giovedì 28 novembre 2013

KONG URAGANO SULLA METROPOLI (Aka KATANGO)

(Furankenshutain no kaijû: Sanda tai Gaira, 1966)

Regia
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Nonostante il titolo originale richiami l'altro classico kaiju eiga "Furakenshutain tai Baragon" (Frankenstein alla conquista della terra), in realtà stiamo parlando di un film totalmente scollegato, qui le creature sono scimmiesche e si ispirano ovviamente al grande successo di King Kong, addirittura raddoppiandone la presenza con ben due gorilloni giganti, di cui uno è il frutto dell'altro, dal momento che il solito spiegone scientifico vuole che il mostro cattivo, di abitudini anfibie che vediamo sin dall'inizio scorticare un mostruoso polipone gigante per poi sballottolare un mercantile come fosse una barchetta giocattolo (come del resto lo è), è il risultato di una cellula persa per caso nelle acque marine da parte del kong buono, allevato dal solito gruppo di scienziati e poi fuggito nella foresta. 

Sarà quindi il capo del team scientifico, un baldo dottore americano (interpretato da Russ Tamblyn, grande attore che rivedremo nel nuovo film di Tarantino "Django Unchained") necessario al film per essere esportato all'estero, dopo essersi recato sulle montagne innevate vestito con abiti primaverili (le solite imprecisioni cinematografiche o l'ennesima dimostrazione della baldanza a stelle e strisce?), a richiamare il mostro buono per farlo combattere contro il bruttissimo scimmione anfibio. Peccato che succede proprio il contrario e durante uno scontro con l'esercito che tira fuori i classicissimi cannoni laser (sempre gli stessi in tutti i film di mostri giganti) il kong de noialtri salva il fratellastro cattivo, ma la collaborazione è destinata a durare poco perchè quando la scimmia umida rapisce la bella dottoressa giapponesina che ha allevato l'altro kong, si scatena l'inferno a base di balletti tra gorilloni, pelacci umidi che si sfaldano contro palazzoni di cartapesta e dosi massicce di napalm che alla fine distruggono tutto. Non senza prima averci propinato spiegazioni scientifiche da delirio e canzoncine da boyscout imbarazzanti.

Nonostante questo la mano del grande Honda rende tutto quasi credibile, galvanizzando lo spettacolo con una splendida fotografica e attacchi urbani efficaci, avvincenti e anche cattivelli (vedi il kong che si mangia una donna). Chissà se Joe Dante non si sia ispirato alla teoria della riproduzione cellulare in acqua, da parte dello scimmione nero, per elaborare le famose regole alla base dei suoi Gremlins? Inizialmente il Kong del titolo era Katango, ma per ovvie ragioni di sfruttamento del personaggio, i cari distributori italiani pensarono bene di cambiare il titolo.

giovedì 21 novembre 2013

RITI, MAGIE NERE E SEGRETE ORGIE NEL TRECENTO

(Id. 1973)
Regia
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Parlare male del cinema di Renato Polselli è un pò come sparare sulla croce rossa, in realtà quando si raggiungono certi livelli in cui la bruttezza rasenta il sublime, ecco che certe opere rimangono impresse nella storia e diventano argomento di disquisizione per le successive generazioni. E' questo il caso di "Riti, magie nere...", un film che è praticamente un taglia e cuci di sequenze scombinate fra loro, dove la coerenza narrativa è decisamente negata a fronte di un guazzabuglio in cui il soggetto vero e proprio risulterebbe incomprensibile se qualche magnanimo attore non lo spiegasse verso la fine dello spettacolo. Non tutto il male viene per nuocere, perchè poi alla fine questo film potrebbe risultare anche una sorta di interessante esperimento metacinematografico se non conoscessi le reali intenzioni dell'autore, ovvero realizzare un pretesto scenico per giustificare le copiose scene di nudo che albergano per tutti i fotogrammi, e se Rita Calderoni mantiene inalterata la sua unica espressione recitativa per tutta la durata del film poco male, perchè l'occhio dello spettatore è distratto dalle sue enormi e prosperose tettone. 

