco convinti presso una sala da ballo durante le lezioni di aerobica dirette da un pederasta che sembra il fratello scemo di Ninetto Davoli. Più interessati ad osservare culi e tette delle ballerine che a suonare, i quattro scemi affronteranno a fine film, persino un concorso musicale dove finalmente la fidanzata del sassofonista, membro della band nemica (i due leader si sfidano all’inizio persino ad una gara di motocross) decide di cantare con gli Arrapathis e sfodera una voce di gallina in grado di sfondare un cristallo di Boemia a chilometri di distanza. Il finale poi è una perla di montaggio dove la figlia del proprietario del sax (che senza soldi si rifiutava di prestarlo per il concorso) ruba lo strumento al padre ed entra nel teatro, dopodichè stacco improvviso e il protagonista si alza dal pubblico suonando meravigliosamente. A questo punto, gli spettatori si sorbiscono una smielatissima canzone in inglese maccheronico ed il pubblico esplode di gioia decretandoli vincitori senza che si faccia manco la fatica di far annunciare la vittoria al deprimente presentatore, la cui faccia sembra appena risorta dalla bara. 


Recitazione da filmaccio alvarovitaliano pierinesco arricchita da sequenze panoramiche messe a casaccio, il film diretto dal regista per caso Vincenzo Salviani (più conosciuto come produttore del resto) e coadiuvato da Mario Bianchi (conosciuto soprattutto per le sue pellicole hard), è un curioso mix tra la commedia giovanilistica in stile Porky’s e il musicarello, dove per l’appunto la componente trash è maggiormente rappresentata dalla colonna sonora. Brani come “Monica”, “La canzone del cacchio”, “Luna donna luna” e il grande successo “Come Sarà” rappresentano il punto di non ritorno del minimal synth pop danzereccio anni ottanta arricchito da testi inenarrabili di cui pubblichiamo volentieri un estratto dalla poetica “Domenica Svortamo” 


Domenica Svortamo, 

Sento odore di scopata 

Finalmente scoprirò 

Come è dolce la patata 

(Ritornello: Meeee laaa 

ìImpossibile non commuoversi di fronte a siffatta poesia mentre sul video scorrono le immagini di un guitto che tenta di cantare in playback con una voce non sua e la banda si scaracolla giù dagli scivoli. 

Questo (non) è cinema, ragazzi! 





giovedì 18 aprile 2024

TOP LINE (1988)

Regia Nello Rossati 

Cast Franco Nero, Deborah Moore, George Kennedy 

Parla di “scrittore alcolizzato scopre astronave aliena dentro un galeone spagnolo e da quel momento viene inseguito da tutti, compreso un Terminator modello Michael Jackson”  

Opera poco conosciuta di un onesto mestierante come Nello Rossati, questo Top Line richiama negli intenti la moda del misterioso Triangolo delle Bermude generata nel 1978 con il successo dell’omonimo film di Renè Cardona Jr. Successo che durò una decina d’anni tirandolo per le lunghe con una serie di titoli in cui si inserivano spiegazioni (a turno) di tipo demoniaco/fantascientifico/avventuroso per quanto riguarda l’inspiegabile evento che fece scomparire navi e aerei nel corso dei decenni precedenti (ci fu persino un gioco da tavolo che probabilmente oggi, a livello di collezionismo, vale una fortuna). Purtroppo il film di Rossati arrivò fuori tempo massimo e quindi non se lo filò nessuno. Peccato perché, almeno per quanto riguarda la prima parte, non è malaccio, ma purtroppo quando si entra invece nel vivo della fantascienza con alieni e androidi che il cinema italiano piomba improvvisamente in ambito trash, soprattutto nella resa degli effetti speciali. 

Il protagonista Ted Angelo (Franco Nero) è uno scrittore italiano alcolizzato che vive a Cartagena, mantenuto dalla ex moglie (la bellissima modella Mary Stavin) a scrivere articoli sugli aztechi. Quando giunge alla sua attenzione l’antico diario di un conquistadores, Ted viene invischiato in una serie di omicidi e si reca sulla montagna dove è stato ritrovato il manoscritto, qui scopre un galeone spagnolo al cui interno vi sono elementi di fattura aliena. Da questo momento il film prende una piega da spy story con inseguimenti e sparatorie tra cui una adrenalinica corsa su un furgone pieno di galline guidato da due contadini ubriachi. Tra un sicario e l’altro spunta anche il Terminator, un gigante che sembra la copia ispanica di Michael Jackson nel video Thriller. L’androide rivela la sua fattura meccanica quando, ad un certo punto, finisce nel bel mezzo di una fabbrica di fuochi artificiali che ha preso fuoco, lo vediamo con mezza faccia ricoperta da cavi e cavetti elettrici con un occhio sporgente, attaccato a una protuberanza di plastica, che si muove disconnesso dall’altro; un mirabile esempio di make-up alla caciottara tipico dei b-movie italiano, in altre parole: una meraviglia! 

Ma se il cinema nazionale difetta di alti budget, non lesina in quanto a fantasia e infatti, a distruggere il mostruoso terminator, ci pensa nientemeno che un toro inferocito. Sul finale poi, possiamo goderci appieno l’apparizione dell’alieno, nascosto in forma umana perché ovviamente sono intorno a noi da millenni e chiaramente ci comandano (tanto per citare anche il contemporaneo Essi Vivono). Peccato che la trasformazione sia l’apoteosi del ridicolo, tra filari viscidi e bava colante, il mostro si rivela con una assurda faccia da mastino napoletano che muore miseramente con un semplice colpo di pistola mentre sta per farsi un boccone del povero Franco. E tornando a bomba sul protagonista, non si può che provare compassione per un tapino che sembra l’Indiana Jones dei poveri, costretto a correre a piedi scalzi su un terreno costellato di cactus e ad affrontare il cattivo George Kennedy che gli da le spintarelle con il cofano dell’auto. Estetica trash a parte, il film diverte e intrattiene il giusto, impreziosito da una trainante colonna sonora che mescola trame poliziottesche a sonorità caraibico-elettroniche. All’estero è stato venduto come Alien Terminator, titolo decisamente opportunista ma che comunque mantiene le sue promesse (gli alieni ci sono, il Terminator anche, che volete di più?). 

giovedì 11 aprile 2024

SHARKULA (2022)


Regia Mark Polonia 

Cast Jeff Kirkendall, Kyle Rappaport, Jamie Morgan 

Parla di “squalo morso da vampiro diventa vampiro a cui il vampiro offre sacrifici umani e alla fine lo spettatore rimane lì a chiedersi cosa cazzo ha appena visto!” 

