(Helga, la louve de Stilberg, 1977) Regia Alain Payet
Cast Malisa Longo, Patrizia Gori, Dominique Aveline
Parla di “giunonica dominatrice dirige castello prigione a colpi di frusta ma soprattutto a botte di sesso”
Nonostante il titolo evochi suggestioni nazisploitation e nonostante il film stesso sia un tentativo alquanto rozzo di clonare il successo di Ilsa, la belva delle SS, in quest’opera gli unici assenti sono proprio i nazisti. In realtà non si capisce bene né l’ambientazione né il tipo di dittatura che viene instaurata all’inizio. Sappiamo solo che c’è un omone barbuto con casacca piena di medaglioni sullo stile di Pinochet, che si trastulla con una serva di colore mentre tiene una riunione con i suoi generali. E’ lecito quindi supporre a qualcosa tipo dittatura sudamericana, anche vedendo le divise dei soldati che ricordano quelle apparse in “Emanuelle in America” nell’arcinoto finto snuff inserito nel film di Joe D’Amato.
Resta comunque un W.I.P. (women in prison) di provenienza francese costruito (è proprio il caso di dirlo) sul corpo di Malisa Longo interprete di Elsa, giunonica matrona bisessuale dalla frusta facile che, nello specifico, viene incaricata di gestire la prigione/castello di Spilberg (che nell’originale era Stilberg ma la distribuzione italiana lo ha modificato forse per omaggiare il celebre regista) dove vengono recluse un gruppo di prigioniere in casaccona marrone sotto alla quale non portano neanche le mutandine, tant’è che le vediamo dormire nude con le scarpe (sic!), così tanto per facilitare i pruriti lesbo/saffici che inevitabilmente il genere impone. Ogni settimana le ragazze vengono selezionate da un certo doc che ne sceglie una a caso con cui sollazzarsi in cambio di bottiglie di vino ai soldati. Poi arriva Elisabetta (Patrizia Gori), la figlia del capo ribelle Vogel con cui Elsa tenta di stabilire rapporti sessuali fallimentari.
Se già la trama non dice nulla di interessante, il film risulta ancora meno attraente, sia per l’assenza di scene sessuali vere e proprie ma solo ridicoli sdrusciamenti nella paglia e qualche smanacciata sul seno, sia per la mancanza di scene violente eccettuata qualche loffia frustata qua e là. Insomma se il tentativo era quello di imitare la Thorne, siamo lontani mille miglia dall’originale. Dulcis in fundo il combattimento finale con i ribelli oltre ad essere montato alla cazzo di cane, è talmente incasinato da far pensare che il regista Alain Payet (noto soprattutto nell’ambiente a luci rosse con lo pseudonimo di John Love) sia andato a farsi una sveltina mentre gli attori correvano su e giù per il fiabesco castello.
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