Inoltre, essendo il film girato in piena epoca beat è pregno di sequenze psichedeliche, a cominciare dall'acidissima messa satanica con gli officianti in tutina aderente rossa che strappano il cuore alla vittima di turno e lo fanno bere al cadavere di Isabel, strega bruciata secoli prima quivi rappresentata dalla stessa Calderoni truccata da zombi. Alcuni frammenti panoramici appaiono e scompaiono in modo ossessivo e ripetitivo, espressività artistica? No, solo necessità di arrivare a un'ora e trenta, e per questo obiettivo Polselli non ci risparmia nulla, a cominciare dalle riprese dei paesani, un gruppo di vecchietti assoldati nelle campagne che continuano ad incitare al rogo con le loro splendide bocche sdentate. 

Nel minestrone c'è anche spazio per il vampirismo, peccato che i vampiri succhiano il collo senza morderlo e sopratutto senza fare uscire sangue, urla e strilli iper reverberati,  un pò di lesbo, qualche sequenza di tortura per giustificare il titolo ed ecco qua un cult assoluto oggi improponibile nella nostra epoca ma proprio per questo ancora più prezioso come testimonianza di una libertà stilistica di una generazione di cineasti pronti a tutto per sfornare prodotti popolari, vera e propria merce di richiamo per un pubblico affamato di nudità gratuite e sangue a profusione. Qua e la c'è anche una sorta di richiamo gotico al cinema di Corman, con attori baffuti che parlano davanti a una lampada psichedelica di colori diversi, ma è solo un lampo momentaneo, subito dopo spunta fuori una tettona urlante e, tra uno sbadiglio e l'altro, il pubblico può ancora godere. 




giovedì 14 novembre 2013

NIGHT OF FEAR

(Id. 1972)
Regia
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Quello che caratterizza maggiormente il cinema exploitation australiano (detto anche Ozploitation) è il rapporto con gli spazi e la natura da parte dell'uomo, in particolare nel cinema horror/thriller dove l'interazione tra natura e civiltà assume connotati drammatici, questo a partire da quel capolavoro del 1977 che si intitolava "Long Weekend" ma già, qualche anno prima, se ne intravedevano i primi segnali grazie a perle come questo piccolo titolo diretto da Terry Bourke, misconosciuto regista la cui fama non supererà mai i confini australiani. Peccato perchè in appena 50 minuti, questo thriller riesce a condensate tutti gli elementi propri di un genere che anni dopo straborderà sopratutto in quantità cinematografica grazie a roba come "Wrong Turn", "Le colline hanno gli occhi" fino a quel gioiellino di "Wolf Creek" che ben prosegue il discorso qui affrontato. Del resto una terra dove la maggioranza dei serpenti è dotata di veleno mortale, dove i coccodrilli nuotano in mare, dove gli squali azzannano i surfisti e dove anche certi uccelli (leggasi i Casuari) sono particolarmente aggressivi, non poteva che partorire ottimi esempi di survival horror.
 
Il punto di partenza di "Night of Fear" è sicuramente Tobe Hooper, infatti qui il protagonista è un maniaco farmense che ansima come un gorilla in orgasmo, porta sulla spalla un topastro bianco e zoppica con una scarpa ortopedica dotata di supporti in metallo. Il suo hobby preferito è torturare gatti tristemente prigionieri in una gabbia ma sopratutto inseguire giovani donna che hanno la sventura di avvicinarsi troppo alla sua proprietà. Tutto il film si svolge nell'arco temporale di 24 ore, non vengono pronunciati nomi anche perchè non ci sono praticamente dialoghi, a parte un breve monologo radiofonico subito interrotto dall'incidente stradale che porterà alla terribile evoluzione nella giornata di una giovane discinta.
 