MASOCHISMO CINEMATOGRAFICO  

sostantivo maschile

Una (neanche poi troppo) rara forma di malattia mentale che ti impone di guardare schifezze che neanche un neonato girerebbe così male, nonostante tu sappia già cosa ti aspetta. 


Non sono un medico ma potrei diagnosticare questa malattia a chi si approccia alla visione di questo obbrobrio firmato dal prolifico Mark Polonia, autore di inenarrabili schifezze dal quale attendiamo con malcelata impazienza anche Cocaine Shark, nato sull’onda del successo di Cocaine Bear. Del resto non potevo dire che non ero stato avvisato, visto che analoghi titoli come Shark Exorcist o Sharkenstein ravvisavano la porcaggine più estrema. In una scena iniziale realizzata con un filtro che dovrebbe evocare l’effetto flashback ma che, di fatto, taglia a metà lo schermo con una specie di tendina sfumata, vediamo il conte Dracula inseguito da quattro sparuti paesani in mezzo ai campi. Giunto davanti a una scogliera, un villico lancia un coltello che colpisce il vampiro in un’esplosione di sangue digitale fumettosamente pop. Il conte cade in mare, uno squalo gli morde il braccio e lui gli azzanna una pinna. Inizio folgorante con una canzoncina in stile surf che ripete fuori tempo la parola Sharkula fino all’ossessione con una voce da tossico appena levatosi dalla bara. La scena si sposta in una cittadina di mare rinominata lovecraftianamente Arkham dove svolazzano sempre gli stessi due gabbiani (perché lo stesso girato viene mandato in loop più volte nel corso dello spettacolo al fine di aumentare il metraggio col minimo sbattimento possibile). Qui John e Arthur, due tizi che sembrano un mix tra cacciatori di frodo e spacciatori di metanfetamina, prendono alloggio da un rincoglionito di nome Renfield (giustamente!) che recita come uno zombie addormentato indossando un ridicolo cappello. 

Nella cantina c’è una tizia vampirizzata e, in una bara coperta di reti da pesca, dorme il conte Dracula che di notte organizza sacrifici umani a Sharkula “master of the red sea”, un cartoccio a forma di squalo butterato con ridicole ali da pipistrello, appiccicato davanti allo schermo su uno sfondo marittimo recuperato da qualche wallpaper animato: una roba devastante! Del mostro vedremo una pinna inserita malamente su inquadrature di mare mosso, due fanali di auto appiccicati sul fondo marino e un muso di squalo di gomma inquadrato davanti alla scena per farlo sembrare gigante, tutto questo senza che regista e membri della crew provino alcuna vergogna per quello che stanno facendo. Poi siccome è necessario raggiungere almeno un’oretta di girato perché si abbia un lungometraggio ai minimi sindacali, Polonia ci piazza ogni tanto una tizia vestita di pelle che piroetta candelabri circolari con tante belle fiammelle, recuperata da qualche associazione di artisti da strada a basso costo.

Nel mezzo ci sono anche due zombie con tanto di saio da monaco e mascheraccia di gomma da scheletro, che durante le sequenze di sacrifici umani, si guardano negli occhi quasi a chiedersi cosa cazzo ci stanno a fare lì. E visto che bisogna allungare il brodo, a metà film il regista ci ripropone pedissequamente il flashback iniziale, perché forse non avevamo ben capito le origini dello squalo vampiro. La recitazione è inesistente condita da interminabili dialoghi, gli attori si muoverebbero probabilmente meglio se qualcuno gli ingessasse mani e piedi, gli effetti fanno rimpiangere le schifezze catastrofiche che passavano fino a qualche mese fa sul canale TV Cielo (e in America su SyFy Channel) con una CGI talmente primordiale che se ritagliavano il cartoncino e lo muovevano sullo schermo con la mano in bella vista, forse avremmo almeno apprezzato l’artigianalità della cosa (neanche quella poi tanto, visto il ridicolo pipistrello di stracci che ogni tanto svolazza sullo schermo).  Tanto poi alla fine, ad attirare pubblico e distributori basta solo il poster e l’idea dello squalo vampiro, tutto il resto è solo un riempimento inutile ma doveroso. 


giovedì 4 aprile 2024

PARENTESI TONDE (2006)

Regia (???) Michele Lunella 

Cast (????????) Raffaella Lecciso, Rocco Pietrantonio, Francesca D’auria 

Parla di “non so! Credo che il mio cervello per salvaguardare la mia salute mentale abbia resettato tutto a fine visione” 

I Più anzianotti forse ricorderanno la (non) recitazione di Tinì Cansino et similia nel programma Drive-In, per tutti gli altri basti pensare ad una qualsiasi televendita mediaset degli ultimi 20 anni (non che quelle prima fossero migliori, eh! Ma una forbice di tempo va data comunque) e si avrà un esempio perfetto della performance recitativa del cast di Parentesi Tonde, anzi Parentesi T()nde come gigioneggia il titolo iniziale dell’esordio alla regia di Michele Lunella. Un film che ha superato in breve tempo tutti i livelli del brutto accettabile, roba che “Alex L’Ariete” sembra un film di Cristopher Nolan al confronto. Si perché qua, se non altro, vige l’assoluto suffragio poiché non vi è un solo attore cane, ma lo sono tutti quanti, in maniera democratica, e tutti riescono a recitare malissimo, anzi a non recitare. 

Se vi è capitato di sentire il termine “non musica” per decifrare un certo tipo di sperimentalismo sonoro, qui siamo di fronte ad un “non cinema” che, purtroppo, di sperimentale (anzi di sperimentato) ha solo un fiasco colossale alle sue spalle. Basti pensare che Lunella era direttore di produzione di “Cient’anne”, esordio al fulmicotone di Gigi D’Alessio al cinema, esordio che contribuì non poco ad espandere il neomelodico campano fuori dai confini regionali. La trama riprende le atmosfere cariche di odio (dello spettatore) tipiche dei cinepanettoni vacanzieri senza un minimo budget per assoldare un paio di comici sfigati da mettere sul cartellone. 

