domenica 9 gennaio 2022

GORATH

(Yosei Gorasu, 1962)

Regia: Ishirō Honda

Cast: Ryo Ikebe, Ken Uehara, Takashi Shimura

Genere: Catastrofico, Fantascienza, Kaiju Eiga

Parla di “planetoide assorbitutto minaccia la Terra ma gli umani mettono un turbo al Polo Sud per spostarne la traiettoria”

Nessuno meglio dei giapponesi riesce a descrivere cinematograficamente il genere catastrofico e Ishiro Honda è il regista più appropriato per farlo, non stupisce quindi che sia lui a tirare le redini di questo enorme polpettone fantascientifico in cui la madre di tutti i disastri irrompe sull’umanità con le sue ali distruttive. Nello specifico Gorath è un gigantesco pianeta o meglio una sorta di sole assorbente che ingloba al suo passaggio meteoriti, comete e pianeti interi e si dirige minaccioso sulla Terra con le conseguenze che possiamo immaginare. Di sicuro il cinema giapponese non lesina in fatto di esagerazioni e assurdità, per non parlare dell’esaltazione del sacrificio e dell’eroismo a 180 gradi, valori per i quali riesce ad essere più stucchevole del cinema americano. Eppure ai nipponici non si può non volergli bene, sia per la semplicità e la tenerezza con cui provano ad affrontare le peggio prove, tutto questo però porta opere come Gorath nell’Olimpo del Weirdo e del Trash, ed è una strada da cui è difficile tornare indietro. 

Da dire che, a livello tecnico, la pellicola è nettamente superiore ad altre prove del periodo, anche dello stesso Ishirō Honda che ci ha pur sempre regalato capolavori inarrivabili. I modellini usati per il film, tralicci dell’alta tensione, cingolati, trenini elettrici, silos e container, sono incredibilmente realistici, al punto che, se ogni tanto non capitolasse qualche soldatino fintissimo nella scena, avremmo quasi la percezione di assistere a scene reali. Peccato che, in tutto questo, l’esagerazione tipicamente giapponese tenda a trasformare un buon film di fantascienza in una fiera dell’assurdo. Basti pensare che, per evitare il disastro, in questa avventura, viene ideato uno degli espedienti più assurdi mai visti sul grande schermo, ovvero spostare la traiettoria della Terra grazie ad una serie di enormi cannoni posizionati al Polo Sud la cui energia scaturita, trasformerà la Terra in un gigantesco velivolo in grado di spostarsi nello spazio. Lasciando perdere l’assurdità della cosa, non si può far finta di nulla quando assistiamo alla mezza luna che viene fagocitata dal planetoide, come se fosse staccata dalla carta da parati nella cameretta del bambino. 

E visto che al peggio non c’è mai fine, verso gli ultimi venti minuti di film, spunta fuori anche l’immancabile Kaiju Eiga, rappresentato da un imbarazzante trichecone gigante con un costume talmente brutto che sembra la muta di un sommozzatore (Attack of the Giant Leeches docet!), per fortuna Honda deve essersi vergognato lui stesso di questa apparizione, perché la fa fuori nel giro di pochi minuti, distrutta dal laser scaturito da un elicottero. Per il resto il solito eroismo senza vergogna fa capolino nel film grazie all’apporto di scienziati dediti senza tregua a farsi carico del destino dell’umanità capitanati da un “filosofo” (Takashi Shimura) con giganteschi labbroni che beve Whisky per imitare gli americani, e grazie all’abnegazione di un gruppo di piloti spaziali che vanno in giro a rompere i coglioni ai generali, impazienti di andarsi a sfracellare contro Gorath, non prima di averne verificato la massa grazie ad un ridicolo periscopio spaziale (l’astronave sarà stata riciclata da un sommergibile), massa di cui, per tutto il film spuntano ipotesi confuse e contraddittorie, c’è chi dice che Gorath sia 6000 volte più grande della Terra e chi dice che sia la metà come dimensione ma con una massa grande 6000 volte e così via.  A parziale attenuante, bisogna dire che i giapponesi stavolta coinvolgono anche il resto del mondo nelle loro fantasie eroiche ma solo per farlo assistere al loro incoerente e demenziale successo. 