 
Bourke si scatena in inquadrature bislacche, un montaggio che sembra un frappè di flashback e flashforward, con un altalenarsi piuttosto fastidioso di scene che devono ancora accadere, primi piani di gatti e topi che rosicchiano e angolazioni che si fatica a capire da dove partano. La follia del progetto, tuttavia, da una marcia in più all'insieme e le atmosfere malsane che si vengono a creare superano in degrado e malattia anche quel "brutes & savages" (da noi conosciuto come "Quel motel accanto alla palude") a cui il film si ispira maggiormente. La brevità del racconto e la crudezza della narrazione in sè concludono in grandezza l'opera che, se non disturba uno spettatore ormai abituato a queste cose, di sicuro non lascia indifferenti.

mercoledì 6 novembre 2013

TEENAGE ZOMBIES

(Id. 1959)
Regia
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Sul finire degli anni '50 scoppiò improvvisamente la moda dei teen movie ispirati all'horror, da Frankenstein all'uomo lupo, tutti i mostri più classici ebbero la loro versione con protagonisti giovani virgulti irrequieti e ribelli che anticipavano i contrasti e il malessere esploso poi negli anni della contestazione. In realtà questi prodotti erano realizzati per il pubblico adolescenziale che amoreggiava in macchina alle proiezioni del drive-in, opere per lo più dozzinali e prive di spessore anche se, come nel caso di questo, nascondevano nei loro fotogrammi una notevole dose di messaggi particolari. Questo di Jerry Warren, sottovalutato produttore americano specializzato in junk movie pazzeschi, è forse il meno conosciuto ma anche il più emblematico della serie.

Oltre a trovare personaggi simbolo del horror cinema a basso costo come la Vamp crudele in perfetto stile Vampira, una sorta di scienziata, interpretata da Katherine Victor, dedita a fare esperimenti su un'isola deserta, l'immancabile servo mostruoso a cui il classico nome Igor viene sostituito da un ben più sovietico Ivan (potere della guerra fredda!) interpretato da un Chuck Niles spiritato e zombesco, figura ancor oggi di culto, anche se per pochi. Non manca neanche il classico Gorilla dal costume ridicolo, qui trasformato in un incredibile scimmia zombi. In tutto questo però esiste un elemento geniale alla base del filmaccio, elemento che ricorrerà in futuro nel cinema zombesco. Non è infatti il rito voo dooo a trasformare le vittime in zombi, come finora mostrato nei film di genere, ma bensì un gas inventato dalla perfida dottoressa, capace di trasformare i malcapitati in docili servi dei suoi crudelissimi piani. Un espediente questo che ricorrerà anche in film come The Return of the Living Dead fino al più recente Planet Terror.
Ovviamente i teenagers del titolo riusciranno a cavarsela e a salvare le loro belle trasformate in automi dopo aver individuato l'antidoto fra le mille fialette della donna.La scena più weirdo del film è quando il gorilla zombie entra nel laboratorio e lecca il vaccino da terra, risvegliandosi visibilmente incazzato e pronto a darle di santa ragione ai cattivoni dell'isola. In ogni caso risulta impossibile non leggere fra le righe di questa piccola pellicola un messaggio: il gas è la metafora del passaggio dall'adolescenza alla vita adulta, sostituitelo con una cravatta e una 24 ore ed avrete dei teenagers trasformati in zombi docili e privi di volontà, pronti ad asservire il mondo del lavoro e la patria.

giovedì 31 ottobre 2013

BEYOND LOVE AND EVIL

(La philosophie dans le boudoir, 1971)