Ci si rivolge quindi ad una serie di figuranti rifiutati persino da L’isola dei famosi, come Giucas Casella (nei panni di un prete), Antonio Zequila, Eva Henger e, dulcis in fundo, la sorella gemella della Loredana Lecciso, Raffaella, come protagonista, dandole pure un ruolo quasi di spessore (come una fetta di salame ben tagliata). Una che cerca un amore non banale e finisce a letto con Mark (Rocco Pietrantonio) animatore fighetto e arrivista che colleziona mutandine nel cassetto. Poi, nelle sottotrame di questo villaggio “Ahiahiahi! No Alpitour?” in cui nessuno vorrebbe soggiornare, c’è pure la romanza sfigata del personal trainer con figlio annesso che tenta di ricucire il rapporto con la madre sotto gli occhi della moretta strainfatuata di lui (Francesca D’auria che almeno è figa!) ma che capisce e comprende e si tiene in disparte (tanto la madre del bimbo è una zoccolona con il volto della Henger). 

Poi c’è il nanetto animatore che fa il pagliaccio e lancia freddure da denuncia, i tres amigos che cantano in napoletano (ma soprattutto in playback), il cuoco finto francese che in realtà dovrebbe (usiamolo questo condizionale!) essere un sosia di Bud Spencer, una misteriosa talent scout che deve scoprire non si sa chi in questo posto di sfigati, un concorso di stelle nascenti messo in piedi tra concorrenti che non sanno fare un cazzo, fotografia televisiva, montaggio con lo scotch e regia inesistente. Anche le location sono tremende, persino il mare sembra fare più schifo di quanto lo sia veramente (mi sembra che il film sia girato in Puglia o giù di lì). 

Insomma, se l’albertone nazionale (parliamo di Alberto Tomba non Alberto Sordi) al suo esordio cinematografico faceva rotolare dalle risate pur senza volerlo, qua invece ci si incazza a morte, specie se si è pagato qualcosa per vedere ‘sta ciofeca immonda che stana il peggio della televisione trash per portarlo sul grande schermo e ampliare dunque l’enfasi della monnezza a dimensioni maggiorate. Ad un certo punto spunta anche Marco Columbro, in una fugace inquadratura probabilmente rubata mentre magari si faceva i cazzi suoi. 

mercoledì 27 marzo 2024

MONSTER A GO-GO!

(1965) 

Regia Bill Rebane, Hershell Gordon Lewis  

Cast Henry Hite, Peter M. Thompson, Rork Stevens 

Parla di “cosa fare di un pessimo film non finito per mancanza di soldi e come completarlo non disponendo più degli stessi attori” 

Cercate un film di mostri? Non fatevi ingannare dal titolo, questo film di mostri non ha assolutamente traccia, una pellicola così povera e malfatta che, nel finale, si sceglie addirittura di far scomparire il mostro stesso lasciando un finto alone di mistero che altri non è la chiusura frettolosa di un’opera fatta con quattro soldi. Realizzato da Bill Rebane, regista che il suo mestiere non lo sapeva assolutamente fare ma proprio per questo è stato in grado di regalarci tanti piccoli cult del cinema trash (basti pensare al bruttissimo Invasion of the Giant Spiders). Leggenda vuole che Rebane, nel bel mezzo della realizzazione, si accorse di aver finito il budget lasciando la pellicola a metà. Acquistato e completato successivamente da Hershell Gordon Lewis (sua è la voce narrante che cerca di coprire disperatamente i buchi della sceneggiatura) , il film risentì parecchio di questa situazione. 

Lewis tentò di ricucire il cast e quei pochi che riuscì a scritturare avevano persino cambiato aspetto con il risultato che il regista utilizzò attori diversi per la stessa interpretazione in un delirio raffazzonato, oggi considerato uno dei peggiori film mai realizzati.  La storia parte dal ritrovamento di una capsula spaziale (ma, dalle dimensioni del modellino, ci si chiede come faccia a starci dentro un essere umano) ma non del suo astronauta, tale Frank Douglas interpretato da Henry Hite, un omone alto e magrissimo che ciondola per le poche sequenze ove è possibile vederlo, come una specie di scheletro umano tutto butterato. Trasformato in un un mostro dalle radiazioni, l’astronauta allampanato inizia ad ammazzare gente, mentre la solita equipe di scienziati ci ammorba con un’infinità di dialoghi inutili. Da quello che si legge, quindi, siamo pure di fronte ad un mezzo plagio de “L’astronave atomica del dottor Quatermass” ma più lento, direi praticamente statico, con inquadrature che ostentano persone sedute al bar a parlare con una flemma che raramente troverete in altri film. 

Difficile restare svegli e se ci riuscite è solo per incazzarvi a morte, perché il finale, come già accennato, è un’autentica “sola”. L’astronauta, infatti, viene inseguito da polizia, scienziati in tuta antiradiazioni (che per indossarla ci mettono un’eternità) e pompieri. La caccia si sposta nelle fogne ma ad un certo punto il mostro non c’è più, tutti risalgono in superficie dove arriva un misterioso dispaccio in cui si informa che l’astronauta Frank Douglas è vivo e vegeto e la voce narrante recita: 

“Come se un interruttore fosse stato girato, come se un occhio avesse battuto le palpebre, come se una forza fantasma nell'universo avesse fatto un movimento eoni oltre la nostra comprensione, all'improvviso non c'era traccia! Non c'era nessun gigante, nessun mostro, nessuna cosa chiamata "Douglas" da seguire. Nel tunnel non c'erano altro che uomini coraggiosi e perplessi, che all'improvviso si ritrovarono soli con le ombre e l'oscurità! Con il telegramma una nuvola si alza e un'altra scende. L'astronauta Frank Douglas, salvato, vivo, vegeto e di dimensioni normali, a circa 8.000 miglia di distanza su una scialuppa di salvataggio, senza alcun ricordo di dove sia stato o di come sia stato separato dalla sua capsula! Allora chi o cosa è atterrato qui? “ 

Che in linguaggio da produttore quale era il buon H.G.Lewis si traduce in “Il film è finito, i soldi pure, io ho il mio bel prodotto da abbinare ai Drive in e tu, caro spettatore, te lo prendi, ancora una volta, nel c….” 



Che poi voglio proprio vedere se qualcuno restava sveglio fino alla fine. 

venerdì 22 marzo 2024

KISS ME QUICK!