giovedì 16 dicembre 2021

DOLLMAN

 (1991) 

Regia Albert Pyun 

Cast Tim Thomerson, Frank Collison, Kamala Lopez 

Genere Poliziesco, Drammatico, Fantascienza 

Parla di “Poliziotto alieno giunge per sbaglio sulla Terra e scopre di essere un nanetto nei confronti degli altri” 

Ispiratosi all’omonimo personaggio dei fumetti realizzati dalla Quality Comics (successivamente inglobato nell’Universo della DC Comics) Charles Band scrive e produce questo DollMan coadiuvato da Albert Pyun che aveva già distrutto, l’anno precedente, il mito di Capitan America, trasformando un possibile blockbuster in un fiasco colossale. Evidentemente le troppe aspettative distruggono l’estro creativo perché questo DollMan, realizzato con quattro soldi e poche pretese, non è affatto malaccio. Certo siamo relegati ad aeternum nell’olimpo del B Movie fracassone e scartavetrato, ma l’idea di base, che riprende dal fumetto originale solo il rimpicciolimento (in questo caso involontario), è quanto meno geniale. Il mix vincente infatti, è quello di mescolare fantascienza e gang movie con un pizzico di mechasplatter alla Robocop che non guasta mai. Siamo sul Pianeta Arturos, che si differenzia dal nostro pianeta grazie ad una serie di sfondi cartonati che riproducono una città futurista. Addentrandoci nei vicoli però scopriamo che ad Arturos ci sono lavanderie a gettoni gestite da una famiglia di ciccione come quella che viene presa in ostaggio da un criminale senza molta convinzione. 

Entra in scena Brick Bardo (Tim Thomerson), anziana mascella indurita, capelli cotonati bianchi e sempiterno cappottino indosso, ovviamente poliziotto messo a riposo per i suoi metodi poco convenzionali. Infatti dopo aver liberato gli ostaggi senza colpo ferire, viene additato come massacratore di bambini dalla stampa imbrogliona. Successivamente Bardo si ritrova in una specie di discarica dove il suo nemico numero uno, Sprug (Frank Collison), dopo aver sterminato la sua famiglia, vuole neutralizzarlo per sempre. Da notare che ci troviamo davanti uno dei villain più belli di sempre, praticamente una testa attaccata ad una specie di skateboard volante (il resto del corpo è stato disintegrato a puntate da Bardo). La colluttazione che ne segue vede i due nemici inseguirsi nello spazio con due astronavicelle e finire direttamente sul Pianeta Terra dove le dimensioni sono 6 volte maggiori. A questo punto Pyun si sbizzarrisce nel mostrarci edificanti scene di urbano degrado (il film è ambientato nel Bronx) per una decina di minuti, così per introdurci adeguatamente alla seconda parte del film.  


L’astronave di Bardo è incastrata in una discarica (Praticamente il film è tutta una discarica) dove il poliziotto spaziale assiste all’aggressione di Debi (Kamala Lopez) giovane latina in prima linea nella lotta contro il degrado e lo spaccio nel quartiere. Bardo riesce a salvare Debi la quale, sconvolta dalla presenza di questo miniuomo, si carica sotto il braccio l’intera astronave e se la porta a casa. Qui il fratellino Kevin pensa che l’astronave sia un giocattolo e non ha tutti i torti anche perché il veicolo, realizzato in estrema economia, sembra proprio un aereoplanino di cartone. Il proseguo della storia vede Sprug allearsi con il gangster Braxton Red (Jackie Earle Haley ) promettendogli una bomba in grado di distruggere il mondo. In realtà il terrificante ordigno non è altri che una scheda elettronica con un transistor saldato alla cazzo di cane e quando esplode a fine film, praticamente distrugge a malapena una stanzetta. Durata al minimo sindacale (81 minuti di cui gli ultimi dieci sono occupati dai titoli di coda), effetti speciali poverissimi ma la sceneggiatura dopotutto funziona e riesce a rendere godibile questa variante Sci-Fi de I Viaggi di Gulliver.