Regia
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Il titolo originale si rifà a una raccolta di dialoghi a opera del Marchese De Sade, giusto per rimanere in tema con i contenuti di questa pellicola made in France e ridistribuita all'estero come "Beyond Love and evil" nel tentativo improbabile di mescolare Sade con Nietzsche sostituendo l'aggettivo "Good" con il più freakkettone Love. Non a caso l'amore libero è il leit motiv di questa confusionaria sarabanda psichedelica che inizia con uno scheletro crocefisso e dato in pasto alle fiamme, tanto per rendere più suggestivi e minacciosi i titoli di testa, a seguire assistiamo al malaugurato atto del giovane protagonista di bussare alla porta di una fastosa villa curata a vista da un branco di cani feroci.
Mentre in sottofondo l'addetto alla colonna sonora Jean-Claude Pelletier copia in maniera imbarazzante "In a Gadda da Vida" degli Iron Butterfly, vediamo orge e baccanali senza sosta ad opera di capelloni truccati con maschere d'argento e sfoggio abbondante di lustrini e paillettes, donne nude dipinte in stile body art, serpenti, leprotti, criceti e altre bestiole che scorrazzano allegre tra i tavoli mentre il padrone di casa brinda alla libertà sessuale. Come se non bastasse le orge si alternano a scene paradisiache tra albe nei boschi, mandinghi in mutandoni di pelle che passeggiano con pastori tedeschi e una specie di caccia alla volpe dove la vittima è una donna nuda che viene inseguita nei boschi  prima di essere acchiappata da un cerimoniere vestito come i Beatles nella versione hippie con tanto di riportino.
 Non contento di ciò il padrone di casa libera una specie di maniaco sessuale dai tratti bestiali che si piglia una per poi stuprarsela allegramente in cantina per il gustoso piacere voyeuristico dei convitati. Free jazz a manetta accompagna scene lesbo mentre il nostro eroe in camicia trasparente guarda perplesso quello che accade attorno a lui, all'interno di stanze affrescate con opere pop surrealista.

E ancora trenini dell'amore a ritmo di samba, pittori che dipingono intenti a defecare fino a raggiungere il top del cattivo gusto assistendo alla disgustosa esibizione di una ragazza che si masturba con viscidi polpi e merluzzi vari, con grande abbondanza di primi piani dettagliati tanto per far venire un po' di mal di mare allo spettatore. Tutto questo da parte del sedicente regista Jacques Scandelari con pretese arty che sfociano nel weirdo assoluto, delirante almeno come il nome della protagonista che si titola solamente Souchka e della quale, ad oggi, questo risulta l'unico film interpretato.

giovedì 24 ottobre 2013

CIAK...SI MUORE!

(Id. 1974)
Regia
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Più che regista, Mario Moroni ha un discreto backstage come sceneggiatore in collaborazione con Tanio Boccia, soprattutto per quanto riguarda il genere peplum, ed effettivamente di film ne ha diretti pochini, di bassa qualità e, ovviamente, di scarso successo. Ciononostante, questo "Ciak si muore!", a mio personale parere, non è un giallo da disprezzare, a patto che lo si guardi dall'ottica giusta, ovvero che non lo si prenda eccessivamente sul serio. Siamo di fronte infatti ad un classico slasher italiano degli anni'70, girato in economia ma dotato di un taglio ironico che lo rende anche divertente nel suo insieme.
Certo se lo si giudicasse per la storia o la sceneggiatura, siamo di fronte al deserto più assoluto con una trama fumettosa che ricorda tanto i noir comics di quell'epoca. In sintesi lo si potrebbe considerare un omaggio ai vari Diabolik, Satanik e compagnia bella che affollavano lietamente le edicole del tempo che fu. Non a caso il finale vede una sorta di musical rappresentato in un teatro, dove si svolgono le ultime scene, in cui si rappresenta la tradizionale lotta tra bene e male con quest'ultimo rappresentato da una serie di comparse vestite proprio come Diabolik, forse un omaggio a Mario Bava, di sicuro una citazione spassosa almeno quanto la macchiettistica recitazione di Antonio Pierfederici nel ruolo del regista bizzoso e autoreferenzialista che crede di essere un artista mentre tutti lo considerano un mentecatto.
Ovviamente il serial killer che impazza sul set di un film ancora più delirante è proprio un membro della troupe frustrato, ma l'importante per Moroni è più che altro comporre metraggio mettendoci dentro più donnine possibili con un siparietto festoso/psichedelico in cui Annabella Incontrera si dimena davanti alla macchina da presa compiacente soprattutto nello snocciolare primi piani vorticosi. Nell'insieme l'indagine è condotta da un George Ardisson (ma chiamatelo pure Giorgio) poco calato nel personaggio ma molto interessato alle bellezze presenti nella troupe. Peccato che il fallimento di tutta l'operazione, oltre alla estrema semplicità di una trama giallistica da romanzo rosa, stia nella poca capacità di gestire la pur minima sequenza d'azione che raggiunge il suo zenith nella terrificante citazione dell'omicidio nella doccia di hitchcockiana memoria. Probabilmente avrò visto di peggio ma tutto sommato alla visione di questo fumettone malsano mi sono anche divertito!