(1964) 

Regia Peter Perry jr 

Cast Max Gardens, Frank A. Coe, Althea Currier 

Parla di “Alieno Sterilox da pianeta di castrati cerca donne terrestri per salvare la sua razza e incontra scienziato pazzo con mostri e donnine al seguito” 

Se state seguendo il nostro blog da un po’ di anni (per l’esattezza è dal 2007 che esistiamo, tanto per ribadirlo) avrete sicuramente chiaro il concetto di “sexploitation”, se diversamente non avete ancora capito di quale tipo di pellicola stiamo parlando, potete vedervi tranquillamente questo filmaccio diretto da Peter Perry jr. che ci aveva deliziato con il suo esordio nude cute contaminato dal western “Revenge of the virgins”. Ma se il precedente titolo rivendicava a suo modo l’emancipazione femminile, in questo caso la questione esploitativa è senza dubbio a uso e consumo del pubblico maschile. 

Le contaminazioni horror e fantascientifiche di questa bruttezza cinematografica sono minimali, quello che conta, in definitiva, sono gli spogliarelli di bellocce formose agghindate con carichi pesanti di biancheria intima, quasi fosse un rito pagano, tolti alle bellone sempre nello stesso identico ordine: prima le calze, poi corpetto e reggiseno e infine mutandoni neri come la pece, anche se il pube non viene mai inquadrato se non attraverso qualche ripresa “birichina”. In principio doveva intitolarsi Dr. Breedlove or How I Learned to Stop Worrying and Love, in omaggio al Dottor Stranamore di Kubrick di cui il protagonista Max Gardens plagia praticamente alcune movenze (soprattutto quando litiga con la mano finta), poi inspiegabilmente la produzione ha preferito riferirsi al film di Billy Wilder “Kiss me stupid”, probabilmente uscito subito dopo (tutti e tre i film sono del 1964). 

La trama vede come protagonista l’alieno Sterilax della Galassia Buttless che viene inviato sulla Terra per trovare la donna perfetta e piomba nel laboratorio del dottor BreedLove che sembra produrre bellezze mozzafiato a ritmo industriale grazie ad una avveniristica sex machine in grado di convertire le donne in schiave sessuali. Nel bailamme spunta anche il mostro di Frankenstein ridotto ad un mezzo deficiente che si ciuccia il dito come un poppante. L’alieno, interpretato da Frank A. Coe  recita scimmiottando Stan Laurel nel tentativo di far ridere indossando un ridicolo cappello di latta con piumino rosa e un pesante trucco da Clown sulla faccia. Il mad scientist, invece, ha la faccia sbiancata di cerone con una serie di cicatrici finte disegnate con il pennarello, indossa occhiali da sole rotondi, rossetto sulle labbra (ma perché??), un collare ortopedico da post trauma e parla con un inglese maccheronico tipico dell’indiano trapiantato nell’impero britannico. La coppia passa tutto il tempo a guardare spogliarelli attraverso un oblo di plastica che sembra il coperchio di una lavatrice, i viaggi spaziali vengono esemplificati attraverso due scariche elettriche in primo piano su sfondo nero. 

Per il resto, tutto il film è realizzato in un'unica stanza, con una sola scenografia e un’oretta di tempo abbastanza sufficiente per rompere i coglioni anche allo spettatore più tollerante (ma se siete sopravvissuti a “Orgy of the dead” potete farcela). Simpatica (ed economica) l’idea di non usare titoli di testa ma farli elencare da un’attrice, anche la vena anarchica che permea il film non è da disprezzare, ma dopo il quinto o sesto spogliarello non se ne può veramente più. Ah! Per non farsi mancare nulla c’è anche una breve apparizione del conte Dracula sdentato che non riesce a mordere le donnine, penoso! 

mercoledì 13 marzo 2024

THE FLYING SAUCER

(1950) 

Regia Mikel Conrad 

Cast Mikel Conrad, Pat Garrison, Hantz von Teuffen 

Parla di “UFO avvistato nei cieli entra in piena guerra fredda e viene conteso da russi e americani” 

In questo film gli americani vedono un disco volante sfrecciare nel cielo accompagnato da un rombo assordante, spuntano i classici titoloni sui giornali, c’è perfino una vecchia che guarda lo schermo ed esplode in un urlo di terrore surreale. Tutto questo casino insomma e di cosa si preoccupano le alte sfere yankee? Di prepararsi al contatto con gli extraterrestri? Noooo! Di raccogliere evidenze scientifiche per migliorare la razza umana? Macchè! La preoccupazione più grande è che l’astronave venga carpita dai russi e usata per scagliare le bombe atomiche in ogni parte degli Stati Uniti. Un tipo di ansia che esprime perfettamente lo stato mentale e paranoide degli americani nell’immediato dopoguerra, forti della scoperta di un ordigno nucleare perfetto per lo sterminio di massa (si veda a proposito il recente Oppenheimer di Cristopher Nolan) e di una vittoria ottenuta con la cancellazione di due città giapponesi. 

C’è da dire che nel film di Mikel Conrad, gli alieni non vengono proprio menzionati poiché si sa, sin da subito, che l’astroveicolo è di manifattura umana. Pur essendo un’opera che apre sul grande schermo, ad un filone decisamente fantascientifico, questo The Flying Saucer sceglie strade più affini allo spionaggio e all’avventura anche se, le fattezze della macchina volante verranno prese a modello per realizzare un film di ben altro calibro nel cinema Sci-Fi quale è “La Terra contro i dischi volanti”. Del resto siamo comunque di fronte a un’operetta da quattro soldi, realizzata male e recitata anche peggio, con una sceneggiatura che grida vendetta ed effetti speciali in sovrimpressione che fanno ridere, dove il regista stesso si erge a protagonista (nonché autore e produttore) senza averne manco il phisique du role se non per fumare ininterrottamente e ubriacarsi in modo osceno. Il nostro eroe (che si chiama Mike) viene inviato in Alaska per indagare sui misteriosi avvistamenti di UFO e siccome deve fingere di essere un malato di nervi in cerca di riposo, lo accompagna pure una finta infermiera di nome Vee (Pat Garrison) che ovviamente si innamora di lui. 