giovedì 9 dicembre 2021

L’ UOMO PUMA

(1980)


Regia: Alberto De Martino

Cast: Donald Pleasence, Sidney Rome, Walter George Alton

Genere: Supereroi, Fantascienza, avventura

Parla di: “Paleontologo scopre di essere supereroe che deve combattere contro cattivaccio alla conquista del mondo”

Considerarlo uno dei peggiori film di supereroi mai realizzati appare forse ingiusto, sarebbe meglio considerarlo invece uno dei peggiori film mai realizzati in generale. Inutile catalogare questa pellicola di Alberto De Martino limitandone le potenzialità espressive del brutto cinematografico quando si ha per le mani un simile capolavoro di incompetenza e povertà. Realizzato fuori tempo massimo,  sull’onda del successo del Superman con Christopher Reeve (in quell’anno uscì il secondo capitolo), l’Uomo Puma doveva essere la risposta italiana ai blockbusters hollywoodiani ed infatti lo fu, una risposta sbagliata, purtroppo che De Martino pagò con un fiasco clamoroso al botteghino oltre ad una valanga di recensioni negative (anche se, secondo il regista, ci furono anche quelle positive ma non ci è dato di sapere quali). 

Del resto un film che inizia con un palloncino intergalattico che svolazza su modellini di Dolmen e parla di civiltà azteche mentre la voce narrante urla a tutto spiano “Uomo Puma! Uomo Puma! Uomo Puma!” non lascia molte speranze. Se poi il cast comprende una Sidney Rome vestita con un ridicolo tutone in pelle nera che farfuglia nel suo italiano stentato e l’ingombrante presenza di Miguel Ángel Fuentes (massì che ve lo ricordate, era Gordon, il messicano tuttofare ne Il Triangolo delle Bermude) il quale, per scoprire l’identità dell’Uomo Puma, butta giovani americani dalla finestra (così se volano sono il supereroe, altrimenti schiattano!) allora potete stare certi che il capolavoro Cult è dietro l’angolo. 

Protagonista della vicenda è un giovane paleontologo (interpretato dall’americano Walter George Alton, appena uscito dal cast di 10 di Blake Edwards) che scopre di appartenere alla razza aliena degli uomini puma, in grado di vedere in notturna con occhi verdognoli e volare come se stesse nuotando a rana, lo vediamo infatti ondeggiare paurosamente su immagini in sovrimpressione ed ogni tanto camminare addirittura sulle gigantografia di megalopoli occidentali in un gioco di proporzioni assolutamente sbagliato. Gli effetti speciali sono realizzati con tecniche che Hollywood si sogna (negli incubi di ogni effettista americano c’è sempre “L’uomo Puma”), basti pensare che per simulare l’ipnosi dei personaggi soggiogati al volere della maschera d’oro, si usano specchi ondulati e oscene maschere di ceramica con tubicini arrotolati e attaccati sulle tempie. A concludere questa farsa supereroistica all’amatriciana troviamo il buon Donald Pleasence, ormai a chilometro zero nel territorio tricolore, nella consueta parte del cattivone di turno, il diabolico Kobras che, tanto per cambiare, vuole conquistare il mondo.

lunedì 29 novembre 2021

PTERODACTYL WOMAN FROM BEVERLY HILLS

 (1995) 

Regia Philippe Mora 

Cast Beverly D’Angelo, Brad Wilson, Brion James 

Genere  Commedia, Fantastico 

Parla di “Moglie di paleontologo viene maledetta da stregone con nome da artista e si trasforma in uno pterodattilo” 