martedì 15 ottobre 2013

ARCANA

(Id. 1972)
Regia
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Miracolosamente riesumato dagli archivi cinematografici della cineteca nazionale in versione integrale, questo controverso film fu l'ultimo prodotto cinematografico dell'eccentrico regista Giulio Questi, coadiuvato dall'inseparabile sceneggiatore Franco Arcalli, seguito poi da una serie di opere per la televisione e una raccolta di cortometraggi autoprodotti di recente fattura. Contrassegnato dal fallimento della casa produttrice e la conseguente invisibilità nel panorama cinematografico di quegli anni, Arcana fu il capitolo sfortunato di un artista vero, che per la sua forza visiva e surrealista si pone tra Cavallone e Antonioni, passando da Bunùel fino a Jodorowski con il valore aggiunto di una familiarità dei luoghi con cui lo spettatore italiano inevitabilmente si confronta.
 
In questo caso la vicenda si svolge a Milano, in una fase in cui l'emigrazione di massa dal sud portava le persone a sbarcare il lunario con qualunque mezzo, ed infatti la protagonista, vedova di un operaio della metropolitana ucciso da un convoglio, cerca di guadagnare con sedute esoteriche di gruppo, letture della mano, tarocchi e fondi di caffè. A collaborare con lei anche il giovane figlio con cui ha un rapporto al limite dell'incesto, il ragazzo oltre a accarezzare e schiaffeggiare la clientela durante le riunioni estatiche, si dedica a giocare con i bambini della scala, appendere oggetti su corde attorno all'ingresso della metropolitana e attraversare i corridoi bui della propria abitazione munito di un minaccioso coltello con cui, ad un certo punto, comincerà a torturare la madre per costringerla a rivelargli la ricetta di un filtro d'amore per irretire una giovane incontrata in metropolitana.
 
Alla fine la ragazza dovrà effettuare l'aborto, la madre vomiterà ranocchie dalla bocca mentre sulle strade impazzeranno i soldati a sparare in mezzo alla folla mentre sullo schermo passeranno immagini di danza offerte da statiche famiglie siciliane al suono ipnotico di un violino. Un'opera visionaria che mantiene i piedi per terra per un'oretta ma che sul finale scatena un circo delle assurdità che mette a dura prova la comprensione dello spettatore. Arcana affascina senza dubbio per il potere delle immagini evocate in luoghi dove il sogno sembra mescolarsi con la realtà.

Mirabili in tal senso le immagini quasi oniriche nelle gallerie della metropolitana o i percorsi nei corridoi dello spettrale condominio dove si svolgono le vicende, rappresentazione da incubo di un urbanizzazione del degrado che produce aberrazioni sociali. Lucia Bosè, allora quarantenne, nel ruolo della madre incestuosa riesce a trasmettere quella matura sensualità che solo certe donne riescono a dare, grazie ad uno sguardo intenso e un corpo ancora in grado di far girare la testa. Arcana non è sicuramente un pasto facile da digerire ma se si ha pazienza di arrivare al digestivo, il gusto al palato è uno di quelli che non si scorda facilmente.