Tra ridicoli scazzottamenti contro gli odiati russi e lunghissime carrellate aeree sui panorami di ghiacciai e distese deserte, il film riesce ad annoiare in appena un’ora e quindici con buchi di script che sembrano studiati per allungare il brodo (si veda l’inutile apparizione di un orso o le inutili camminate di Vee alla ricerca di Mike, misteriosamente scomparso anche se in realtà è steso ubriaco su una lastra di ghiaccio), da manuale la scena nella grotta dove Mike cattura uno dei russi e lo usa come scudo mentre il compare gli punta un mitra contro, c’è un momento di silenzio in cui si fronteggiano e poi il russo ostaggio si mette a urlare prima di essere mitragliato. Imbarazzante operazione di propaganda postbellica, cinema da guerra fredda, ridicolo e malfatto, The Flying Saucer ha anche dei difetti!  

giovedì 7 marzo 2024

O ESTRANHO MUNDO DE ZÉ DO CAIXÃO

(1968) 

Regia Jose Mojica Marins 

Cast Jose Mojica Marins, Luiz Sérgio Person, Oswaldo De Souza 

Parla di “horror estremo antologico dove è possibile godere appieno della macabra filosofia di Jose Mojica Marins” 

Presentato da un Jose Mojica Marins in primissimo piano, a colori, e visibilmente invecchiato (sequenza probabilmente inserita anni dopo rispetto alla realizzazione del film), questo horror antologico realizzato successivamente al secondo capitolo della trilogia di Coffin Joe (Esta Noite Encarnarei no Teu Cadáver) si compone di tre episodi dove il nostro amato autore pazzo brasiliano ci sforna altre prove della sua macabra filosofia, un horror che, nella sua estrema povertà non è scevro di momenti di alto cinema accompagnati da un gusto estremo per il sadismo, lo splatter e la necrofilia. Il primo episodio “il fabbricante di bambole” è abbastanza dozzinale, narra la storia di un vecchio artigiano famoso per il realismo delle sue creazioni e in particolare degli occhi che applica alle bambole, particolarmente realistici. 

Lo aiutano nel suo lavoro le sue quattro bellissime figlie. Una notte vengono assaliti da un gruppo di sconsiderati, attratti dal suo patrimonio. Quando i quattro delinquenti scoprono la presenza delle ragazze si abbandonano ad un festino di violenza carnale in cui Mojica Marins ostenta erotici primi piani di corpi femminili in penombra. Le attrici, tuttavia, non sembrano reagire allo stupro con particolare emozione, sembrano infatti oscillare tra l’apatia e un abbozzo di eccitazione sessuale. Scopriremo comunque che il vecchio fabbricante di bambole ha in serbo una brutta sorpresa per i quattro balordi. Il secondo episodio “Taras” racconta di un venditore di palloncini che stalkerizza una bellissima donna e, quando questa muore, si reca furtivo nella tomba per sfogare la sua passione necrofila. Realizzato praticamente senza dialoghi, questo cortometraggio è la cosa migliore mai realizzata dal regista brasiliano, uno splendido sunto autoriale della sua filosofia malata. 

Il terzo e ultimo episodio (Ideologia) riporta in auge il personaggio di Zé Do Caixão che si presenta nelle vesti dello scienziato Oãxiac Odéz ad un dibattito in cui afferma che l’istinto prevale sulla ragione e cerca di provarlo a danno del professore rivale e sua moglie, imprigionandoli a casa sua per sette giorni, legati e torturati senza cibo e acqua. Il film si chiude in un guazzabuglio di immagini in cui Jose Mojica Marins ci propina un bestiario di rospi, lucertole, serpenti e ragnoni che si mescolano insieme ad un’orgia cannibalistica dove il protagonista, ritrovatosi nelle iconiche vesti di Zé Do Caixão si abbandona felice a pasteggiare con dita e piedi delle sue vittime mentre schizofrenici fulmini disegnati sulla pellicola ci accompagnano alla parola Fine, o meglio alla parola FIM! 


giovedì 29 febbraio 2024

DEMONIA

(1990) 

Regia Lucio Fulci 

Cast Brett Halsey, Al Cliver, Meg Register 

Parla di “archeologi canadesi in Sicilia invischiati in una maledizione satanica generata dal rogo di quattro suore peccaminose” 

Gli anni novanta non sono certamente un bel periodo per il cinema di genere italiano, le produzioni sono sempre più raffazzonate, le distribuzioni sempre più limitate e la qualità latitante. Men che meno per il grande Lucio Fulci che, proprio in quegli anni deve confrontarsi con situazioni produttive imbarazzanti oltre che una serie di problemi di salute che declineranno inevitabilmente nella morte avvenuta nel 1996. Tra queste produzioni, che si contano sulle dita di una mano, compare purtroppo anche Demonia, terz’ultima opera del maestro, segnata da una serie disastrosa di problematiche tra cui il produttore Emilio Spagnolo che scompare durante le riprese senza lasciare traccia né liquidità oltre ad una serie di errori di fotografia che portarono Fulci a non voler firmare l’opera completata che venne in seguito distribuita esclusivamente in home video. 

Girato dalle parti di Siracusa, il film vede un gruppo di archeologi canadesi capitanati da Paul (Brett Halsey) e Liza (Meg Register) giunti nella cittadina di Santa Rosalia per scavare le vestigia dell’antica Grecia, si ritrovano invece immersi in maledizioni e superstizioni generate dalla leggenda di quattro suore votate al diavolo e bruciate vive nella Chiesa abbandonata in collina. Durante una perlustrazione Liza scopre dietro ad una parete i resti delle monache e da quel momento assistiamo ad una serie di omicidi, più o meno brutali e più o meno ridicoli. 

Lo skipper Porter (Al Cliver) viene fiocinato e la sua testa si ritrova attaccata all’ancora della barca, la medium Carla Cassola, dopo aver raccontato tutta la storia a Liza, viene assalita dai suoi gatti e deorbitata crudelmente (forse la scena più gore del film) mentre il povero macellaio Turi (Lino Salemme che era il punk cocainomane di Demoni 2) viene preso a colpi di carcasse di vitelli congelati nella cella frigorifera e successivamente l’effettista gli piazza un’enorme lingua di vacca in bocca per fargliela poi impalare con un chiodazzo sul tavolo. Gli ultimi 20 minuti poi sono un delirio totale culminante nello squartamento di uno dei membri dell’equipe davanti al figlio in un turbinio di sangue e budella che rimette in pace lo spettatore con il Fulci nazionale, il cui sadismo cinematografico è ormai ben noto a tutti i suoi estimatori (del resto nel film viene persino bruciato un neonato). Le sfocature errate realizzate da Luigi Ciccarese contribuiscono a dare un’atmosfera onirica all’opera che risulta comunque gradevole nel suo essere modesta ma dignitosa. Unico vero neo di Demonia, a parere di chi scrive, è la scialba musichetta realizzata da Giovanni Cristiani, totalmente disconnessa dalle immagini che pretende di accompagnare. 

giovedì 22 febbraio 2024

CLASS OF NUKE 'EM HIGH 2: SUBHUMANOID MELTDOWN

(1991) 