Realizzato attorno alla figura, ai tempi discretamente famosa, dell’attice Beverly D’Angelo, questo film demenziale prodotto dalla Troma Entertainment e diretto dall’australiano  Philippe Mora, rappresenta uno sforzo produttivo notevole per Lloyd Kaufman e Michael Herz, forti della presenza di un’attrice di punta, conosciuta più che per le sue doti artistiche, per la sua partecipazione alla serie comica del National Lampoon's Vacation e per la sua relazione con Al Pacino a cui diede due figli. Il risultato è la dimostrazione pratica che non basta un’attrice di grido e qualche dinosauro buttato nella mischia (siamo nel periodo di coda dell'exploit di Jurassic Park) a generare un successo, soprattutto se ci si trova a combattere con uno script imbarazzante e completamente spogliato dell’umorismo di grana grossa che ha segnato le produzioni della casa distributrice nuovayorkese. 


Il tentativo di Kaufman e soci di fare il saltone di qualità epura totalmente sangue e frattaglie, violenza e cattivo gusto dal copione generando una commediola stupidotta e senza senso incentrata su un paleontolo  di nome Dick (che trova un uovo di dinosauro all’interno di una zona proibita (ispirandosi qui al classicone Valley of Gwangi con tanto di combattimenti tra dinosauri gommosi animati a passo uno) e viene maledetto da un assurdo stregone che si fa chiamare Salvador Dalì. La maledizione però non colpisce il ricercatore direttamente (interpretato da Brad Wilson) ma la moglie Pixie (Beverly D’Angelo) che nel frattempo se la spassa nella sua villa a Beverly Hills con i figli. Gradualmente la donna rifiuta le uova, si terrorizza davanti a pietanze a base di pollame e si ciba esclusivamente di pesce crudo mangiato direttamente alla fonte, inizia a starnazzare come una gallina finchè il marito non la ritrova all’alba appesa ad un albero. 

 


Dick (il cui nome genera la solita sequela di doppi sensi) non tarderà a scoprire che la moglie, di notte, si trasforma in un ibrido umano/pterodattilo il cui trucco (a metà tra un pollo e un vampiro) è probabilmente la cosa più costosa di tutto il film. Pixie arriva a generare pure un figlio, o meglio un ovetto da cui uscirà un piccolo pterodattilo, da qui la decisione di rivolgersi ad un santone (interpretato da Brion James che fa anche la parte dello stregone Dalì) ma senza risultato. L’unica soluzione al problema è quella di tornare nella zona desertica e chiedere scusa a Salvador Dalì. Con una trama infarcita di dialoghi senza senso per oltre 100 minuti, con effetti che oscillano tra un make-up decente a mutazioni  che neanche negli anni cinquanta erano così brutte, non si poteva certo sperare di fare il saltone di qualità. L’unica a saltare infatti  è la  D’Angelo che zompetta a gambe aperte e oscilla la testa tentando di imitare una gallina, ma per Kaufman e tutta la Troma non c’è neanche la speranza che questa faccia le uova d’oro.

lunedì 22 novembre 2021

THE GARBAGE PAIL KIDS MOVIE

 (1987) 

Regia Rod Amateau 

Cast: Mackenzie Astin, Anthony Newley, Katie Barberi 

Genere: Demenziale, Fantascienza, Commedia 

Parla di “mostriciattoli schifosi usciti da carte da gioco per bambini nerd, si trasformano in sarti per aiutare ragazzino nelle sue conquiste amorose” 

Ok, d’accordo che realizzare un film tratto da una serie di figurine non è cosa facile ma con un budget, tutto sommato cospicuo, di un milione di dollari si poteva pensare almeno di spremersi di più le meningi e tentare di scrivere una storia meno cretina di questa. The Garbage Pail Kids (lett. I ragazzi del bidone dell’immondizia) è una serie di figurine realizzate nel 1985 dalla Società americana Topps Company basate su personaggi mostruosi e demenziali che da noi arrivarono negli anni novanta con il nome di Sgorbions, fregiati da nomignoli come Donata Avariata, Riccardo Superlardo o Gustava la Sbava. Insomma il paradiso dei ragazzini in cerca di sensazioni trash, cosa potevamo dunque aspettarci da un film ispirato a cotanta bruttezza? Ecco quindi che il regista televisivo Rod Amateau (deceduto nel 2003), che da noi era conosciuto per la commedia “Dimmi dove ti fa male?” con Peter Sellers, ci confeziona una commedia fantascientifica tipicamente anni ottanta che sembra uscita dalla fucina della Full Moon Entertainment di Charles Band. 

Mostriciattoli realizzati con attori nani che indossano orribili mascheroni rotondi le cui misere espressioni facciali sono date da piccoli congegni meccanici sottopelle. La trama è incentrata sul folle amore del quattordicenne Dodger (Mackenzie Astin) per la bionda Tangerine (Katie Barberi) e per questo viene bullizzato dal suo fidanzato Juice e la sua combriccola di teppisti in tutina da aerobica colorata. Lavorando nel negozietto di cianfrusaglie del Capitano Manzini (Anthony Newley ovvero il dottor doolittle del 1967), scopre uno strano bidone che, analogalmente al vaso di Pandora, non deve essere mai scoperchiato. Purtroppo l’intervento dei bulletti rovescerà il bidone travasando fuori una specie di slime verdastro che libererà i sette mostriciattoli ovvero Greaser Greg (interpretato da uno dei “nani” più famosi dello schermo, Phil Fondacaro conosciuto per le sue interpretazioni di Willow e il primo Troll), Valerie Vomit, lo scureggione Windy Winston, Ali Gator (goloso delle dita dei piedi umane), l’orrendo bebè Phil Foul, il ciccione brufoloso Nat Nerd che si piscia sempre addosso e la bavosa Messy Tessie. 


A questo immaginerete una serie di situazioni al limite del buon gusto e del politically uncorrect, invece i mostriciattoli si rivelano essere dei grandissimi…sarti! E per aiutare il piccolo Dodger a conquistare Tangerine confezionano sbarluscenti abitini per organizzarle una sfilata di moda. Peccato che Tangerine, in combutta con Juice, ordisca alle spalle del ragazzino, lo fa sbattere in un cassonetto e fa rinchiudere i mostri in un assurdo Istituto per brutti in compagnia di nani, pagliacci e addirittura Babbo Natale. Tra battute penose, ambientazioni trash anni ottanta e un compendio narrativo che si snoda come un compitino da prima elementare, il film assume nella sua povertà creativa un’aura sfigata che lo rende un prodottino di culto (si paventava addirittura un reboot nel 2012 fortunatamente cancellato) soprattutto nel suo momento di topica bruttezza in cui il gruppo dei ragazzi del bidone canta in coro un’assurda canzoncina che sembra fuoriuscita da un musical organizzato in oratorio. A metà tra un prodotto “ricco” della Troma e la demenzialità assoluta del Troll 2 di Claudio Fragasso, The Garbage Pail Kids ha tutte le carte in regola per farvi innamorare, ma solo se siete puri e duri estimatori del brutto tout court. 

lunedì 15 novembre 2021

LA CASA DEL MALE

 (The House Where Evil Dwells, 1982)

Regia Kevin Connor

Cast Edward Albert, Doug McClure, Susan George

Genere: Horror

 Parla di “Famigliola Americana deve vedersela con ridicoli fantasmi dell’antico Giappone”

Negli anni di gioventù, quando si scovavano vecchi film nelle Tv private al pomeriggio, il nome di Kevin Connor girava abbastanza frequentemente, grazie a quegli splendidi film d’avventura tratti dai romanzi di Edgar Rice Burroughs come La Terra dimenticata dal tempo (The Land That Time Forgot, 1975) o Centro della Terra: continente sconosciuto (At the Earth's Core, 1976) e Gli uomini della terra dimenticata dal tempo (The People That Time Forgot, 1977), una sorta di trilogia avventurosa che si ispirava anche a Il mondo perduto di Sir Conan Doyle, ottimi prodotti di intrattenimento con tanti bei dinosauri a passo uno che divertivano noi piccini amanti dei mostri. Dulcis in fundo, Connor ha girato uno degli horror a episodi più belli che la Amicus abbia mai sfornato. Parliamo de La Bottega che vendeva la morte (From beyond the grave, 1973) interpretato da un magnifico Peter Cushing. 