Regia Eric Louzil e Donald G. Jackson 

Cast Lysa Gaye, Leesa Rowland, Brick Bronsky 

Parla di “Risorta città di Tromaville si trova invischiata in un progetto di creazione di una nuova razza di subumanoidi che si sciolgono all’improvviso” 

 “Squadra che vince non si cambia”  

Sembra invece che i detti popolari non interessino molto a Lloyd Kaufman e Michael Herz, padroni e produttori della celeberrima Troma Entertainment, perché nonostante il successo e l’aura di Cult Movie assoluto ottenuta negli anni da Class of Nuke’em High, decidono, cinque anni dopo, di cambiare tutto per realizzare il seguito. Via quindi il cast al completo mettendo come protagonista il biondo e gonfiatissimo wrestler Brick Bronsky nella parte del reporter sfigato Roger Smith, via il regista Richard W. Haines e al suo posto Eric Louzil  (coadiuvato da Donald G. Jackson) che realizzerà anche il terzo capitolo Class of Nuke 'Em High 3: The Good, the Bad and the Subhumanoid. 

Persino i luoghi di ripresa furono cambiati, passando dalla suburbia newyorchese al caldo dell’Arizona (Yuma), spostamento questo che si palesa come la probabile causa del cambio radicale della Crew. Ovviamente tutti questi cambiamenti hanno prodotto delle conseguenze, purtroppo negative, con il risultato di un prodotto ai limiti dell’amatoriale, sottotono e decisamente meno spassoso del precedente. Dopo la distruzione di Tromaville, la società Nukamama ricostruisce da capo la città,  gestendone in toto l’amministrazione. Vediamo quindi uomini in tuta antiradiazioni gironzolare tra i liquami  per raccogliere scarti fuoriusciti dalla centrale nucleare e spruzzare i giovani liceali, impegnati costantemente a picchiarsi, trombare e ubriacarsi, in special modo la squadra degli scoiattoli capitanata da un ributtante ciccione vestito di borchie e pantaloncini in pelle. 

Sempre a caccia di uno scoop, il povero Roger decide di partecipare ad un esperimento sessuale organizzato dalla scienziata Melvina Holt (Lysa Gaye) dotata di una ridicola pettinatura che sembra un’enorme banana. Roger fa quindi sesso con Victoria (Leesa Rowland), un subumanoide creato in laboratorio e dotato di una seconda bocca sulla pancia. Scopo della scienziata è realizzare una serie di schiavi in laboratorio in grado di fare i lavori più umili e subire senza sofferenza alcuna le angherie dei giovani teppistelli locali. Roger però si innamora perdutamente di Victoria e viene a scoprire il terribile progetto organizzato dal sindaco di Tromaville, dotato di una vocetta stridula e irritante, ovvero che i subumanoidi, dopo un certo lasso di tempo, si sciolgono e diventano delle assurde pallette pelose dotate di occhi e zanne. Oltre alle solite scorribande di teddy boys, tanto garage punk immerso in stanzette affrescate da coloratissimi graffiti, in questo secondo capitolo si rincara la dose di culi e tette che dominano costantemente la scena, manca lo splatter estremo tipico della Troma, ridotto a qualche scarso effetto di body – melt, mentre si segnala nel finale l’attacco di uno spassosissimo quanto orrendo Scoiattolo Godzilla che sembra uscito da un incubo espressionista di Jim Henson.  

venerdì 16 febbraio 2024

BATWOMAN – L’INVINCIBILE SUPERDONNA

(La mujer murciélago, 1969) 

Regia Renè Cardona 

Cast Maura Monti, Roberto Cañedo, Armando Silvestre 

Parla di “supereroina rubata alla DC comics e trasformata in lottatrice deve affrontare mostro subacqueo rubato a Jack Arnold” 

Questa pellicola del prolifico Renè Cardona è una bizzarra creatura cinematografica divenuta, negli anni ottanta, un punto di riferimento della programmazione televisiva sulle reti private, negli orari pomeridiani.  Nello specifico la componente weirdo principale è l’assurda mescolanza di generi, dove si ruba letteralmente alla DC comics un personaggio creato nel 1956 da Bob Kane e da Sheldon Moldoff e lo si trasforma in una luchadora, ovvero una delle pittoresche lottatrici mascherate che tanto successo riscontravano nel cinema latino (in particolare quello messicano dove è stato prodotto il film) nel tentativo di creare una nuova icona al femminile in grado di bissare il successo del grande El Santo. 

A questa già strana combinazione si rincara la dose mettendo in scena un plot fantascientifico dove si richiama nientemeno che Il Mostro della Laguna Nera in versione economica, ovvero con un costume da uomo pesce visibilmente plasticoso dove la maschera sembra un incrocio tra un camaleonte e una mosca, mentre il colore rossastro della tuta fa sembrare il gill-man ispanico un enorme gamberone umanoide. La trama vede una serie di lottatori ripescati in mare e privati chirurgicamente della ghiandola pineale. Ad indagare viene chiamata la supereroina Batwoman (interpretata dall’attrice milanese Maura Monti), che come il suo compare Bruce Wayne, è una ricca annoiata che eccelle in tutti gli sport (sebbene noi la vediamo esibirsi esclusivamente nel tiro a segno e a cavallo). 

A tempo perso la donna si maschera da pipistrello e da consigli alle altre luchadores ma, di fatto, nel film non partecipa a nessun incontro. Fa decisamente sorridere la tuta grigia con cui si presenta agli allenamenti, anche perché sembra renderla goffa e appesantita. Meno male che, per il resto del film la vedremo in bikini, immersa nelle profondità del mare, attaccata ad un siluro in miniatura. In ogni caso si scoprirà la presenza dell’ennesimo professore pazzo (coadiuvato dall’aiutante che, guarda caso, si chiama Igor) che cerca di creare un uomo pesce (ma il motivo di siffatto esperimento non ci verrà rivelato) chiamato Itticus (un nome, una pescheria!). 

Dopo una colluttazione con la nostra eroina, il mad doctor ne uscirà sfregiato con l’acido e griderà vendetta con il proposito di trasformare Batwoman in una donna pesce, ma i piani diabolici verranno sventati proprio dal buon Itticus che ad un certo punto, grazie ad uno stratagemma della protagonista, impazzisce e massacra tutti i cattivoni. Pur nella sua assurdità, il film è abbastanza scorrevole, forte di un’esigua durata e di molte scene di azione, anche se alcune decisamente ridicole. Certo non poteva mancare nel finale, la rivalsa maschile. Dopo tanta esibizione di eroismo al femminile, in cui l’uomo viene relegato a personaggio negativo (i cattivi ad esempio) o comunque inetto e inefficiente (vedi il compagno di Batwoman che le prende continuamente dal pesciolone) basta un topolino a terrorizzare Batwoman e a riportarla nell’universo del sesso debole, tra risate a profusione dei partner uomini che possono finalmente riconsiderare la loro superiore mascolinità. 

giovedì 8 febbraio 2024

ZAAT

(1971) 

Regia Don Barton e Arnold Stevens 

Cast Sanna Ringhaver, Marshall Grauer, Paul Galloway 

Parla di “scienziato pazzo diventa un pesce su due gambe e si aggira nelle paludi in cerca di vendetta” 

Partendo dal presupposto che realizzare un monster movie negli anni ’70 era già, di base, un suicidio produttivo (Vedi anche il ridicolo “Octaman”), il film (L’unico mai realizzato, per fortuna) di Don Barton e Arnold Stevens (non accreditato nei titoli) presentava l’aggravante di essere fatto pure con i piedi, con un costume di plastica, gomma, piume di struzzo (???) e un mascherone di cartapesta simile a quelli dei film messicani tipo “La Nave dei Mostri” dove, oltre alle ridicole fattezze, non ci si curava di nascondere le lenti di plastica al posto degli occhi. Dopo un incipit dove si passa il tempo a inquadrare pesci gatto e polpi vari, vediamo uno scazzatissimo personaggio, che dovrebbe essere uno scienziato matto ma sembra un perfetto imbecille, iniettarsi uno strano liquido fosforescente con un siringone gigante e successivamente farsi il bagno dentro una vasca circolare. 

L’obiettivo è la mutazione da uomo a pesce (ma perché?) e infatti il nostro eroe riemerge dalle acque trasformato in una brutta copia del Gill Man da “Il mostro della Laguna nera”, a metà tra un orsetto di peluche muffoso e un grottesco alieno da B-Movie degli anni cinquanta. Insomma, già dalle premesse, Zaat risulta un film invecchiato male, a questo poi aggiungiamo una trama ridicola dove si assiste alla vendetta del mostro nei confronti di un paio di scienziati, la cui foto è attaccata a colpi di chiodo su un tabellone circolare pieno di strani diagrammi stranamente simile a quello de “Il pranzo è servito”. Dopo aver aggredito le sue vittime intente a pescare, uccidendole in modo ridicolo (uno viene praticamente sfiorato dal mostro e cade morto in maniera assurda) l’uomo-triglia decide che è ora di farsi una compagna. 

Il nostro rapisce, dunque, una bionda campeggiatrice, le inocula il liquido e la immerge nella vasca, ma qualcosa non funziona e la donna muore. Il povero pesciolone non può fare altro che sciogliere il corpo nell’acido. Ma le strane morti non lasciano indifferenti le autorità che assumono la INPIT (Inter Nations Phenomena Investigation Team) ovvero una coppietta vestita con tute arancioni che si getta nelle paludi a caccia del mostro. In una collutazione la creatura rimane ferita e la vediamo dare di matto all’interno di una farmacia alla ricerca di un beverone che, alla fine, gli fa più male che bene. La scena più assurda rimane comunque quella dove lo sceriffo sente un urlo per le strade (il mostro massacra una coppietta), si infila in una scuola dove un gruppo di Hippie si dedica alla musica. Vediamo quindi una parata surreale di figli dei fiori con strumenti al seguito che viene condotta direttamente in prigione. 

Sorretto da una fotografia insolitamente buona, rumori subacquei nelle lunghe scene di caccia nella palude e un montaggio allucinogeno dove ogni tanto spunta qualche immagine che non c’entra nulla (riciclaggio di qualche rullo avanzato) il film si conclude in maniera quasi poetica con il mostro ferito che si immerge nel mare mentre cerca di portarsi dietro due galleggianti rossi il cui uso rimane un mistero. Dietro di Lui anche la protagonista femminile (Sanna Ringhaver) ovvero la bionda Martha degli INPIT che, dopo essere stata rapita per diventare la nuova moglie del mostro (vediamo infatti il pesciolone intento a disegnarla su carta come prossima vittima), decide assurdamente di seguirlo nelle acque marine. Assurdo, malfatto, demenziale quanto volete, ma Zaat rimane comunque un’esperienza unica per chi ama il cinema weird e come tale non posso che consigliarne la visione. 

giovedì 1 febbraio 2024

AMOK TRAIN – IL TRENO

(1989) 

Regia Jeff Kwitny 

Cast Mary Kohnert, Bo Svenson, Alex Vitale 

Parla di “ promessa sposa di Satana fugge su treno ma il diavolo s’impossessa dei convogli e la riporta indietro” 

Se si volesse racchiudere in una definizione tutto il cinema del produttore e regista Ovidio G. Assonitis (Chi sei?, Stridulum, Tentacoli, ecc. ecc.) il termine da coniare potrebbe essere “TrashBuster”, ovvero l’accorpamento (alquanto improbabile, già!  Eppure lui c’è riuscito!)  del cinema spazzatura con la produzione mainstream. Della serie “abbiamo i soldi, perché non farci un brutto film?”. Ecco quindi che al confine con gli anni novanta, il nostro Ovidio mette in piedi una bella produzione Italo-Jugoslavo-americana, cioè in piena guerra fredda un paese della cortina di ferro si aggrega con il grande satana americano per realizzare un film!!! Un film, peraltro, che parla di riti satanici, stregonerie, anticipando l’horror folk che tanto va di moda oggigiorno, con una trama bislacca, dal finale assurdo che mi vergogno quasi a raccontarlo. 

La protagonista è Beverly (Mary Kohnert) una studentessa americana di origini serbe che, insieme ad altri studenti, si reca in Jugoslavia per un viaggio culturale. Che la ragazza sia di quelle parti lo capiamo perché la madre, prima della partenza, cerca di parlarle in serbo ma la figlia si incazza. Poi la madre, dopo averla accompagnata, si becca un travone di metallo caduto da un TIR sulla faccia e muore. Ignara del recentissimo lutto Beverly giunge a destinazione e con gli altri, incontra il professor Andromolek (Bo Svenson) con tanto di pizzo luciferino, mantello e bastone in argento, quasi provenga dal set di Angel Heart – Ascensore per l’inferno in qualità di sostituto del buon Robert De Niro. Il gruppo arriva in un paesino sperduto dove le case sembrano costruite sugli alberi e i villici continuano a battere su dei sassetti rompendo i coglioni in continuazione. C’è pure una vecchia cieca che sembra uscita dal film La Casa (Evil Dead) che fa una zuppa, a quanto pare, buonissima. 