Con queste premesse risulta assai doloroso parlare di questo The House Where Evil Dwells, incursione asiatica del genere Haunted House, perché se da un lato va elogiato un buon cast e il coraggio di portare il genere british horror in Giappone, dall’altro l’operazione fallisce miseramente nella sua realizzazione scadendo senza pietà nel trash più assoluto. Si inizia con un delitto passionale ambientato nel Giappone del 1840 dove Otami, una giovane donna invita a casa l’amante ma il marito Samurai li scopre e li affetta a colpi di Katana per poi fare Hara-kiri. Fin qui niente di speciale, la scena è ben fatta e dimostra senza alcun dubbio che il vecchio Connor ancora ci sa fare. Poi si torna ai giorni nostri quando il giovane reporter Ted (Edward Albert) si stabilisce con la famigliola proprio nella casa dell’eccidio che l’amico console Alex (Doug McClure) gli ha procurato a basso costo. E anche fin qui tutto ok, niente di nuovo sotto il Sol Levante ma almeno il film sembra decoroso. 

I problemi iniziano quando cominciano ad apparire i fantasmi dei tre morti, che vediamo in trasparenza bluastra mentre confabulano animatamente tra di loro in giapponese, ogni tanto uno dei tre si infila nel corpo della moglie di Ted, Laura (Susan George) per innescare una tresca tra la donna e Alex, qualche piatto (addirittura una maschera) salta dalla parete e si giunge allo zenith più estremo quando la figlia Amy (Amy Barrett) vede uno dei fantasmi giapponesi che fa le smorfie nella zuppa per poi degenerare con l’avvento di mostruosi granchi che borbottano comicamente come lottatori di Sumo. Non si capisce se l’intento comico del film è voluto, di certo le scene che si vorrebbero più terrificanti diventano invece quelle più esilaranti, come la sequenza di Ted che va a fotografare delle pescatrici in apnea e cade nell’acqua dove viene spinto giù da una nuotatrice in topless. La George ci sollucchera con nudi più o meno espliciti ma fa delle smorfie veramente buffe quando deve invece esprimere rabbia e dolore. Anche la scena dell’esorcismo da parte di un monaco zen raggiunge livelli di ilarità assoluta quando spinge fuori di casa i tre fantasmi a botte di acqua santa (o roba simile). Finale alla Bud Spencer e Terence Hill con botte da orbi e pareti che si smontano da tutte le parti con qualche sequenza di sangue che non salva comunque l’opera dal disastro totale.

venerdì 5 novembre 2021

BIANCANEVE E I SETTE NANI

(1995) 

Regia Luca Damiano 

Cast Ludmilla Antonova, Vicca, John Walton 

Genere; Fantasy, Porno, Commedia 

Parla di “Biancaneve scopre il sesso grazie ai nanetti mentre la regina cattiva cerca di avvelenarla, ma ci penserà il principe azzurro a darle una svegliatina” 

Negli anni mi sono dovuto convincere del fatto che per trovare dei veri cult all’interno del cinema trash bisogna andare a ricercarli nel mercato del porno, dove spulciando attentamente si trovano delle vere e proprie chicche. E’ il caso di questo imbarazzante capolavoro di Luca Damiano (pseudonimo del regista Franco Lo Cascio), conosciuto anche con il geniale titolo “Biancaneve sotto i nani” che replica in versione a luci rosse l’omonimo cartone animato della Disney. Prodotto tra Italia e Ungheria, il film vede il giusto confronto tra due indimenticabili pornostar dell’est europa come l’ungherese Ludmilla Antonova (conosciuta anche come Camilla Astori o Julia Larot) nel ruolo di Biancaneve e la russa Vicca, al secolo Viktoria Kokorina nel ruolo della regina cattiva. 

Come nell’omonima favola dei fratelli Grimm anche qui la regina malvagia costringe la principessa Biancaneve a fare la servetta per evitare che la bellezza di quest’ultima oscuri la sua, per questo la monarca consulta lo specchio magico in cui appare un assurdo vecchietto vestito come un monaco che parla in napoletano stretto. Nel frattempo Biancaneve, tra una pulizia e l’altra, scopre le gioie della propria vagina. Da parte sua la regina si gode non meno di quattro stalloni alla volta, coadiuvata dalle due ancelle che ne preparano i falli a colpi di fellatio. Sempre più gelosa della principessina, la malvagia regnante la fa condurre nel bosco dal cacciatore assassino che si chiama LAIDS, e qui si produce una delle più aberranti battutacce del film: 

Biancaneve “Oh no! Che vuoi fare? Non mi vorrai uccidere? Abbi pietà.”  

LAIDS” Accidentaccio! Non posso ucciderti” Biancaneve. Tu mi conosci. Che disdetta! Ed io conosco te.”  

Biancaneve: “L'AIDS. Se lo conosci non ti uccide”.  

Una scena del genere neanche gli Squallor erano riusciti a immaginarla, ma il meglio (o il peggio) deve ancora venire. Arricchita da effetti grafici da filmino delle vacanze, la fuga di Biancaneve trova la sua nemesi in una baita nel bosco dove scopre gli ormai arcinoti lettini dei nanetti. Nel frattempo il cacciatore LAIDS riceve il giusto premio sessuale dalla regina per la missione conclusa, recando alla donna il cuore di Biancaneve che non è altro che un gommino rosso di quelli che compri in cartoleria. A questo punto il geniale Lo Cascio si cimenta in un montaggio sdoppiato che vede da una parte l’educazione sessuale di Biancaneve da parte dei laidi nanetti che sono veri attori nani tra cui una specie di sosia di Roberto Marotta, allora conosciuto per lo spot “Ciribiribi Kodak” che infatti viene citato a dismisura.; dall’altra invece vediamo l’amplesso prolungato tra regina e cacciatore che si concluderà tragicamente quando la donna scoprirà l’inganno. La regina a questo punto invoca la magia nera in un altro tripudio di effetti grafici da prima comunione e diventa un vecchietto vestito da donna con un nasone enorme e un gigantesco neo in faccia. 

Il resto della fiaba lo conosciamo a menadito, c’è il principe azzurro che, incitato dal padre a trovarsi una consorte e sfornare un erede, gira per i campi a zomparsi le contadine fino a giungere alla baita della principessa dormiente, e non sarà solo un bacio a svegliarla! Incredibilmente lungo (dura quasi due ore), arricchito da costumi di carnevale, spadoni di plastica e la musichetta ossessiva di Eduardo Alfieri che sembra una marcia medievale in salsa synth-pop, il film è comunque godibile dall’inizio fino alla fine. La Antonova sembra sempre drogata fino al midollo con quel suo sorrisino ebete con cui cerca di convincerci della sua innocenza, la Kokorina invece mantiene inalterata la sua marmorea espressività russa. I nanetti, i cui nomi resteranno per sempre celati al mondo del cinema, invece sono spassosissimi nella loro anarchica caciara da bar dello sport. Insomma la fiaba più famosa del mondo trova qui una diversa connotazione cinematografica che ci fa rimpiangere i vecchi cinemini porno dove si andava a vedere veri film e non squallide soggettive amatoriali buone solo per una pugnetta. Tra le maestranze tecniche del film, a sorpresa, appare il nome di Joe D’amato come direttore della seconda unità.