Nella notte, le capanne prendono fuoco, tutti gli studenti riescono a uscire in tempo tranne uno che rimane impietrito nel letto e, di conseguenza, muore carbonizzato. Spaventati dalla generale atmosfera, i ragazzi fuggono nei boschi, vedono un treno che arriva e ci si fiondano sopra, tranne due ragazzi che rimangono a terra, uno con la gamba fratturata. All’interno i ragazzi trovano un controllore comprensivo che non gli fa la multa, i due macchinisti però muoiono, uno inghiottito dalla fornace, l’altro maciullato. Per farla breve, Beverly doveva essere offerta a Satana durante un rito centenario, fugge sul treno, il diavolo si impossessa del treno e comincia a uscire dai binari per riportare la vergine al cospetto del diabolico sposo. Il resto del film vede il treno infilarsi un po' ovunque, arriva persino dentro la palude per far fuori i due ragazzi rimasti a terra. A nulla servono i tentativi del quartier generale ferroviario (che parlano solo in slavo e quindi non si capisce nulla) per fermare l’avanzata dei convogli maledetti. Tentano pure con dei camion carichi di cemento posizionati sulla ferrovia ma niente! Il treno avanza, fa un frontale con un’altra locomotiva ma ne esce indenne. 

Nel frattempo, al suo interno i ragazzi vengono decimati in maniera decisamente pittoresca. Una delle studentesse (la più stronza) dopo aver limonato con il fidanzato, comincia a sputare vermi e gli si scarnifica tutta la faccia, il suo ragazzo viene tranciato in due da una catena, un altro viene impalato dalla sbarra di un casello ferroviario. Alla fine rimane solo Beverly che incontra un giovane vestito da frate seduto a terra a suonare il flauto, i due copulano facendo perdere a Beverly la verginità e rovinando in modo drammatico il rito satanico a cui era destinata. Alla fine scopriamo che il flautista era una specie di santo vissuto nel medioevo e dedito alla lotta contro il male, con tutti i mezzi quindi, anche rinunciando al voto di castità (‘mazza che sacrificio!! Un Martire proprio!). Ecco, quest’ultima situazione, oltre a certe scene imbarazzanti, al limite dell’incredulità oltre ad una recitazione non propriamente celeberrima, rendono quest’opera assimilabile al cinema bizzarro, nonostante il film sia comunque fatto bene, con una produzione dignitosa e una buona fotografia che, soprattutto nelle sequenze del villaggio slavo, riesce anche a lanciare sensazioni inquietanti. 

Ma il finale, sconclusionato e imbarazzante, riesce a trasportare quello che poteva essere un discreto b-movie, nell’olimpo del cinema trash, complici anche il ridicolo effetto della scarnificazione del professor Andromolek nel finale (che poteva andare bene negli anni quaranta, forse…) e il ridicolo incubo conclusivo, inutile riempitivo per un’opera già di per sé troppo lunga. In America è conosciuto come Beyond the Door III, maldestro tentativo dei distributori, di accorparlo con i film “Chi Sei?” (Beyond the Door) diretto dallo stesso Assonitis (qui invece gira un regista americano anonimo, scovato nelle patatine) e “Shock” (Beyond the Door II) di Mario Bava, in un’improbabile trilogia satanica. 

giovedì 25 gennaio 2024

SPLATTER UNIVERSITY

(1984) 

Regia Richard W. Haines 

Cast Forbes Riley, Dick Biel, Ric Randig 

Parla di “solito psicopatico che si aggira nel campus per accoltellare giovani insegnanti e addormentare giovani (e vecchi) spettatori” 

In un ospedale psichiatrico dove le infermiere se la fumano allegramente in pose sornione e i pazienti passano il tempo accarezzando teste di manichini e mucche in miniatura (così è il minimalismo del grindhouse, una rappresentazione simbolica del luogo!) un pazzo assassino fugge dopo aver ammazzato un portantino accoltellandolo sul pene. Tre anni dopo, al Saint Trinians College, un’insegnante viene brutalmente assassinata. A sostituirla è chiamata la giovane Julie Parker (Forbes Riley) al suo primo incarico come docente. La ragazza, alla prima lezione, deve scontrarsi con la disattenzione degli studenti ma anche con il controllo ecclesiastico che comanda l’Istituto reprimendo l’ingresso di idee poco cristiane come ad esempio, l’aborto. Tra una ramanzina del prete preside e le bizzarrie di un gruppo di studenti più interessati al sesso, alla birra e alla droga, che allo studio, la povera Julie si trova coinvolta in una serie di omicidi misteriosi. 

L’esordio alla macchina da presa del regista Richard W. Haines trasuda indipendenza da tutti i pori e, in effetti, è stato girato con quattro soldi. Grazie all’apporto di Lloyd Kaufman e soci della Troma, il film venne allungato (al principio durava un’oretta scarsa) e distribuito, diventando negli anni un piccolo cult di mezzanotte. Ma l’horror studentesco porterà, sin da subito fortuna al giovane Haines, visto che due anni dopo, girerà Class of Nuke 'Em High, senza dubbio il suo film migliore e quello più famoso, ancora accentrato nei campus studenteschi. Su Splatter University invece non c’è molto da dire, perché già dal titolo il film si rivela inferiore alle aspettative, tolte infatti due o tre scene di cadaveri sanguinanti, rinvenuti nello sgabuzzino, il gore latita disperatamente. 

Il tono generale è quello caciarone tipico dei college movies anni ottanta, intervallato da una debole commistione con lo slasher che si risolve in maniera piuttosto idiota e banale. Lo psicopatico uccide, i ragazzini fanno casino, l’eroina di turno indaga e sospetta di uno che poi alla fine non è quello ma un altro e via discorrendo. Anche il ritmo non è dei migliori, concedendo alla noia troppi tempi morti necessari ad allungare il brodo di un film dove anche la recitazione generale non brilla di intensità. Il problema principale è che manca quella voglia di strafare, esagerata, tipica di un certo cinema a cui la Troma ci ha abituati. Siamo di fronte ad un thrillerino fatto in casa con due soldi, una scrittura debole, priva di colpi di scena (se non per il twist finale che comunque non sorprende più di tanto) e soprattutto scevra da quelle efferatezze che un titolo altisonante come questo avrebbe dovuto mostrare.